La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

mercoledì 2 giugno 2010

Le meraviglie dell'archeologia di Lucca, soprattutto romana; ovverosia, un invito «Visit Roman Lucca, please, visit» (un po' trombonesco)











Giulio Ciampoltrini

Le città sepolte: storie ritrovate di Lucca

Il sobrio Rinascimento dei palazzi pubblici e privati, con il nitore della facciata di San Paolino e la misurata forza delle cortine e dei bastioni, coniugato ai giochi di luce e di colore delle facciate delle chiese romaniche, impreziosite dalle tarsie di pietre policrome: questo è il volto con cui Lucca si presenta e si voleva presentare già dal Cinquecento; la sintesi suprema è nel sorriso perduto di Ilaria del Carretto, un Rinascimento che ha ancora i sapori del Medioevo.
Ma da questa veste austera, come la volevano i Lucchesi del Medioevo e del Rinascimento e come forse anche quelli di oggi, erompe qua e là un passato da non dimenticare: violento nel segno dell’anfiteatro, esaltato dalle finezze neoclassiche del Nottolini, ma percepbile soprattutto nella forza delle archeggiature di marmo, pietra, mattone che danno il segno del monumento flavio, coevo al Colosseo, versione municipale delle costruzioni dei Cesari; noto solo a qualche appassionato che abbia voglia di addentrarsi nelle vie minori nei ruderi del teatro, denudati da recuperi degli anni Cinquanta del secolo scorso.
Ma la città sepolta – o meglio, la sequenza di città sepolte – sotto le pietre medievali o gli intonaci e gli stucchi del Cinquecento dà i suoi segni soprattutto nell’ordito urbanistico, nella ritmata sequenza di isolati rettangolari e quadrati che fu voluta dai fondatori e che, divenuta da rigida struttura un duttile gioco di forme, è ancora il vincolo del cuore della città, ripreso con diverse misure nei quartieri di fondazione cinquecentesca.
Città sepolte, perché la sepolta Lucca romana, riemersa in trent’anni di scavi eterogenei, onnivori, figli della tutela e (quasi) mai dell’amore per la storia sepolta, si è rivelata sequenza di diverse città.
La prima, è la colonia Latina, la città voluta come fortezza ai confini dell’Italia da Roma, dopo aver sottomesso i Liguri, a pena di venti anni e più di guerre, in allenza (societas) con la città etrusca di confine, Pisa, forgiatasi a madre di guerrieri – come rammenta Strabone – nel lungo conflitto con i Liguri; un conflitto voluto più dall’egemonismo romano (come ci hanno insegnato gli scavi del Romito di Pozzuolo o di Ponte Gini di Orentano) che da una contrapposizione etnica largamente estranea al mondo antico. Volto di pietra – il bianco del calcare delle cave dei Monti Pisani coniugato ai toni caldi del travertino di Rigoli – per le mura, le porte, le torri erette dai fondatori, nel 180 a.C., ritrovate da Daniello de’ Nobili ai primi del Seicento in una romanzesca periegesi di cantine e trovamenti quando Lucca stava per completare la nuova cerchia rossa di mattoni e bianca di stemmi, di leoni, di statue di Santi protettori; volto di pietra per una città che lentamente si copre di monumenti e luoghi pubblici, di case (domus) ornate di pavimenti e fregi in laterizio degni della migliore Italia municipale.
La seconda Lucca, la città trasformata dai coloni mandati da Augusto, i veterani di due legioni delle atroci battaglie della seconda guerra civile, da Filippi a Azio, il torbido decennio fra il 41 e il 30 a.C.; benignati dal loro imperator di terre e di nuovi monumenti. L’ara di Piazza San Michele in Foro, momento supremo delle memorie di Lucca romana conservate nel silenzio ovattato d’ombre del Museo Nazionale di Villa Guinigi, era al cuore del complesso templare che una singolare e fortunata sequenza di scavi permise di ritrovare fra 1987 e 1990, con il colonnato segnato dai miseri resti di un criptoportico che incoronava il tempio ricco di marmi ispirati ai monumenti voluti a Roma da Augusto per rammentare la forza serena del suo potere. L’ureo che guizza nella corona della Gorgone ‘cita’ la recente vittoria su Cleopatra, l’Egitto condotto sotto il segno di Roma e dell’Italia.
Teatro e anfiteatro, i luoghi pubblici ‘per eccellenza’ della città romana – con le terme – sono la reliquia della seconda Lucca per la città che percorriamo, capaci di sopravvivere, con la massa delle strutture cementizie, anche alla fame di pietra della città dei secoli bui, bui come il colore degli strati che dal VI secolo in poi si avvicenderanno alle spoliazioni per rigenerare la città comunale.
Ma prima di arrivare alle storie della città cristiana, una terza città romana si dipana nelle storie raccontate dallo scavo. La crisi del II secolo d.C., certo inavvertibile per chi si lascia trascinare dalle affabulazioni del Gladiatore, morde pesantemente l’Italia, come ben sanno gli archeologi (e anche gli storici che seguono il filo delle iscrizioni, senza cedere alle Sirene di panegiristi e celebratori di regime). Lucca non è eccezione, con macerie e scarichi che si accumulano qua e là nelle strade, nei monumenti pubblici, nel foro stesso, seppelliscono case e in qualche felice circostanza ce ne conservano pavimenti e murature.
Lo scarico delle anfore di un vinaio all’angolo del foro, con i segni del vino di Toscana (nelle anfore empolesi), della Romagna (nella anfore dette ‘di Forlimpopoli’), e d’Algeria (le cosiddette ‘mauretane’) e gli scarichi di cocci finiti nella domus che ornava quello che è oggi l’isolato che affaccia su Piazza San Martino, sono i segni supremi di questa fase critica, dalla quale Lucca esce ritrovando, quasi cinque secoli dopo, il ruolo di città fortezza, presidio di un crocevia di strade militari che da Roma portano all’Italia settentrionale e costeggiano di qua e di là l’Appennino.
Le antiche mura sono rimesse in efficienza, le lacune risarcite, nuove torri si aggiungono alle antiche, adatte ad affrontare le nuove occasioni d’assedio che le frontiere non più tutelate concedono alle bande di incursori germanici. Forse fu davvero l’imperatore Probo (276-282 d.C.), come raccontava una perduta iscrizione vista da Daniello e dagli eruditi lucchesi del Seicento, a volere che la città allo sbocco dei valichi appenninici fosse ricondotta al suo antico ruolo, su una via per Roma divenuta talmente comoda per gli invasori, che anche la Città Eterna si era da poco affidata non più o non solo alla forza delle legioni di frontiera, ma anche ad una potentissima cerchia di mura, negli anni di Aureliano, il predecessore di Probo.
È la città delle mura e di Probo, divenuta sede di metallurghi al servizio dell’esercito (gli spatharii) a far da culla alla nuova religione, che in Lucca trova presto sede fra i resti di perduti monumenti pubblici – forse delle terme – adeguando una sala provvista di giochi d’acqua a Battistero, e erigendo su altre il ‘luogo pubblico’ del Cristianesimo costantiniano, la basilica cattedrale.
Dai mosaici sopravvissuti – come la sequenza di città antiche – alla vita medievale, rinascimentale, contemporanea di Lucca, che proprio in questi giorni della primavera 2010 hanno ritrovato la forza dei colori voluti dai costruttori (forse il vescovo Massimo noto da un documento dell’anno 343) che può iniziare un viaggio nelle città sepolte sotto Lucca che non sia solo sui libri che di recente hanno tentato di raccontarla, ma viva i luoghi e i segni del passato.
La chiesa dei Santi Giovanni e Reparata, con il suo viaggio nella storia sepolta della città che inizia con la discesa dai volumi medievali della chiesa, ingentiliti dai colori degli altari del Rinascimento e del Settecento, è il luogo migliore per avvertire, nell’intreccio di muri e nella sovrapposizione di pavimenti, le ‘metamorfosi’ di Lucca romana.
I battuti cementizi decorati di inserti in pietre policrome, o monocromi, della città dei fondatori; le basi di colonne e i lacerti di rivestimenti marmorei di un edificio pubblico (forse le terme) riemersi sotto la cripta che ospitò le reliquie di San Pantaleo, intorno all’anno Mille; zigazagare guidati da nuove fonti di luce sulle passerelle che guidano ai lembi dei mosaici della cattedrale del vescovo Massimo: una stupefacente passeggiata nella storia di Lucca, da vivere senza l’ansia di capire fasi e sequenze, perché anche l’archeologo che ha passato anni e anni a sviscerarne i misteri, seguendo storie parallele di altre città, e ogni tanto anche la fantasia, non sempre riesce a ricomporre in forme compiute i relitti del passato.
E giungere poi, affrontando coraggiosamente l’affascinante Lucca dell’espansione cinquecentesca, con i decorosi palazzi degli aristocratici che si alternano alla sequenza di dimore dei ‘ceti produttivi’ (come si direbbe oggi), fino alla villa suburbana di Paolo Guinigi, dove nell’asettico ordine dei musei è possibile partire dai segni degli Etruschi e dei Liguri per entre nelle memorie di Lucca romana, entrare anche nella suggestione di volumi e colori perduti, che in un angolo di museo si è tentato di ritrovare.
Il Museo della Città, sognato in un attimo da archeologi bramosi di far partecipare alle fonti dei loro sogni, come è nella natura dei sogni si sta dissolvendo al far del giorno, lasciando talora il retrogusto dell’incubo; e gli archeologi continuano a scendere nelle cantine, perché i colori delle città romane sepolte sotto le strade e i palazzi di Lucca possano di nuovo illuminare il passato.

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