La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

martedì 28 aprile 2009

Outing: ebbene sì!! Il segno dei Segni

Nato a Castelfranco di Sotto, paese al confine orientale del Valdarno pisano, allora postagricolo e oggi postindustriale, il omissis, dopo studi al Liceo Classico di Pontedera appena lambito dai moti sessantottini, approdò all’Università di Pisa, ove si laureò nel 1975 (ovviamente in Lettere Classiche), con una tesi di archeologia classica (della Magna Grecia), che ne ha favorito l’interesse per campi del tutto diversi delle discipline archeologichee.
Assolto il dovere di servire in armi la Patria, il professore omissis, che già lo aveva seguito negli estremi esiti del corso di laurea, lo guidò nei primi passi del perfezionamento nella Scuola Normale Superiore, lasciando poi il compito al professor omissis; non è dato sapere con quanto entusiasmo questi lo accolse fra i suoi discepoli genuini, ma certamente il fascino e l’autorevolezza del suo magistero non gli mancò.
Nel gennaio del 1981, fra i primi idonei di concorso, approdò nella da poco non più Soprintendenza alle Antichità d’Etruria, e pochi mesi dopo, seppur vincitore di posto di ricercatore alla SNS, al bivio erculeo fece la scelta che fa sì che oggi stenda queste pagine.
L’allora Soprintendente dott. omissis gli propose terre di montagna e umide pianure (Lucca e la valle del Serchio), dalle quali sembrava che il popolo da poco non più eponimo dell’istituzione si fosse astenuto, tanto che l’anno successivo lo volle benignare anche della bassa valle dell’Albegna (Orbetello e dintorni). Per più di un decennio si è mosso fra Serchio e Albegna, finché il dott. omissis (ca. omissis) non sancì la regola (presto derogata, come è giusto accada per le regole) della contiguità territoriale asoluta delle aree di responsabilità. Optando quindi per la valle del Serchio, cui nel frattempo si era aggiunto anche il natio lembo di Valdarno e poi, con il passaggio del dott. omissis a cattedra omissis, le colline della Valdera, lasciò le Maremme, e sta ormai risolvendo tutte le sue pendenze scientifiche in esito all’attività di tutela svolta in quei luoghi.
Il paesaggio che dalle Apuane e dagli Appennini si tramuta in una delle poche pianure della Toscana ha segnato quindi la sua attività, in un adeguamento che trapassa dalla rassegnazione all’entusiasmo per i minuti dettagli con cui invecchiando può arricchire scenari apparentemente già definiti. Non ha mai fatto alcun concorso, da nessuna parte, non ha mai insegnato alcunché (se non come riempi-ore nella omissis), non ha mai curato mostre se non locali, non ha mai accompagnato alcun oggetto in alcuna mostra in terre più o meno esotiche. Ha naturalmente fatto qualche viaggio, ma come privato cittadino (financo in omissis).
Già durante le coatte indagini ancora magnogreche del perfezionamento era stato colto dalla passione per l’archeologia del territorio natio (ovviamente un po’ ampliato), echeggiando in una prassi deideologizzata e pericolosamente contigua all’erudizione locale remoti richiami a culture materiali, insediamenti, ecc. … (sono gli anni del viaggio a Lisbona e non si sa più perché). Trasformata questa propensione in dovere d’ufficio, è stato facile per ventotto anni percorrere i territori lucchesi e del Valdarno; paradigmatici di questo processo microevolutivo (per qualcuno però potrebbe essere in-) sono i lavori dedicati all’archeologia castelfranchese nel 1980, 2004, 2007.
In una concezione ‘globale’ dell’archeologia, nata dalla pratica sul territorio maturata con la ricerca di superficie, e poi confortata dalla concezione della tutela come priorità assoluta, possono quindi essere visti i suoi contributi ‘scientifici’, sparpagliati in una gamma di sedi che va da riviste e convegni anche nazionali, a sedi iperlocali; di 300 e più (non ne tiene il conto, forse per snobismo, forse per una latente avversione all’attività catalogica), sono al massimo una decina quelli non strettamente legati all’archeologia della Toscana e, ancor più precisamente, dei territori di cui si è occupato. Ha semmai supplito all’angustia degli spazi con la dilatazione dei tempi, divagando dal Bronzo Medio all’archeologia d’età contemporanea, e presentandosi di volta in volta come occasionale intruso per mendicare l’indulgenza degli specialisti. In effetti, una volta aveva il core business nell’archeologia d’età romana e tardoantica dell’Etruria centro-settentrionale, ma di ciò si è dimenticato.
Ormai devastato dalla impossibilità di leggere gli articoli in corpo 7 cui il pur amico professor omissis lo aveva affidato su «Archeologia Medievale», ha deciso di spendere quel po' di cervello rimasto in libri a colori, perché l'archeologia è colore (come non volevano i fotografi della Soprintendenza dei remoti anni Ottanta, quando il solo colore che essi amavano era uno della bandiera nazionale, ma non il verde; e quegli scavi rimarranno per sempre in bianco e nero, come in bianco e nero sono quegli anni).
Archeologia e colori, corpo arioso, Garamond sì, no all'odioso Times di M(omissis); e viva anche Optima, scaturito da un Rinascimento tragico e consapevole, degno dei toni di Pontormo e del Rosso (Fiorentino).
Proviamo anche con questo, non si sa mai (perché del passato, del suolo, delle radici, ormai non interessa quasi più nulla a nessuno, se non agli studenti di Beni Culturali, fino al momento in cui non si rendono conto di dove hanno passato i migliori anni della loro vita); e poi ...
Abbiamo bloggato (o, per citare il diletto latino), bloggavimus.

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