La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

lunedì 30 agosto 2010

Misteri di Liber Pater (o di Priapo) a Marti







Generosa di storie sepolte è la terra di Marti, severa collina fra Chiecina e Ricavo, dacché la contagiosa passione di Daniela e delle sue compagne di avventure di balza in balza, dall'uno all'altro fiume, ha evocato gli Etruschi della Granchiaia, le fornaci dei meravigliosi mattoni che sostanziano l'indorato tardo romanico della pieve e del bastione, baluardo pisano distrutto con le mine che la sagace archeologa esperta di castella e di monete divinò nello scavo appassionato di un gruppo di amici di passione, in estati di anni remote, forse 2001, forse 2002, quando il riverbero del sole sul fitto ricorso di mattoni abbagliava l'escavatore e l'argilla.
E poi stagioni di scavi esemplari, il fiore della nuova archeologia di Toscana, sulla fornace e sulla strada del Quattrocento, e sulla casa di mattoni e di terra e d'ardesia e di legno, fino a tracciare la topografia di una rocca e dei suoi borghi, tassello su tassello.
E dunque ben venga la misteriosa tricuspide lapidea, ritrovata dove già furono Etruschi e Romani, ancora dalla passione inesausta, rinnovata dal trascorrere delle stagioni, di Daniela e delle sue donne. La sfida è grande per chi è avvezzo a trovare risposte alle domande del passato nelle geometrie delle stratificazioni, nelle tensioni del diagramma stratigrafico, e consolazione alle sue fantasie in ceramiche ricondotte ad inesorabili orizzonti cronologici. Ma avendo appena letto nelle pagine del Sommo Archeologo degli Anni Vigenti che occorre pur dare passione ai lacerti di strati e ai frammenti, dar sangue ai cadaveri che la terra ci restituisce in frammenti dispersi, allora non è da sciagurati figli dell'Irrazionale riandare alle letture liceali di Orazio, del tronco di legno incerto se divenire sgabello o Priapo, e al Fallo incoronato dei Misteri di Liber Pater che a lungo salutava i viandanti nei sottofondi dei musei fiorentini, e ora s'aderge – degnamente ritrovato il suo ruolo – a proteggere i giardini di Villa Corsini.
Voli la fantasia, ritrovi antiche vigne, di Etruschi o Romani poco importa, sulle colline fra Ricavo e Chiecina, antiche acque d'Etruschi (Tlesina) e di Romani (Rivus Cavus), dove al tempio di Marti che dà nome alla terra dagli albori del Mille poteva pur preludere il fascinum di un altro dio agreste, informe abbozzo ottenuto da rustici mazzuoli e da caotici scalpelli sfinendo un geode figlio del Pliocene, sì da farne evocazione delle Forze Generatrici della Terra. Fantasie e sogni, per popolare dei Segni del Passato le colline che già furono di Etruschi e Romani, poi degli Upezzinghi e dei loro fideles, dei Baldovinetti e dei loro mezzadri, e ora sono degli agriturismi.

venerdì 27 agosto 2010

Verde archeologico d'estate a Santa Maria a Monte: l'erba del lavatoio, la maledizione della pagoda verde





È il verde il colore dell'archeologia nell'estate del 2010 a Santa Maria a Monte: il verde del prato che copre e vigila i segni di Sant'Ippolito d'Anniano e il primo fonte battesimale cruciforme di Toscana, scavato in un anno dall'impegno di un gruppo di amici dieci anni fa, crepuscolo di una generazione di appassionati e alba di una nuova generazione, ancora in formazione ... l'agosto del 2000, con festosi amici che s'affannavano a trovar la facciata della prima pieve sull'Arno, delineata da pochi resti di muri e dai molti cadaveri dei contadini del V e VI secolo.
E poi il verde che ha rigenerato il lavatoio di Valle Fontana, dove è ancora possibile illudersi che la falange di villette a schiera che scende per la costa della collina non turberà mai il suono delle acque della fonte perenne, la fonte secolare che nel X secolo fu Asulcari e castello, e oggi il verde assimila al colore del prato; la ferita dello scavo del 2004, che generò rinnovata passione – era il settembre – e rinnovati entusiasmi, ha trovato architetti intelligenti e pazienti, che con l'aiuto della verde forza dell'erba hanno musicato del rosso del mattone ottocentesco il molteplice gorgogliare delle acque e dato forma ai sogni degli archeologi, allo snello libretto che celebra il loro lavoro e la loro passione.
E verde è anche la pagoda (stupenda citazione da un amico) che celebra ritrovate dee (le Dee delle Fosse di Campana), sulla vetta che domina la fiorita collina tosca, dove un vescovo di Lucca strappò terre e case al pievano filogino per farne un castello a segno del suo potere sulla via verso Roma e che vide pievi di vescovi, castelli, assalti, macerie. Ninfe son queste, le Dee delle Fosse di Campana, Ninfe son quelle delle Fonti, che ancora a Valle Fontana s'illudono di rivedere le povere Santamariammontesi dell'Ottocento, a perdere nel lavatoio i bottoni e le medagliette di latta che gli archeologi ossessionati dai segni del passato ritrovarono nei fervidi giorni del settembre 2004. Il culto è diverso, agreste, nelle acque, celebrato da possenti monumenti sulla Rocca ... ma i possenti monumenti scricchiolano sotto il peso delle carte e dei contratti, e gli archeologi che sognavano i propilei della Pagoda delle Ninfe delle Fosse di Campana per addobbarli delle loro imprese, narrate in quattro anni, a puntate, agli amici del Valdarno, si rifugiano per sfuggire alla Maledizione della Pagoda Verde sulla riva dell'Arno, dove solo la Purezza del Pensiero ricorda Sant'Ippolito e il primo fonte battesimale di Toscana, o ad attendere che dalla Fonte esca la Ninfa, ad innamorarsi del gorgogliar dell'acque, ad aspettare il sorriso stanco della lavandaia venuta dal castello.

lunedì 23 agosto 2010

La luna nel piatto (di graffita lucchese del primo Rinascimento)




È leopardianamente silenziosa, con la piccola bocca chiusa, la luna nel tondo del fondo del piatto finito a livellar terreno, ai primi del Cinquecento, rotto al punto giusto da salvare il cerchio campito dal giallo reticolo in cui s'apre il volto ovoide dell'astro, con le pupille dilatate dal buio, pallida emula della Sorella Luna affranta degli stessi anni, posta nella robbiana della Verna ad assistere sgomenta, con il Fratello Sole, alla Deposizione del Cristo.
Doveva manifestare il suo stupore perplesso alla fine del pasto, divorato il panino, finita la zuppa (la forma è mutila, dice l'archeologo), sorpresa pregustata, preparata dal pittore di vasi per tutti, memore delle lezioni della graffita d'Oltreappennino, con il veloce reticolo a supplire le campiture piene, effetto illusionistico facile, attento più alla continuità della linea che alla precisione del tocco del pennello, ormai pronto a trasformar la sua arte nutrita dalle aspirazioni deluse di aspiranti a mense signorili in arte per tutti. La Luna che assiste sconcertata alla fine del pasto, stupita con lo sguardo da pesce, straordinaria metafora plebea in un'epoca di raffinata arte signorile.

giovedì 19 agosto 2010

I paesaggi informali dei vasai di Montelupo, negli anni del Barocco





È giallo il cielo nei paesaggi del vasaio di Montelupo, negli anni che furono di Luca Giordano, trionfo di sole o macchia di colore ... verde la terra o l'acqua che riflette in in giallo il giallo del cielo, bianco di risparmio il simmetrico edificio. Celebrata da una ghirlanda d'oro e da nastri estenuati è l'architettura dipinta che carica di colori barocchi gli azzurri paesaggi d'Olanda delle fini maioliche che forse a Montelupo mai arrivavano.
Contesti del Seicento, contesti del primo Rinascimento, uno scavo lucchese di un'estate del 2006 carica di attese deluse per generare solo nuove attese, uno scavo 'minore' di vasche e di pozzi neri, messo in un angolo per essere riscoperto in una nuova estate, cercando altre cose e fermandosi un attimo ad assaporare i colori di un Seicento miserabile, di osterie per i nipoti degli straccioni di Lucca, nel grande boccale che Sara riscattò dalla terra, un agosto del 2006.

lunedì 16 agosto 2010

La morte (e la vita) nell'Etruria degli anni di Augusto e Tiberio. Riflessioni sulla stele fiorentina dei Fontinii, preparando la mostra lucchese




S'avvita festoso, nel tuffo, il delfino, al suono trionfante delle buccine che gonfiano il petto dei Tritoni ... facile metafora dell'estremo tuffo nell'ombra dell'Ade, punto finale del viaggio accompagnato da suoni squillanti fino al rogo in cui il corpo dissolto s'immerge con l'ombra delle ceneri nella terra.
Pochi dubbi sul segno che Priamus e Heraclea, già schiavi di un P.Fontinius che sopravvive in loro, volevano dare alla loro sede estrema, in anni che – ci direbbe qualche dotto tedesco – possono essere fissati da quel che rimane dell'acconciatura della signora. Gli anni di Tiberio, forse, o di Augusto, un po' prima un po' dopo, a seconda delle finezze del dotto tedesco, anni in cui si era persa le memoria del salvifico Dioniso, da tempo represso, ancora non erano giunti Salvatori dall'Oriente, e solo la tomba e la memoria dei vivi davano la speranza che il rogo non tutto consumasse.
Fiero del sevirato, P. Fontinius P.l. Priamus, fiero della donna con cui aveva condiviso la storia di una vita che è tutta in quel simmetrico suono di buccine, nei segni incisi di un fine epistilio, per sollecitarci ad una storia perduta di una colonia augustea sulle umide sponde dell'Arno.
Gli archeologi sono personaggi curiosi, che si baloccano con cocci e strati, gente singolare che s'impunta per un muretto, talvolta; ma quando s'impegnano, riescono anche a scoprire la storia che s'avvita in qualche coccio finito in una buca scavata nella terra con un po' di legna carbonizzata. Le storie della terra, storie di vita e di morte, che ci testimoniano il pezzo di monumento funerario estratto dalla vanga degli sterratori della Fortezza da Basso di Firenze, nel Cinquecento, e gli astrusi frutti di scavi degli anni nostri.

giovedì 12 agosto 2010

Da Caravaggio ai lazzeri di Soiana: l'altro Seicento (e Settecento)




Sono stinti anche i segni della devozione dei contadini di Soiana, schiacciati da ultimo in una fossa pietosamente esplorata, in un ardente giorno di un'estate di quattro anni fa. Devozioni rurali, pietas estrema, con le medaglie consunte anche sotto le concrezioni, il foro che trafigge la Trinità quasi come spade e pugnali, metafora delle sofferenze della Madre di Dio, metafora estrema delle sofferenze di una vita passata con le dita sul doppio segno della salvezza, la Madre e il Padre, e la croce ... o a ricordare santi delle vie di transumanza, i santi figli del Re di Scozia nella teca di San Pellegrino in Alpe, simile a tante altre teche di santi, riciclabile senza problemi; e il santo soccorritore e taumaturgo, Sant'Antonio da Padaova tanto amato in questo lembo di Valdera che vede Pisa e forse anche il mare.
Devozioni di miseri, ancora di salvezza e di speranza per chi riesce a presentarsi lindo e decoroso anche nell'immagine suprema del Caravaggio, con il segno della speranza trasmesso dal Santo Inquisitore alle plebi oranti.

lunedì 9 agosto 2010

Daphnis, Chloe (vulgo: Dafni e Cloe) e l'anfora di Empoli




L'antico archeologo, generato dal nitore di statue e dal suono degli esametri, non si può arrendere al canto del profilo di piatti e anfore, al diverso arrotondamento del labbro in rapporto allo sviluppo del collo, alla larghezza della spalla riferita al diametro del piede, e al coefficiente che generano incrociandosi spessore delle pareti e colori del Munsell.
Le tondeggianti anfore di Empoli, corpi ovoidi labbra piene, al botox, snello collo con anse solide ben piantate su spalle sfuggenti secondo il volger dei secoli, trovano un po' di colore, sull'avana smorto di pareti concrezionate dalle argille d'Etruria, nelle leziosaggini pastorali dell'isola di Lesbo, Dafni e Cloe, se solo si filtrano le nostalgie idilliche (o idilliache) dei vagheggiamenti rurali del retore e del suo pubblico. Son quelli gli anni, fra le pestilenze giunte dall'Oriente e i Marcomanni alle porte, e poi Pertinace e le terre abbandonate, che dal tipo 'di Spello' portano al tipo 'di Empoli', nei sempre più frequentati contesti d'età imperiale delle terre dell'Etruria settentrionale. Sono anche gli anni della storia perfetta dei due finti pastorelli, con le grotte delle Ninfe e la vendemmia condivisa da contadini e pastori, nel lacus rurale lontano dai dolia, nei latifondi perfetti di terra per cereali, di colline per viti, di selve per il pascolo: non sono gli estenuati estetismi del Daphnis et Chloe – si direbbe – il commento migliore di queste storie con virtuosistici tormenti, ma le severe sequenze dei sarcofagi con scene pastorali, la composta fatica dei rustici, la serena quiete dei signori. Spunta un'anfora di Empoli (piacerebbe) nell'intreccio di viti e di arbusti, accanto al bacio inconsapevole dei due.

mercoledì 4 agosto 2010

Le storie nascoste nella terra, le Mura degli Aristocratici: celebrazioni nella capitale della Terra dell'Auser




Dall'Impero non arriva più il soldo per il cavallo, nelle frontiere pur tanto vicine alla capitale, e ormai si attende l'ordine di evacuare il Norico. San Severino ha preparato il suo popolo, la soldataglia erula dei numeri dimenticati si arrangerà con qualche Retoromano disposto ad affrontare i barbari; dopo aver affrontato e subito i senatori di Roma, non sarà certo qualche truce Longobardo a spaventarlo.
Nella felice Capitale della Terra dell'Auser arrivano però – si proclama con euforia – i soldi sottratti ai cavalli della truppa (gli Eruli dei numeri si arrangino, magari lo estorcano al Retoromano) per feste e convegni, ove gli aristoi celebreranno la grande impresa dei loro avi: le mura di Lucca, bastione dell'Aristocrazia contro la Tirannide, i contadini ai lavori forzati (i Medici le chiamavano comandate) di qua e di là dalla frontiera d'acqua.
Le storie fangose narrate dalla terra, con le archeologhe spruzzate di fango tra gli occhi e nei biondi capelli, non interessano agli aristoi: narrano dei pedites del popolo del Duecento, che voleva spazio dai milites, narrano dei coloni di Roma, giunti a fondare la città-stato ai confini dell'Italia. Storie fangose, storie polverose, per gli aristoi dei genea della Capitale tra i Fiumi, storie che sanno di fango e d'acqua, troppo anche per il Tesoriere dell'Impero.

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