La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

lunedì 27 ottobre 2014

Viaggio tra Rogio e storia

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La storia della fascia di territorio al confine tra i Comuni di Porcari e Capannori, lungo il Frizzone e il Rogio, in età medievale, moderna e contemporanea, è raccontata da una straordinaria massa di fonti documentarie, spesso arricchite da immagini e cartografie di altissima qualità.
L’area lacupalustre del Lago di Sesto – che trae nome dall’Abbazia di Sesto – raggiunge la sua massima espansione nel secolo XI. I documenti di Porcari degli anni Quaranta di questo secolo segnalano paludi anche a nord di Paganico, con il toponimo Aqualunga. La via Francigena, infatti, non segue l’antico tracciato rettilineo della via pubblica romana, e descrive un ampio arco proprio per evitare l’impegnativo ambiente della palude.
A partire dal XII secolo, per iniziativa degli abitanti del Compitese, inizia un’opera di riconquista che, con alterne vicende di avanzata o di regresso della linea di sponda del lago, si conclude con la bonifica degli anni Cinquanta dell’Ottocento, portando all’attuale assetto del paesaggio. La cartografia dell’Archivio di Stato di Lucca offre immagini di questa storia, che inizia con le ‘mappe catastali’ dei primi del Quattrocento e arriva alle minuziose raffigurazioni del Settecento.




La storia della ricerca archeologica nella Bonifica del Lago di Sesto o Bientina è strettamente legata a quella della bonifica d’età granducale (anni Cinquanta dell’Ottocento), che ancora oggi richiede continue opere di manutenzione.
Proprio in uno di questi lavori, nel 1892, emerse il documento più spettacolare dell’età etrusca: una tomba che impiega come contenitore cinerario un vaso di produzione ateniese con decorazione a figure rosse (Teseo e il Minotauro), ed è provvista di un corredo di oreficerie che ne ribadisce la datazione intorno al 470-460 a.C. Grazie al Comune di Lucca, il complesso venne acquisito alle collezioni civiche della città ed è oggi esposto al Museo Nazionale di Villa Guinigi.
Scavi regolari, tuttavia, vengono condotti solo a partire dal 1981, quando si pose per la prima volta il problema di una tutela dell’area archeologica nel suo complesso. La Soprintendenza per i Beni Archeologici per la Toscana, dopo i saggi di accertamento che portarono al primo ampio provvedimento di tutela (1982), si impegnò per un decennio nelle ricerche sul sito del Chiarone, in Comune di Capannori, che testimonia tutta la storia antica di questo territorio, dal 700 a.C. al 250 circa d.C. I materiali sono esposti al Museo Nazionale di Villa Guinigi.





Le aree archeologiche di Fossa Nera, in Comune di Porcari, furono individuate nelle ricognizione condotte negli anni Settanta ed Ottanta del Novecento. La ricerca fu mirata alle sponde dell’antico percorso dell’Auser, perfettamente leggibile in una marcata depressione spesso allagata.
Lo scavo, finanziato dal Comune di Porcari, ha portato alla luce un complesso produttivo eretto nel II secolo a.C. e più volte ristrutturato, fino all’abbandono intorno al 250 d.C. L’edificio era stato fondato in un’area già occupata dagli Etruschi nel V secolo a.C.
Il complesso di Fossa Nera A è un esempio ‘da manuale’ di domus (casa) adattata alle esigenze della vita agricola. Dall’ingresso (fauces) si accede ad un’area scoperta centrale (atrium) che prospetta il ‘cuore’ della vita di relazione dell’abitazione (tablinum) e gli ambienti residenziali (cubicula). Un ambiente è dotato di una particolare pavimentazione che lo rende disponibile all’attività di vinificazione (calcatorium e lacus). Il complesso disposto a sud del corpo centrale riusale ad una ristrutturazione d’età imperiale ed aveva destinazione produttiva – forse come ‘magazzino’ – o a deposito di attrezzi agricoli e bestiame



L’attività di ricognizione e di recupero condotta a Fossa Nera da Augusto Andreotti ha permesso di recuperare, in scarichi di terreno rimossi nel corso degli anni Settanta del Novecento, una massa di materiali che ha consentito di ricostruire il ‘volto’ di un insediamento fiorito intorno al 1200 a.C.
Prima ancora del sistema di insediamenti etrusco, vissuto con fasi alterne dal 750 al 450 a.C., le sponde dei rami sepolti dell’Auser avevano visto già intorno al 1500 a.C. la formazione di abitati ben strutturati, entro aree assistite da fossati, come hanno rivelato gli scavi condotti nel 1995 durante la realizzazione del metanodotto nella località del Palazzaccio, sulla destra del Rogio, in Comune di Capannori.
L’abitato detto ‘di Fossa Nera’ è strettamente legato alla cultura detta ‘terramaricola’ della Pianura Padana occidentale. Si può addirittura supporre che sia stato fondatro da ‘coloni’ provenienti da questo distretto. Ceramiche, bronzi, ambre tratteggiano – nella perdita di tutti i dati stratigrafici – la vita di una comunità attiva sulle vie che dalla Toscana raggiungono l’Emilia, e che scompare nella drammataica ‘crisi del 1200 a.C.’.



Il complesso di Fossa Nera B è il vero e proprio ‘gemello’ di Fossa Nera A, costruito sull’opposta riva dell’Auser: Lo scavo fu voluto e finanziato dal Comune di Porcari e dalla Provincia di Lucca, e si concluse nel 2006 con un’impegnativa opera di consolidamento delle strutture messe in luce.
Come per Fossa Nera A, la storia di Fossa Nera B inizia con la fondazione negli anni della deduzione della colonia di diritto ‘latino’ di Lucca, nel 180 a.C., e si esaurisce con le effimere rioccupazioni del III secolo d.C.
Il cuore dell’edificio è ancora una volta una tipica domus tardorepubblicana, riconoscibile anche sotto la ristrutturazione del I secolo d.C. quando venne anche provvista di adeguate pavimentazioni. La presenza di un angusto vano probabilmente occupato da una scala dovrebbe confermare – assieme allo spessore delle pareti – la presenza di un piano sopraelevato. Gli ambienti residenziali sono integrati in un circuito produttivo che occupa l’intero settore meridionale, con strutture per la vinificazione, la produzione del formaggio e forse dell’olio (con un torcular), disposte intorno ad un vasto cortile, cui si accede da un portone.



L’area residenziale di Fossa Nera B, composta da ambienti in cui è possibile riconoscere il tablinum, posto in asse con l’atrium, una serie di cubicula e – forse – la cucina, ha conservato lembi di pavimentazioni che testimoniano l’adattamento ad un edificio rurale delle tipologie tipiche degli edifici di tono ‘medio’.
In particolare, la pavimentazione in terra battuta dell’atrium, con scaglie e ciottoli policromi disposti secondo un ordito irregolare, emula i pavimenti in tessellato (mosaico) o in battuto cementizio con inserti lapidei policromi, che sono conosciuti anche in edifici urbani di Lucca, e sono in uso dagli inizi del I secolo a.C. fino all’avanzato I secolo d.C.



Una particolare tipologia di pavimentazione è quella detta ‘a commesso laterizio’, che nelle realizzazioni canoniche vede l’impiego di ‘mattonelle’ fittili, di forma geometrica regolare (di solito rombi o esagoni). A Fossa Nera B l’estesa pavimentazione in laterizi – che è stata interrata per esigenze di conservazione – composta da frammenti di tegole, opportunamente ritagliate in ‘tessere’ di forma quadrangolare, come accade anche in altri contesti rurali, realizza il ‘commesso laterizio’ con materiale ottenuto da macerie.




Il Decreto Ministeriale del 3 giugno 1997 che incluse l’area archeologica dell’ex lago di Bientina/Sesto fra le “zone archeologiche” tutelate nella doppia valenza, archeologica e paesaggistica, è uno strumento di salvaguardia per la piana – compresa fra il Monte Pisano, le Cerbaie, l’Autostrada Firenze-Mare – che conserva estesi lembi della rete di paleoalvei del ramo di sinistra dell’Auser/Serchio. La millenaria ‘protezione’ assicurata dalle acque del lago ha permesso a queste testimonianze del paesaggio di giungere sino ai nostri giorni in eccellente stato di conservazione.
Fotografie aeree e satellitari e lo stesso profilo del terreno, con le accentuate depressioni corrispondenti agli alvei fluviali – spesso soggette ad allagamenti – ricompongono infatti il tracciato dell’Auser in età etrusca e romana, prima che le crisi ecologiche dellaTarda Antichità e dell’Alto Medioevo portassero alla formazione del lago, con il caratteristico aspetto palustre ai margini.
Sulle rive del fiume, per più di un millennio, fiorirono insediamenti che sono una preziosa testimonianza della vita rurale d’età etrusca e romana nella Toscana nord-occidentale. Assieme ai resti degli abitati sono conservate anche strutture del paesaggio, come la via etrusca del Botronchio di Orentano, realizzata con un terrapieno e palificazioni.
Dopo che più di un trentennio di scavi – dai primi saggi del 1981 alle indagini del 2012-3 nel Botronchio – ha permesso di ritrovare molte pagine di queste storie sepolte, lo strumento di tutela si propone lo scopo di conservare i resti del paesaggio antico, nell’intreccio fra insediamenti, manufatti stradali e alvei fluviali, all’interno di ambiente strutturato dalla bonifica del XVIII e del XIX secolo. Boschi planiziali di rinnovata vitalità e aree soggette ad impaludamento stagionale, che ospitano flora e fauna sempre più vivaci, completano un paesaggio in cui convivono i segni di quasi tremila anni di storia di una pianura interna della Toscana settentrionale.


mercoledì 15 ottobre 2014

Gli Etruschi di Terricciola (una rinfrescatina a pagine antiche)










Antiche pagine, un po' sepolte, un po' dimenticate, nell'oblio della Terra dei Quattro Fiumi, un po' inariditi nonostante le acque di questi giorni.



GLI ETRUSCHI DI TERRICCIOLA
Il recupero di un patrimonio archeologico
dall’Arciprete Giovannelli (1729) al Gruppo Tectiana (2003)


L’arciprete Giovannelli
e  i ritrovamenti della metà del Settecento

«Il prelodato Arciprete Giovannelli nella surriferita Relazione ci ragguaglia che fin dal 1729 tempo in cui egli la scrisse, si scoprirono già nel lavorare quei Terreni dei Monumenti sepolcrali spettanti ai Gentili».
Il cenno del Mariti, che al volgere fra Sette- e Ottocento poteva mettere a frutto nel suo Odeporico quasi un secolo di indagini e di ritrovamenti archeologici, è deciso – nella sua sinteticità – nel far risalire all’Arciprete Francesco Orazio Giovannelli l’inizio dell’attenzione per le antichità del territorio di Terricciola[1].
L’‘atto di nascita’ dell’archeologia in questo lembo di Valdera, in effetti, è segnato dal memoriale che in latino non privo di eleganze il Giovannelli stese su Terricciola in quell’anno, e che – confluito interamente nell’opera del Targioni Tozzetti[2] – è ancora un prezioso documento della cultura locale ai primi del Settecento, con una parte del clero assai attenta al rapido maturare di attenzione per le antichità dell’Etruria che caratterizza la capitale del Granducato negli anni che vedono la pubblicazione del De Etruria regali del Dempster[3]. Particolarmente raffinata è la citazione di un recente ritrovamento archeologico come ‘prova’ documentale della più antica storia del territorio:
«... Hic vitam duxisse homines superstitiosae Gentilitatis addictos ex hoc coniicitur, quia interdum inter effodiendos agros sepulchralia monumenta eruuuntur, cum Idolis vel aereis, vel marmoreis, uti proximis elapsis diebus egomet vidi fragmenta cuiusdam sepulchralis urnae recens erutae, cui insculptae circum erant pro ornatu Deorum Manium imagines, celatum quidem opus non rudis illius aetatis artificis ...»[4].
Lo stesso Giovannelli, che ha per Terricciola un ruolo comparabile a quello che il curato della chiesa di San Michele di Celli, don Martino Gotti, svolgerà nel Pecciolese qualche anno dopo, informando tempestivamente la Colombaria di un ritrovamento avvenuto nel territorio della sua cura, e facendo giungere i reperti nella collezione di Anton Francesco Gori[5], è protagonista della felice stagione dell’archeologia terricciolese che va dal 1752 al 1756.
Sembra arduo, in effetti, non riconoscere l’opera del Giovannelli nella cultura ‘museale’ che, nel 1752, recuperando solo in apparenza la tradizione del reimpiego, privilegia la conservazione in situ dei monumenti ritrovati, e induce quindi a collocare nella facciata della canonica l’urna con scena di Atteone sbranato dai cani ritrovata nell’area della Parrocchiale, prova evidente dell’antichità del castello di Terricciola (figg. 1; 2, 1)[6]. Nonostante il silenzio del Targioni Tozzetti su questo ritrovamento, la testimonianza di Niccolajo Funaioli, arciprete di Terricciola sul finire del secolo, e l’asciutto memoriale, bene informato, conservato nei fondi manoscritti della Biblioteca Nazionale di Firenze, che fa la cronaca dei ritrovamenti nel Terricciolese fra 1752 e 1756 sono concordi nel riferire del ritrovamento:
«L’Urna funeraria che è nella facciata di questa mia canonica fù ritrovata nel 1752 a piè dei muri del Coro di questa mia chiesa al Ponente, nell’escavazione dei fondamenti della nuova Fabbrica della soppressa Cantoria del Rosario»,
precisa il Funaioli[7], mentre l’anonimo memorialista, assai vicino al Giovannelli, può annotare che
«circa all’anno 1752 nell’escavazione dei fondamenti di una nuova fabbrica, che presso i muri della Chiesa Parrocchiale dalla parte del Ponente si costruiva per uso della soppressa Cantoria del SS.mo Rosario furon trovati nel Sabbio diversi rottami di fibule, e vaselletti di rame con un Sarcofago Etrusco, che di presente si vede incassato nella facciata della casa canonicale dall’ingresso della Chiesa»[8].
Se la tomba, apparentemente disfatta, il cui periodo di impiego è fissato dall’urna, collocata da Marisa Bonamici sullo scorcio finale del II secolo a.C.[9], conferma che l’area castellana di Terricciola fu già sede di un insediamento etrusco almeno in età ellenistica, e che la tradizione della struttura ipogea, di cui stanno fortunatamente riemergendo, con un appassionato recupero, le vestigia monumentali, può essere serenamente collocata in continuità con i sepolcreti della comunità etrusca che aveva un punto nodale del suo sistema di insediamento nell’acropoli di Terricciola, di datazione più incerta è la tomba emersa a poca distanza dal castello due anni dopo. Ancora una volta, il memoriale della Nazionale si aggiunge alla testimonianza del Giovannelli:
«Con lettera de’ 9. Aprile 1754. il suddetto sig. Arciprete mi diede notizia, che certi Contadini del suo Popolo, nel fare le fosse trovarono dentro al Sabbio duro e asciuttissimo una fossa, o sepoltura, colle ossa di un cadavere umano, di statura assai maggiore della comunale, colla faccia a oriente, con alcuni vasi intorno di Terra cotta, ed un’Ampollina, o vogliasi dire Lacrimatorio di un sottile, e leggerissimo Vetro di colore celeste opaco, cioè poco trasparente, e quasi come punteggiato di bianco, e lungo quasi due Pollici, fatto graziosamente a foggia d’Ampollina, col collo, ed orlo rivolto, ed in fondo ha una punta lunga tre linee, smussata, sicchè tutto il Lacrimatorio vien’ad essere della figura presso a poco delle antiche Anfore Vinarie, ma senza Manichi, o Anse»[10].
Convergente, ma non identica, è la testimonianza del memoriale anonimo, che precisa anche la località del ritrovamento:
«Nel 1754 in un Effetto del Sig.re Franc(esc)o Maciughi Nobile Fiorentino in distanza circa 100 passi dal Castello per la parte di Levante fu scoperta nel lavorare la terra una semplice fossa nel Sabbio con dentro le ossa di smisurato Cadavere colla spada al fianco con alcuni vasellami di terra di colore, e figura diversa»[11].
L’accenno alla spada, se non è frutto solo dello stupore dell’attimo della scoperta che traspare nell’evidenza data alle smisurate dimensioni dello scheletro – un topos consueto, favorito anche dalla dislocazione delle ossa – potrebbe permettere di spostare la tomba della ‘proprietà Maciughi’ (fig. 1) da una generica età romana, nella quale indurrebbe a collocarla il meticoloso riferimento del Giovannelli al Lacrimatorio, all’Alto Medioevo, sulla scorta delle dotazioni di ceramiche e vetri che caratterizzano tombe di guerrieri della prima età longobarda; ma l’evidente ambiguità di lettura delle descrizioni settecentesche dissuade dal dare corpo eccessivo a ipotesi comunque destinate a rimanere senza possibilità di verifica.
Decisamente più concreti sono invece i dati sul ritrovamento occorso ancora a distanza di due anni, a Poggio alle Tane (fig. 1). In questo caso il Giovannelli fu protagonista non solo della ‘gestione’ del rinvenimento, ma anche dei rapporti con l’autorità granducale che, con il motu proprio del 1750, aveva sottoposto ad una precisa disciplina i ritrovamenti archeologici in Toscana, prevedendo – in sostanza – l’obbligo della segnalazione all’autorità centrale, e la divisione in tre parti, spettanti una al ritrovatore, una al proprietario del terreno, la terza al Demanio, dei materiali rinvenuti[12]. Grazie all’inventario dei materiali trasmessi all’Antiquario Antonio Cocchi, per il tramite degli uffici fiscali granducali, riemerso dai fondi dell’Archivio di Stato di Firenze  con l’attenta indagine cui è stata sottoposta l’opera del Cocchi[13], è possibile integrare, confermandone l’affidabilità, il memoriale della Nazionale, decisamente più ricco di dati di quanto non sia il sunto che il Targioni Tozzetti offrì della segnalazione del Giovannelli.
Il Targioni Tozzetti, in effetti, concentra la sua attenzione – tradendo l’anima del naturalista – sui processi di degenerazione cui il bronzo e l’ambra sono sottoposti:
«Nel 1756. mi diede notizia che vicino a Terricciola era stato scoperto un Sepolcro Ipogeo Etrusco, dond’egli ebbe, e mi mandò certi rottami di Fibula di rame con una patina smeraldina bellissima, e molti frammenti di vasetti a foggia d’Ampolle, di Rame assai sottile, tirati con gran maestria, ma tutti rosi e macerati da Verderame smeraldino, nel quale è notabile una sottile graziosa incrostatura di piccolissimi ingemmamenti azzurri di Vetriolo di Rame. Finalmente vi fu trovato, e mi mandò un pezzo d’Ambra gialla, lavorata in figura d’una piccola ciambella, col foro nel mezzo, la quale nella superficie per ogni intorno è screpolata, e decomposta quasi in terra pallida, ma bruciata tramanda il suo odore d’Ambra; nell’interno poi conserva una sua sostanza trasparente, ma tutta retata di linee che pendono nell’opaco. La sua figura ci rende credibile che abbia servito per capo, ed ornamento di qualche Legaccia; e soprattutto è notabile quanto ell’ha potuto resistere all’ingiurie del tempo, accanto a diversi lavori di Rame, che sono tutti corrosi e sfacelati»[14].
Il memoriale della Nazionale, come si è detto, è particolarmente accurato, e offre informazioni ancora insostituite sull’architettura tombale d’età etrusca in Valdera:
«In un antico Sepolcro Ipogeo scavato nel Sabbio, scoperto nell’anno 1756 casualmente da certi contadini in una Collinetta chiamata Poggio alle Tane di proprietà del Sig.re Franc(esc)o Barsotti di questo luogo, della grandezza per ogni lato di circa B(racci)a 5 [ = m 2,90 ca.] coll’ingresso a mezzo giorno serrato da un grosso lastrone di pietra del Paese, distante dal Castello un quarto di miglio verso il Levante furono ritrovati quattro Cadaveri, due di figura gigantesca collocati unitamente dalla parte di Tramontana colla faccia a Levante, uno dei quali aveva in dito un’anelletto d’oro del valore di lire 18 in circa, e gli altri due Cadaveri, che dimostravano di essere di piccoli Fanciulli erano collocati al Ponente colla faccia a mezzo giorno; e dalla parte di Levante vi erano due Sarcofagi, e molti vasi di terra con alcuni di vetro di figure diverse, e di diversi colori, e per ordine del Governo dové tutto mandarsi a Firenze, a riserva dei Cadaveri già tutti disciolti»[15].
Il fascicolo dell’Archivio di Stato di Firenze che conserva i documenti relativi ai ‘premi di rinvenimento’ degli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento[16] non solo conferma che in effetti i materiali furono sottoposti al Cocchi, come del resto già emergeva dai fondi archivistici degli Uffizi[17], ma offre un elenco particolareggiato degli oggetti valutati:
A dì 16 febbraio 1756
Nota dell’app(res)so Medaglie, e frammenti di antichità stati rimessi all’Imperiale Guardar(ob)a gen.le di S.M.I. dal Rev.do Sig.re Arciprete del Comune di Terricciola per mezzo dell’Ill.mo Sig. Domenico Brichieri Colombi G.le Auditore Fiscale, e dal med.o asserito essere il tutto stato trovato da Francesco Turchi, e Antonio suo nipote nello scavare la terra in un campo di proprietà di Francesco Barsotti in detto Comune di Terricciola
Un’anello d’oro puro senz’alcuna impronta di forma antica, pesa d.ri 3 e g.ni 12 [ = g 4,1]
Tre frammenti di bottoncini d’oro infranti di foglietta sottiliss.a, pesano g.ni 8  [ = g 0,4]
Una piccola statuina di bronzo antica in figura di un grifo
Una medaglia di bronzo di mezzana grandezza con iscrizione e testa di Giulio Cesare, e di Caio Clovio
Una medaglia piccola d’argento, Denario della famiglia Antistia
Una moneta piccola d’argento, con iscrizione e Arme di un Signor di Carrara
Altra medaglia piccola d’argento antica romana col ri(tra)tto e inscrizione d’un Imperatore
Tre medaglie di bronzo di mezzana grandezza con testa, e inscrizione di Cesare Augusto
Una detta maggiore di rame, con iscrizione e ritratto del Pontefice Clemente Settimo
Sei medaglie di bronzo romane, che 4 con inscrizione mezzane, e due piccole. Si credono denari antichi con vestigie d’inscrizioni, e Tipo nel più consumato, con qualche conoscenza d’inscrizioni e teste d’Imperatori
Una cassa sepolcrale piccola di terra bianca antica lunga s. 18  [ = cm 52], alta e larga s. 12  [ = cm. 35] formellata fuori e in parte tinta rossa, con quattro piedi sotto, e suo coperchio a pendice simile
Un vaso a foggia di coppetto di terra rozza rotto in due pezzi, con due manichi simili
Un vaso a forma di ciotola di terra simile
Un vasetto et un mezzettino di terra sudd. con suo manico a ciascuno
Un frammento di vaso simile antico di terra etrusca con manico da una parte
Una lastretta tonda di marmo bianco con foro nel mezzo
Una detta simile, con foro nel mezzo intorno ad un chiodo
Un frammento d’impugnatura da spada di marmo sud.
Uno simile di ferro affatto corroso
Un pezzo di dente d’elefante petrificato
Un pezzo di terra solida color di pietra morta
Un pezzo di creta cerulea con qualche vestigio geroglifico».
Lo stesso fascicolo contiene un foglio sciolto che conferma che i materiali non suscitarono particolare interesse nel Cocchi:
Per la Galleria di S. M. Imp.le potrebbero convenire solamente
1. L’anello d’oro senza alcuna impronta per la rarità della forma
2. La statuetta o figura di bronzo rappresentante un Grifo
3. La Medaglia di bronzo di mezzana grandezza coll’inscrizione di Giulio Cesare e di Caio Clovio
4. La medaglia piccola d’argento Denario della famiglia Antestia
5. Moneta piccola d’argento con inscrizione ed arme d’un signore di Carrara[18].
L’eterogeneità dei materiali impone di valutare con cautela i dati di associazione; non è da escludere, in particolare, che nel ritrovamento di Poggio alle Tane si siano conglutinati il complesso della tomba, e altri oggetti sporadici, forse ritrovati nel corso degli stessi lavori. Il pezzo di dente d’elefante petrificato, in effetti, è assai difficilmente associabile ad una tomba, e solo ipotizzando un reimpiego lunghissimo – apparentemente incompatibile con l’eccellente lettura degli scheletri che fu possibile all’atto del rinvenimento, seppure attestato a Terricciola anche dal ritrovamento dell’Antica[19]  – sarebbe possibile riferire alla tomba la serie di monete romane, scaglionate dal II secolo a.C., con il denaro della famiglia Antestia, databile al 146 o al 138 a.C.[20], agli estremi anni della Repubblica, con la medaglia di bronzo di mezzana grandezza con iscrizione e testa di Giulio Cesare, e di Caio Clovio, facilmente identificabile con la coniazione di Caio Clovio del 45 a.C., nonostante il ritratto esibito sia non quello di Giulio Cesare, ma un busto della Vittoria[21]; infine, alla piena età imperiale.
Più coerente sembra il quadro offerto dai materiali ceramici e dalla sola urna descritta, dei due sarcofagi di cui parla il memorialista della Nazionale. Di terra bianca antica ... formellata fuori e in parte tinta rossa, con quattro piedi sotto, e suo coperchio a pendice simile, l’urna è evidentemente riconducibile alla produzione volterrana o in tufo, o in terracotta ad imitazione del tufo, di urne con cassa modanata ad imitazione dei tipi lignei, completata di decorazione dipinta, e con semplice coperchio displuviato: complessi tombali cittadini, o del territorio, anche in contesti prestigiosi come quello dei Calisna Sepu di Monteriggioni, o di Barberino Valdelsa, attestano la lunga durata del tipo (fig. 2, 2 a-c), che va dalla prima età ellenistica, se non ancora prima, fino ad esemplari con fronte corniciata presenti in complessi tombali degli estremi anni della Repubblica[22], e alle urne prodotte ancora in età imperiale nell’intera Etruria settentrionale[23]; più ristretto sembra l’arco cronologico delle urne in terracotta, il cui limitato repertorio morfologico offre – a differenza di quello dei prodotti in tufo – tipi meno facilmente riconducibili alla descrizione dell’urna di Poggio alle Tane[24]. Se dunque la mancanza di accenni a manufatti a vernice nera nell’elencazione delle ceramiche che formavano il corredo degli almeno sei defunti di Poggio alle Tane potrebbe addirittura invitare a seguire le suggestioni di Stefano Bruni, con la precoce datazione proposta per l’urna di Celli[25], nell’assegnare ad orizzonti pre- o proto-ellenistici Poggio alle Tane, non è neppure impossibile recuperare nel denaro della gens Antestia un termine di riferimento per la datazione nell’avanzato o finale II secolo a.C. di una fase almeno della frequentazione della tomba.
Un cenno infine alla statuetta o figura di bronzo rappresentante un Grifo, che potrebbe essere riconosciuta in applicazioni in bronzo ancora conservate nel Museo Archeologico di Firenze, come il bellissimo esemplare (inv. 676; fig. 2, 3) ad ali spiegate che doveva fungere da pieduccio di un mobile o di un contenitore in bronzo, o il più modesto esemplare a tutto tondo inv. 681. L’asciutta descrizione, infatti, non consente di confortare per il momento l’identificazione, così come di arduo riconoscimento fra i materiali museali di Firenze sembrano le oreficerie.
La pianta, perfettamente ricomponibile grazie al memorialista (fig. 3), apparenta strettamente l’ipogeo terricciolese a quelli urbani ben noti nel sepolcreto della Badia[26], e fa della tomba di Poggio alle Tane, nel quadrante nord-occidentale del territorio volterrano, un ‘gemello’, di dimensioni appena inferiori, della tomba scavata intorno al 1789 a Spicciano, nel territorio di Castellina Marittima (fig. 3), nella val di Fine che sta rivelando tracce sempre più vistose – sull’opposta sponda, occidentale – della cultura e dei costumi funerari pisani[27], mentre sul lato occidentale rivela un polo insediativo il cui epicentro è probabilmente da riconoscere intorno a Pastina[28]; grazie alla descrizione del Piazzesi, importante ‘corrispondente’ del Mariti, si ricava infatti che anche questa tomba era a pianta quadrata, dotata di banchine (non esplicitamente menzionate invece per Poggio alle Tane), con lato di circa quattro braccia ( = m. 2,30)[29].

Proprietari e ‘archeologi’.
dalla tomba dell’Antica (1792) agli anni della dispersione

Dai sacerdoti corrispondenti del Gori e del Targioni Tozzetti si deve giungere alla rete di informatori sul territorio che l’Inghirami tracciava nei primi decenni dell’Ottocento per aggiungere dati sulla Valdera etrusca.
La pur preziosa opera del Mariti, emulo del Targioni Tozzetti nella capillare attenzione ai Cippi Acheruntici  che grazie alle pagine del Gori erano già divenuti vero e proprio simbolo dell’archeologia (o antiquaria) della Valdera, non sembra in effetti capace di penetrare in profondità nel territorio, tanto che il più importante ritrovamento di quel volgere di tempo, avvenuto all’Antica di Terricciola, finisce per non essergli segnalato, e sarebbe probabilmente andato perso se a quasi trenta anni di distanza l’Inghirami non ne avesse dato notizia, e se il protagonista del ritrovamento, Leonardo Gotti, non avesse scavato nella memoria (o in memoriali), per tracciare quella che resta une delle pagine più significative dell’archeologia in Valdera. Nel primo tomo dei suoi Monumenti etruschi o d’etrusco nome, l’Inghirami faceva cenno «che nel 1792 si trovarono Ipogei con poche Urne in tufo presso Morrona castello vicino a Volterra ... Le urne di Morrona passarono a decorare il Campo santo di Pisa»; nel quarto tomo, pubblicava per intero il documento del Gotti[30]:
«Ill. Sig.
Per appagare il di Lei desiderio manifestatomi di aver conto, e notizia dello scavo, che io feci dell’Ipogeo Etrusco presso il castello di Morrona le dirò, che nell’anno 1792 facevo fare delle buche per mettervi Ulivi in un poggio fra Morrona, e Terricciuola alla distanza di un quarto di miglio chiamato volgarmente Antica. Quivi in una pietra vidi incavati tre scalini, dopo i quali erano altri scalini nella sabbia che conducevano all’entratura di un Ipogeo rovinato solo nel mezzo della volta, e con molto spazio vuoto. L’entratura di esso era serrata con una pietra di questo Bagno a acqua che rimane alla distanza di tre miglia da Morrona. La stanza era tonda del diametro di sei braccia [=m 3,55 ca.]: intorno vi era una panchina nella quale erano situate tre urne cinerarie di leggerissimo tufo, lisce con i loro coperchi, dove sopra si vedono tre ritratti di due uomini ed una donna. Presso queste urne furono trovati diversi vasi e parete di terra cotta, parte de’ quali di vernice nera e piccoli, e con ornati a rilievo, di buona forma e varia, leggerissimi. Un anfora vinaria, diversi altri vasi di terra non verniciata, comunemente detti ordinarj, e di forme variatissime, fra i quali uno de’ maggior vasi ad uso di coppo, ed un vaso di rame consunto, ed una tavoletta d’alabastro, ma molto consumata; onde non seppi conoscere che vi fosse stata iscrizione, o basso rilievo o altro. La sua grandezza era di due terzi di braccio lunga [=cm 40 ca.], ed un terzo larga. Vari di questi vasi erano nel mezzo della stanza fra la terra rovinata. Ritrovai varie monete, fra le quali eravi un Triente volterrano col Velatri, la Clava, ed il Giano; varie monete e pesi romani, nominatamente una moneta di Augusto ed una di Faustina, della quale ultima non bene mi ricordo. All’ingresso di detto Ipogeo vi trovai alcune ossa di cadaveri umani, ivi seppelliti a sterro, con diversi vasi ordinarj, ed un pomo di spada di ferro. La situazione di detto ipogeo rimane a levante rispetto a Morrona, ed a tramontana rispettivamente a Terricciuola. Questo e quanto posso assicurarla relativamente a quanto mi richiede; mentre con tutta la stima passo a confermarmi ... Così il Sig. Dottor Leonardo Gotti in una sua lett. ms. a me diretta da Terricicuola nelle colline Pisane nel aprile del 1812».
Integrando la straordinaria relazione del Gotti con i dati offerti dal Lasinio, che riuscì ad ottenere che il Gotti conferisse le tre urne e 37 vasi etruschi alla nascente collezione del Camposanto pisano, è stato da tempo possibile recuperare il complesso dell’Antica, dapprima all’apprezzamento scientifico[31], poi anche – almeno in parte – a quello museale, nell’allestimento di Capannoli, reso possibile anche dalle recenti acquisizioni sulle complesse vicende che portarono gli avanzi della raccolta di ‘terre’ del Camposanto di Pisa, nella formazione lasiniana, al Museo Civico della città[32].
Mentre le urne (fig. 4), recuperate da Marisa Bonamici, si dispongono fra la fine del III e il pieno I secolo a.C., le ceramiche – in parte superstiti (fig. 6), in parte maggiore comunque valutabili grazie alle efficaci riproduzioni del Lasinio (fig. 5) – fanno della tomba dell’Antica la prova più evidente della riorganizzazione del sistema degli insediamenti che connota anche la Valdera, come larghi tratti del territorio volterrano, fra la fine del IV e i primi del III secolo a.C. A questa epoca dovrà dunque essere fatta risalire anche la costruzione della tomba, che con la sua pianta circolare (fig. 3) replica un modello prediletto dalle massime famiglie volterrane (la tomba dei Caecina II, la tomba Inghirami)[33], sulla scala minore che non impone la realizzazione di un pilastro centrale, chiaramente assente nella tomba dell’Antica, come traspare proprio dall’accenno del Gotti ad un crollo nel punto centrale della volta («rovinato solo nel mezzo della volta, e con molto spazio vuoto»).
Il tipo, a sua volta, viene applicato, ancora in scala appena minore, anche per tombe che, come quella di Chianni (fig. 3), rivelano nella composizione del corredo il tono decisamente inferiore del gruppo familiare al quale sono destinate.
Simmetricamente, per i due distretti in cui si articola l’insediamento della Valdera ellenistica (il Pecciolese e l’area di Terricciola), con la prima indagine che, come quella attivata dall’Inghirami all’inizio dell’Ottocento, combina la nascente metodica archeologica con la tradizione dell’antiquaria settecentesca, si conclude un periodo particolarmente effervescente, durato per quasi un secolo, per aprirsi una lunga notte: ancora all’Inghirami si devono infatti le informazioni sulla tomba del podere dei Bufali, nel Pecciolese, segnalata sul ‘Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica’ nel 1830[34], che a quasi un secolo dal trovamento di Celli attestava un sistema di insediamento, fra Era e Roglio, che sta finalmente ricevendo concrete informazioni dall’esplorazione dell’abitato delle Serre.
Ritrovamenti sui quali mancano dati concreti alimentano collezioni che, come quella del signor Unis del Mattaccino, finiscono comunque a collezioni pubbliche, come il Camposanto pisano[35], mentre a partire dalla seconda metà dell’Ottocento anche il Museo Civico di Livorno evita la diaspora di parte almeno dei materiali archeologici che le Colline Pisane e la Valdera continuano a fornire[36].
La prassi ‘media’ del recupero archeologico nella Terricciola dell’Ottocento e di gran parte del Novecento sembra comunque piuttosto trasparire da due carteggi dell’archivio della Soprintendenza per i Beni Archeologici che offrono interessanti immagini di un atteggiamento della cultura locale non più guidata dal clero antiquario del Settecento, anche nei suoi rapporti con l’‘autorità di tutela’ granducale, né dai proprietari ‘illuminati’ della fine del Settecento che conservano i reperti, per trasmetterli alle pubbliche raccolte.
Sul finire del 1907 la ‘Soprintendenza degli Scavi d’Etruria e d’Umbria’ scrive al Sindaco di Terricciola, giacché, informata dall’Ispettore Onorario di Pisa della «scoperta di alcuni oggetti antichi di terracotta e di metallo, fatta recentemente a Badia in territorio di codesto comune, e in proprietà del sig. Canessa di Livorno» intende ottenere notizie più particolareggiate; il Sindaco di Terricciola è relativamente tempestivo nel rispondere, il 22 gennaio 1908:
«Solamente ora mi è stato possibile conoscere gli oggetti antichi rinvenuti nel territorio di questo Comune, nella proprietà del Sig. Canessa di Livorno. Essi consistono in
= N. 5 veggi di coccio che si ritengono per urne cinerarie.
= N. 3 anfore.
= Altri pezzami di varie forme di coccio rossiccio.
= Varj vasi di diverse dimensioni e di varie forme di coccio nero.
= Alcuni piatti e zuppierine di coccio nero.
= Colini di rame in pessime condizioni.
= Spilli di rame.
= Un calamaio con un pugnale.
Tanto in riscontro alla nota di V.S. qui controsegnata.
Il Sindaco (illeggibile)»[37].
La nota, che comunque consente almeno di recuperare la notizia di un contesto tombale in cui il ruolo di cinerario era affidato a semplici contenitori ceramici, forse i consueti crateri, non ha alcun esito; si direbbe per l’evidente tenuità del trovamento, almeno rispetto ai parametri dell’epoca.
Proprio all’interesse indotto da un complesso più corposo, di cui facevano parte anche urne figurate, si deve invece la pratica avviata pochi anni dopo dalla Soprintendenza per ottenere informazioni sui materiali archeologici in proprietà Cempini[38]. L’Ispettore (Onorario) per Lari, Fauglia, e Peccioli, il dott. Alfredo Masoni, vierne invitato, il 4 dicembre 1912, dal Soprintendente, Luigi Milani – sulla scorta evidente di una segnalazione verbale – ad acquisire informazioni sulla raccolta Cempini:
«Mi consta che nella villa del fu cav. Francesco Cempini a Terricciola esistono due grosse anfore e due urne etrusche scavate or non è molto in un terreno di proprietà del predetto fu cav. Cempini. La prego di volermi fornire dettagliati chiarimenti circa l’epoca precisa del rinvenimeto e inviarmi una fotografia delle urne etrusche».
Ancor più tempestiva di quanto non fosse stata quella del Sindaco di Terricciola è la replica del Masoni, del 13 dicembre 1912:
«Secondo l’incarico da Lei ricevuto con lettera a me diretta il 4 Decembre mi sono recato a Terricciola alla Villa Cempini, attualmente passata in proprietà Gotti.
Le due urne cinerarie e le tre anfore non sono più nella Villa già Cempini a Terricciola. Trovansi attualmente a Cortona  nel Convento di S. Chiara dove vi furono trasportate da Suor Maria Concetta Cempini Vicaria del Convento. Essa fu l’unica erede del cav. Cempini, che morì senza far testamento e vendé poi al sig. Gotti. Queste urne e queste anfore con altri piccoli oggetti furono rinvenuti a due metri di profondità in una chiudenda detta Vallimozzi in vicinanza e al di sotto del Cimitero attuale di Terricciola. Relativamente al tempo in cui furono rinvenute vi è un po’ di discordanza di voce, ma credo poter dire che lo scavo avvenne circa 12 anni or sono. Le urne, dicesi, sieno di terra cotta, una con figura distesa e poggiata sul fianco, l’altra con figura ma senza la testa. I fianchi erano pure ornati di figure allegoriche ...».
La cronaca della dispersione – rotta dall’arrivo al Museo Archeologico di Firenze, negli anni Trenta del Novecento, di un piccolo nucleo di materiali ritrovati in proprietà Cempini-Mazzuoli, fra cui spicca una situla in bronzo[39] – è affidata soprattutto ad una tradizione orale in cui è impossibile spesso sceverare fantasie e ricordi reali, che giunge fino ai nostri giorni, per esaurirsi, nel 1991, con il ritrovamento di Scannicci[40],
Grazie al congiunto impegno delle forze locali, del Comune di Terricciola, della Soprintendenza, giunge anche nella prassi di tutela e di recupero del patrimonio archeologico la particolare attenzione per la Valdera che, seguendo i fili dell’antiquaria settecentesca e dei cippi Acheruntici, da quasi un decennio aveva visto il sistematico recupero dei dati d’archivio o bibliografici, e prime rassegne dei reperti archeologici sopravvissuti a due secoli di alterne vicende[41].

L’attività del Gruppo Tectiana:
nuova luce per il territorio di Terricciola
tra VI e V secolo a.C.

Pur fra perdite gravissime, era in effetti possibile, con un’attenta collazione dei dati disponibili, ricomporre un quadro coerente ed esauriente dell’insediamento nella Valdera ellenistica: la sequenza di tombe valutabili concretamente (fig. 1), o sui materiali superstiti, o dalle fonti archivistiche, permetteva già nei primi anni Ottanta di tratteggiare la dinamica di un sistema di abitati che si disloca, sin dalla prima età ellenistica, al volgere fra IV e III secolo a.C., sulla fertile fascia di colline che va dall’Era al Cascina, per poi proseguire nell’area di Casciana almeno con la tomba con urne figurate e ceramica a vernice nera nota da un cenno dell’epistolario del Mariti[42], e da qui saldarsi alla sequenza di insediamenti che si dispone sui versanti, orientale e occidentale, del Monte Vaso. Le capillari rilevazioni di Stefano Bruni, in un quinquennio di alta intensità della ricerca, hanno arricchito di particolari un quadro sostanzialmente consolidato[43].
Le modeste vette – spesso pianori – che punteggiano il sistema collinare sembrano privilegiate per tombe che, talora con continuità secolare, come all’‘Antica 1792’, talora invece per periodi più brevi, come a ‘Terricciola-Parrocchiale 1752’, riflettono le vicende di gruppi familiari che proprio l’acquisizione di urne cinerarie sembra scandire in una gerarchia.
La tomba ‘Badia-Canessa 1907’ potrebbe in effetti esprimere un livello sociale subalterno, così come il contesto ‘Scannicci 1991’, rispetto alla serie di tombe qualificate da urne figurate o dalla dotazione di bronzi e di oreficerie, che comprende l’‘Antica 1792’, ‘Poggio alle Tane 1756’, ‘Vallimozzi 1900 circa’, lo stesso trovamento ‘Terricciola-Parrocchiale 1752’. Queste delineano proprio il ‘cuore’ del sistema insediativo, marcando la sommità di rilievi che dominano mediamente lo spazio di un centinaio di ettari – includendo crinali, fianchi delle colline, fondovalle – che potrebbe in effetti essere l’area di pertinenza delle singole unità insediativo-produttive, a carattere familiare, probabilmente integrate da abitati satelliti ai quali riferire tombe come ‘Scannicci 1991’.
La natura familiare dell’insediamento al quale la tomba fa capo sembra in effetti trasparire dall’isolamento dei singoli ipogei: non in un caso si fa cenno a vere e proprie necropoli. Minori sembrano le informazioni offerte dall’architettura tombale, coerente – in evidente analogia con il tono delle urne cinerarie – con il livello ‘medio’ cittadino, di Volterra, cui le aristocrazie locali della Valdera sembrano sostanzialmente omologate.
Se la continuità per tutta l’età ellenistica conferma la stabilità del sistema sociale del territorio volterrano, la singolare pratica del recupero in età romana, se non meramente casuale o utilitaria, pone problemi di non ovvia soluzione per la transizione fra strutture gentilizie della Tarda Repubblica e ristrutturazione coloniale della Volterra augustea[44], in un contesto in cui non è impossibile che nuovi venuti, o coloni, si siano impadroniti di tombe ancora utilizzabili, come l’‘Antica 1792’, o ‘Poggio alle Tane 1756’.
A parte l’accenno del Targioni Tozzetti ai bronzetti dell’Arciprete Giovannelli, per i quali peraltro la datazione all’età arcaica è solo una possibilità[45], rimaneva assolutamente oscuro il quadro dell’insediamento nel Terricciolese in epoca arcaica e classica, fra VI e V secolo a.C., anche se merito di Stefano Bruni era stato il recupero di ceramiche di questo periodo nei fondi Gotti e Unis del Mattaccino del Museo Civico di Pisa, dati con provenienza da Terricciola[46], a cui poteva essere aggiunta almeno l’oinochoe, forse in bucchero, già Unis del Mattaccino, nota dalle tavole del Lasinio (fig. 6)[47].
I ritrovamenti nell’area della Fonte delle Donne (figg. 1; 7) – identificabile con il luogo Castagno del Targioni Tozzetti, la cui acqua offriva «un rimedio presentaneo per le Donne prive di Latte, sicchè appena ne hanno bevuta, se ne ritornano a casa colle mammelle piene di latte», tanto da suscitare «certe superstizioni, come d’arrivare per una strada alla sorgente, e partire da essa per un’altra, lasciar denari o roba vicino alla medesima»[48] – segnano un possibile luogo di culto, integrato con un’area insediativa e, forse, con la necropoli indiziata dal cippo con decorazione fitomorfa incisa che infittisce l’area di diffusione di questa peculiare classe di monumenti, che concorre ad attestare la solidità dei legami culturali fra Volterra e Pisa nei decenni di passaggio fra VI e V secolo a.C.[49].
Di particolare interesse appare la frammentaria testina fittile (fig. 8 A), recuperata e consegnata dalla famiglia Campani (la “testa Campani”) accuratissima nella resa, che, a dispetto delle circostanze favolose del ritrovamento, certamente tanto idonee a creare entusiasmi per un nuovo sito del pieno V secolo a.C., quanto a indurre perplessità, si inserisce agevolmente nel quadro della cultura artistica dell’Etruria settentrionale della pieba ‘età classica’, intorno alla metà del V secolo a.C.
Particolarmente stringenti appaiono i contatti con la testina fittile da un possibile contesto cultuale della necropoli di Populonia (fig. 8 C-D)[50], sia nella struttura, ovale, appena arrotondata, del volto, che nella resa delle palpebre e delle labbra, piccole e carnose; anche l’acconciatura dell’esemplare fittile di Populonia sembra una versione corsiva dell’accurato ordito, di tradizione tardoarcaica – coerente con la resa su bronzetti come la kore  di Covignano[51] – applicata alla testa di Fonte delle Donne con la variante della coppia di treccioline che scendono parallele ai lati del volto, come per una serie di antefisse chiusine (fig. 8 B)[52] la cui parentela stilistica con il frammento dal territorio di Terricciola appare evidente anche nella redazione degli idealizzati tratti del volto.
Accomuna la testa da Populonia a quella di Fonte delle Donne anche la tecnica, con la modellazione su matrice dei singoli elementi, da saldare in una fase successiva di lavorazione: le due parti laterali per l’esemplare di Populonia, la parte frontale, e, forse, il tergo o la lastra di applicazione finale per Fonte delle Donne.
Nell’insieme, quindi, la datazione proponibile, proprio in aderenza alle antefisse chiusine cui la ricca attività coroplastica dell’area tiberina offre solidi punti di riferimento cronologico, nel terzo quarto del V secolo[53], è coerente con i pur esigui materiali ceramici e laterizi recuperati con le ricerche del Gruppo Tectiana nell’area del ritrovamento, e colloca Fonte delle Donne nella sequenza ormai consistente di nuclei insediativi che domina da sinistra il corso dell’Era (fig. 7): sulla sommità di Scannicci, nell’area in parte occupata dal castello medievale, l’affioramento di laterizi e ceramiche (pur esigue) databili fra VI e V secolo a.C.[54], segnala un abitato d’altura; a Tegolaia, e nell’area stessa di Santo Pietro, insediamenti caratterizzati da strutture straminee, indiziate da intonaco di capanna, e datati al corso del VI secolo dai pur esigui frammenti di bucchero nero[55].
Il sistema di insediamenti d’altura che si profila intorno a Terricciola ripete il modello già riconosciuto sull’opposto versante della valle, nel territorio di Palaia, per l’età arcaica grazie soprattutto all’evidenza di Usigliano q. 203, e Cerreto[56] – cui si sono aggiunti i nuclei di materiali da Usigliano editi dal Bruni[57] – e, per il V secolo a.C. da Agliatone.
La distribuzione degli abitati d’altura lungo le vie itinerarie segnate dai fiumi – l’Era e il Roglio – e la possibile associazione del ruolo cultuale a insediamenti produttivi trova oggi una limpida attestazione nel sito delle Serre, cui Stefano Bruni da anni dedica le fatiche di archeologo militante. In attesa della piena edizione del complesso, continua tuttavia ad essere particolarmente indicativa per la ricostruzione del sistema di insediamenti tra VI e V secolo a.C. anche l’evidenza di Montacchita.
Nell’autunno del 1978 una serie di sopralluoghi permise di recuperare sull’acropoli di Montacchita un complesso di materiali proveniente dallo smantellamento di sedimentazioni rimaste integre fino a quel momento: fu infatti possibile identificare al margine dell’area sbancata, e recuperare, un lembo (‘strato A’) di strato antropico, con la caratteristica colorazione nerastra, ricco anche di resti di fauna, dello spessore di meno di 10 cm, sopravvissuto per neppure un metro quadrato, che fornì una campionatura di materiale rigorosamente coerente con quella salvata nella terra di risulta. Nell’insieme, il lembo di stratificazione integra e il complesso dei materiali parrebbero riferibili ad un’unità insediativa di dimensioni modeste, di pochissimi metri quadrati, costruita con materiale stramineo o ligneo, eretta sul punto dominante del rilievo; ovviamente non è possibile escludere che questa facesse parte di un più ampio insediamento demolito già dalle opere medievali, ma l’esame della terra di risulta tendeva a rendere meno probabile questa ipotesi.
Il complesso delle restituzioni riporta ad un contesto di materiali d’uso decisamente domestico, in cui concorrono, nella mensa, il kantharos in bucchero nero (fig. 9, 1-2) e la coppa carenata realizzata in due formati, uno grande (fig. 9, 3), qui redatto in bucchero nero, e uno ‘medio’, presente soprattutto in un impasto bruno o bruno-violaceo in superficie, rossiccio in frattura, con minuti inclusi eterogenei (fig. 9, 4-5), integrati dalla coppetta carenata con labbro ingrossato, modanato, in bucchero grigio (fig. 9, 7); il piede di queste forme è sostanzialmente discoidale, incavato (fig. 9, 6). È presente, nella redazione in bucchero grigio, il coperchio (fig. 9, 8). Le restituzioni in situ, dello strato A, comprendono l’identico repertorio (fig. 10, 1-3), mentre la presenza di kantharoi è dimostrata da frammenti di anse. Rara la produzione figulina d’impasto chiaro, con ingubbiatura biancastra, la cui comparsa non sembra anteriore allo scorcio finale del VI secolo, attestata da un fondo di coppa su piede ad anello (fig. 9, 9).
Sono abbondanti le attestazioni di ceramica da mensa e immagazzinamento modellata negli impasti con inclusi microclastici, nei quali vengono prodotte olle di vario formato, con labbro rientrante, talora solcato da una doppia scanalatura (figg. 9, 11; 10, 14), olle con labbro svasato, appena ingrossato, fondo piano (fig. 10, 15-16; 4-6, dallo ‘strato A’) coperchi emisferici (fig. 9, 12); forma particolare, forse destinata alla produzione di formaggio, è l’olla con fondo con forature (fig. 10, 13).
Le corpose disamine disponibili su queste classi ceramiche, e sulla loro diffusione nel territorio, esimono da un’analisi puntuale dei tipi, di uso pressoché universale nella frontiera nordoccidentale dell’Etruria del VI secolo a.C.[58]; si potrà solo annotare che la particolare fortuna della coppetta carenata in bucchero grigio, riconducibile alla ‘ciotola’ tipo 1 Rasmussen, anche a Volterra, in complessi formatisi prevalentemente nella seconda metà del VI secolo a.C.[59], invita a non cercare esclusivamente a Pisa il centro di produzione o di redistribuzione delle ceramiche in uso nei centri della Valdera, e si dovrà piuttosto sottolineare con forza l’omogeneità della koiné culturale dell’angolo nord-occidentale dell’Etruria, formata da comunità il cui elevato tasso di autarchia traspare nella esiguità delle importazioni, che a Montacchita si limitano a pochi e minuti frammenti di ceramica attica, e a un bacino d’impasto chiaro (fig. 9, 10), probabilmente prodotto nell’Etruria meridionale[60].
I materiali circoscrivono la frequentazione di Montacchita all’arco della seconda metà del VI, e, al più tardi, agli inizi del V secolo a.C., e confermano dunque la fluidità del quadro degli insediamenti, legati alle fortune dei gruppi familiari, o gentilizi, che li costituiscono; su questo aspetto maggiori informazioni potranno tuttavia essere fornite dallo scavo delle Serre.
Gli insediamenti d’altura, che più volte si è suggerito di associare al ceto di maggiorenti rurali che fra VI e V secolo a.C. si dota dei grandi cippi funerari in marmo, e, in altri settori del territorio volterrano, di monumenti funerari iconici che presentano il defunto nelle vesti di guerriero, sono integrati da abitati di fondovalle che, seppure in progressiva ascesa numerica nel corso del V secolo, sono già strutturati nel corso del VI, come dimostrano le evidenze del Bientina, e il caso di Nacqueto[61], e coprono ormai l’intero Valdarno, con le crescenti evidenze della piana compresa tra Era, Arno, Colline Pisane, in cui ai siti già segnalati dal Bruni[62], si possono aggiungere gli abitati emersi dai lavori dello Scolmatore dell’Arno a Badia di Pontedera (Badia III) e a Palmerino[63], di Gello[64], delle Melorie di Ponsacco[65]. In Valdera l’isolata evidenza dell’Inchiostro[66] è probabilmente solo la punta di un sistema di insediamenti che, come lungo l’Arno e i suoi affluenti, dovrebbe privilegiare il dosso che fiancheggia il corso d’acqua.
In questo contesto luoghi di culto legati a particolari virtù di acque e sorgenti, come appare il caso di Fonte delle Donne, per di più disposti lungo importanti assai di comunicazione interna dei territori cittadini, possono svolgere un ruolo che giustifica l’acquisizione di manufatti votivi di particolare tono artistico, che riflettono con puntualità l’arrivo anche in questo lembo dell’Etruria settentrionale dei modelli culturali greci.


Didascalie alle figure

Fig. 1. Ritrovamenti archeologici nel territorio di Terricciola.
Fig. 2. 1. L’urna dall’area della Parrocchiale, 1752. 2. Possibili confronti per l’urna di Poggio alle Tane, 1756. 3. Possibile confronto per il ‘grifo’ da Poggio alle Tane, 1756.
Fig. 3. Tipi tombali della Valdera.
Fig. 4. Urne dall’Antica, 1792.
Fig. 5. Ceramiche dall’Antica, 1792 (campiti in grigio gli esemplari indicati a vernice nera).
Fig. 6. A. Ceramiche da Terricciola, già nelle collezioni Gotti e Unis del Mattaccino, nel Museo Civico di Pisa; da Bruni). B. esemplare perduto (dal Lasinio).
Fig. 7. Siti con materiali del VI e V secolo della Valdera e del Valdarno Inferiore.
Fig. 8. La testa da Fonte delle Donne (A) e confronti da Chiusi (B) e Populonia (C-D).
Fig. 9. Materiali del VI e inizi del V secolo a.C. da Montacchita (Palaia).
Fig. 10. Materiali del VI e inizi del V secolo a.C. da Montacchita (Palaia).



Abbreviazioni
Bonamici, Urne – M. Bonamici, Urne volterrane dalla Valdera, in Scritti di antichità in onore di G. Maetzke, Roma 1984, I, pp. 125 ss.
Bruni, Legoli – S. Bruni, Legoli. Un centro minore del territorio volterrano, Pontedera 1999
Bruni, Valdera – S. Bruni, La Valdera e le Colline Pisane Inferiori: appunti per la storia del popolamento, in Aspetti della cultura di Volterra etrusca, Firenze 1997, pp. 129 ss.
Ciampoltrini, Cippi – G. Ciampoltrini, I cippi funerari della media e bassa Valdera, in ‘Prospettiva’, 21, 1980, pp. 75 ss.
[1] Si rinvia, per la bibliografia, all’ancora fondamentale contributo di Bonamici, Urne, pp. 125 ss.; pp. 139 ss. per la preziosa raccolta documentaria, pressoché completa.
[2] G. Targioni Tozzetti, Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, I, Firenze 1768, pp. 207 ss.
[3] Si veda, per la temperie culturale di quei decenni, M. Cristofani, La scoperta degli Etruschi. Archeologia e antiquaria nel ’700, Roma 1983, pp. 15 ss.
[4] «Che qui vivessero persone dedite alle superstizioni pagane si ricava dal fatto che talora, scavando nei campi, vengono in luce monumeti funerari, con statuette di bronzo, o di marmo, tanto che io stesso, pochi giorni fa, vidi frammenti di una certa urna sepolcrale, appena scavata, ornata con rilievi di Dei Mani, opera di scultura di un maestro non rozzo».
[5] Memorie di varia erudizione della Società Colombaria fiorentina, I, Firenze 1747, p. LVII; A.F. Gori, Museum Etruscum, III, Florentiae 1743, p. 70, tav. XVI; da ultimo Bruni, Legoli, pp. 12 ss.
[6] Su questo, Bonamici, Urne, pp. 125 ss.
[7] Bonamici, Urne, p. 139, con il riferimento alla lettera del Funaioli della Bibl. Riccardiana, Firenze, fondo Bigazzi 187/7.
[8] Bonamici, Urne, p. 140, con l’edizione del foglio Monumenti d’Antiquaria scoperti in diversi tempi nelle adiacenze di Terricciola, Bibl. Nazionale Firenze, Ms. II, VI, 60.
[9] Bonamici, Urne, pp. 126 ss.
[10] Targioni Tozzetti, op. cit., p. 206.
[11] Luogo citato supra, nota 8.
[12] Per il decreto, da ultimo A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi Stati italiani, 1571-1860, Bologna 1996, p. 39, n. 116; per le circostanze della genesi, si veda G. Ciampoltrini, “Samminiatensis Thesauri”. Il ripostiglio di Santa Lucia di Scoccolino, 1748, in corso di stampa in ‘Erba d’Arno’.
[13] M. Fileti Massa-B. Tomasello, Antonio Cocchi primo antiquario delle Gallerie Fiorentine, 1738-1758, Modena 1996, p. 133, n. 212.
[14] Targioni Tozzetti, op. cit., pp. 206 s.
[15] Luogo citato supra, nota 8.
[16] Archivio di Stato di Firenze, Guardaroba, Appendice 8, inserto sciolto.
[17] Bonamici, Urne, p. 141.
[18] Si veda anche Bonamici, Urne, p. 141.
[19] Infra,  nota 30.
[20] M. H. Crawford, Roman Republican Coinage, Cambridge 1974, n. 219, p. 257; n. 238, p. 269.
[21] Crawford, op. cit., n. 476, p. 486.
[22] Si veda per esempio Corpus delle urne volterrane di età ellenistica. 1. Urne volterrane. 1, Firenze 1975, p. 54, n. 60 (=fig. 2, 2 c); p. 58, n. 64 (fig. 2, 2 a), dalla tomba tardorepubblicana ed augustea j del Portone, 1873, per la cui datazione cfr. E. Fiumi, Contributo alla datazione del materiale volterrano. Gli scavi della necropoli del Portone degli anni 1873-74, in ‘Studi Etruschi’, XXV, 1957, pp. 407 ss.; p. 204, n. 298 (=fig. 2, 2 b), da Barberino Valdelsa.
[23] Si vedano per esempio le urne del territorio fiorentino, in M. Lopes Pegna, Firenze dalle origini al Medioevo, Firenze 1974, pp. 190 ss.
[24] Per le urne in terracotta di Volterra, e per la loro collocazione cronologica, cfr. M. Martelli, Definizione cronologica delle urne volterrane attraverso l’esame dei complessi tombali, in Caratteri dell’ellenismo nelle urne etrusche, Firenze 1977, pp. 80 ss.
[25] Bruni, Legoli, pp. 13 ss.
[26] M. Cristofani, Volterra, Scavi 1969-1971, in ‘Notizie degli Scavi’, Suppl. 1973, pp. 246 ss.
[27] Si veda da ultimo E. Regoli-S. Palladino, La necropoli di Pian dei Lupi, in Guida archeologica della Provincia di Livorno e dell’Arcipelago Toscano, Livorno 2003, pp. 76 s.
[28] Per i ritrovamenti d’età ellenistica in questo territorio si veda ancora Bonamici, Urne, p. 136, nota 55.
[29] «Poco fa ebbi notizia che in un feudo della Castellina Marittima, e segnatamente in un pezzo di terra di attinenza di Giovanni Lazzeri l.d. Spicciano presso la strada, che da d.o feudo conduce a Rosignano, fosse scoperto un sotterraneo, venni in curiosità d’intendere le circostanze di esso. Interrogatone Franc.co Lazzeri uno dei Proprietari m’ha avvertito che d.o Sotterraneo da lui scoperto circa due anni fa è di figura quadra, lungo, e largo intorno a quattro braccia, alto circa a braccia tre, a foggia di cupola, fatto, e formato dentro un masso a forza di scalpello avente nel piano una specie di gradino attorno attorno con una piccola porticciola che restava allora chiusa da una lunga pietra. M’asserisce d.o Lazzeri, che sopra d.o Gradino interno esistevano diversi vasi di varie figure, e grandezze, diceva esso, come piatti, pentole, e catinelle»: lettera di D.A. Piazzesi, da Lari, 7 giugno 1791, in Bibl. Riccardiana, Firenze, fondo Bigazzi 187, f. 37 r. Assai più ‘letteraria’ è la descrizione fornita nel corpo dell’Odeporico (9, c. 116) dal Mariti: «Qui [a Spicciano] sulla pendice di alcuni terreni di attenenza de’ Signori Lazzeri della Castellina, vedemmo un Ipogeo etrusco stato scoperto pochi anni avanti. Non potemmo entrare ... ma osservammo che poteva essere della circonferenza di circa venti braccia. Vi sono intorno alcuni poggioli a guisa di sedili, sui quali furono trovate delle Urne cinerarie di terra di elegante forma che alcune lavorate a sgraffito, ma semplici, altre con vernice nera, e alcune dipinte; e molti frammenti esistono tuttora sull’apertura del detto Ipogeo».
[30] F. Inghirami, Monumenti etruschi o d’etrusco nome, Badia Fiesolana, 1821 ss., t. 1, p. 12; t. 4, p. 99 s., nota 1.
[31] Ciampoltrini, Cippi, pp. 78 ss.: M. Bonamici, G. Ciampoltrini, L’ipogeo di Morrona, in Camposanto Monumentale di Pisa. Le Antichità, II, a c. di S. Settis, Modena 1984, pp. 71 ss.
[32] S. Bruni, Il “museo nascosto”. Materiali per la storia del Museo Civico di Pisa: la formazione della raccolta archeologica, in Alla ricerca di un’identità. Le pubbliche collezioni d’arte a Pisa tra Settecento e Novecento, a c. di M. Burresi, Pontedera 1999, pp. 121 ss.
[33] Cfr. Corpus  cit. a nota 22, pp. 26 s.; pp. 84 s. (A. Maggiani).
[34] Cfr. da ultimo Bruni, Legoli, pp. 40 ss.
[35] Bruni, art. cit. a nota 32, pp. 121 ss.
[36] Per questi aspetti, S. Bruni, Valdera, p. 163, tav. V, a; VI, c-d.
[37] Archivio Sopr. Beni Archeologici per la Toscana, pos. F 50, 1907 e F 15,  1908; valorizzati da Bonamici, Urne, p. 128, nota 15.
[38] Bonamici, Urne, p. 129, nota 18; Archivio Sopr. Beni Archeologici per la Toscana, pos. X Lari 1912.
[39] Bruni, Valdera, pp. 161 s., fig. 9.
[40] Per questo Bruni, Valdera, pp. 170 s.
[41] Ciampoltrini, Cippi.
[42] Ciampoltrini, Cippi, pp. 79 s.
[43] Bruni, Valdera.
[44] Cenni in G. Ciampoltrini, Modelli d’insediamento nel territorio volterrano fra l’età romana e l’Alto Medioevo: l’Alta e Media Valdera, di prossima pubblicazione in Atti Laboratorio Universitario Volterrano, 6.
[45] Targioni Tozzetti, op. cit., p. 205: «Circ’a 15. anni sono vi fu trovato un Idolo bellissimo di Bronzo, che poi fu donato alla Sereniss. Principessa Eleonora: altri piccoli ne conserva presso di se il medesimo il Sig. Arciprete».
[46] Bruni, Legoli, p. 16, figg. 5-6.
[47] G. Ciampoltrini, Le “terre” del Camposanto, in Camposanto Monumentale, cit. a nota 31,  p. 115, tav. LV, 5.
[48] Targioni Tozzetti, op. cit., pp. 209 s.
[49] Bruni, Legoli, pp. 14 ss.
[50] A. Minto, Populonia, Firenze 1943, pp. 187 s., tav. LI, a-b.
[51] m. Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara 1985, p. 265, n. 32.
[52] Da ultimo A. Rastrelli, Chiusi in epoca arcaica e classica, in Chiusi etrusca, Chiusi 2000, p. 119, fig. 124.
[53] Rastrelli, op. cit., l.c., in piena coerenza con la datazione della testina populoniese proposta da L.A. Milani, Populonia. Relazione preliminare sulla prima campagna ..., in ‘Notizie degli Scavi’, 1908, p. 220.
[54] Segnalazione di Daniela Pagni, e sopralluogo dello scrivente.
[55] Indagini dell’arch. Marco Citi, del Gruppo Tectiana, che ringrazio per le puntuali e cortesi segnalazioni.
[56] G. Ciampoltrini, L’insediamento tra Era e Elsa dall’Età dei Metalli alla Tarda Antichità, in Le colline di San Miniato (Pisa). La natura e la storia, a c. di R. Mazzanti, Suppl. n. 1 ai Quaderni del Museo di Storia Naturale di Livorno, 14, 1995, pp. 59 ss.
[57] S. Bruni, Pisa etrusca. Anatomia di una città scomparsa, Milano 1998, pp. 186 ss., tav. 88.
[58] P. es. S. Bruni, Materiali per Pisa etrusca. 1. Le ceramiche dall’area del cimitero ebraico, in ‘Bollettino Storico Pisano’, 65, 1996, pp. 61 ss., in part. pp. 65 ss.; G. Ciampoltrini, Gli Etruschi del Bientina. Storie di comunità rurali fra X e V secolo a.C., Buti 1999, pp. 39 s.; G. Ciampoltrini et alii, Paesaggi perduti della Valdinievole. Materiali per l’insediamento etrusco e romano nel territorio di Monsummano Terme, in ‘Rassegna di Archeologia’, 17, 2000, pp. 258 ss.
[59] G. Cateni, A. Maggiani, Volterra dalla prima età del ferro al V secolo a.C. Appunti di topografia urbana, in Aspetti della cultura di Volterra etrusca, Firenze 1997, pp. 83 ss., figg. 16-17.
[60] Per la diffusione nella classe nel territorio, da ultimo N. Taddei, Insediamenti d’altura dell’entroterra pisano. Un caso: lo scavo dello Spuntone (Calci, Pi), in ‘Memorie dell’Accademia Nazionale dei Lincei’, IX, XII, 3, 2000, pp. 375 s.
[61] Si rinvia in merito a Ciampoltrini, op. cit. a nota 58, l. c.; Ciampoltrini et alii, art. cit. a nota 58, l.c.
[62] Bruni, op. cit. a nota 57, pp. 185 ss.
[63] Di prossima pubblicazione da parte dello scrivente.
[64] Segnalazione di Daniela Pagni.
[65] Scavi diagnostici 2002-2003, condotti dall’Università di Pisa (prof. M. Pasquinucci), d’intesa con la Soprintendenza per i Beni Archeologici per la Toscana, e il Comune di Ponsacco.
[66] Bruni, Valdera, pp. 154 ss.

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