La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

lunedì 30 novembre 2009

Le mura di Lucca: testi smarriti fra Lucca e Nanchino, celebrando il mitico «NotSBAT»










Un testo scritto per nulla, negato alle stampe, che voli sul web ...


Giulio Ciampoltrini

Archeologia delle mura di Lucca

«Via eundi et redeundi per murum civitatis nunc compositum iuxta murum Orti Sancti Fridiani versus pontem sancti Quirici»: un documento del 5 aprile 1198 (Archivio di Stato di Lucca, Diplomatico. San Frediano, 1198, apr. 5) tra le clausole del contratto di allivellamento di una casa di proprietà della chiesa di San Giovanni in capite burgi prevede il diritto di transito – per uomini e animali, come si specifica – «lungo il muro cittadino ora costruito presso il muro dell’Orto di San Frediano verso il ponte di San Quirico». È nell’avverbio che il documento si rivela un preziosissimo punto di riferimento per ricomporre la storia delle cerchie di mura di cui Lucca si è dotata: nunc, ‘ora’, perché le mura di cui si parla sono altra cosa rispetto alle mura ‘vecchie’, le mura romane su cui il Comune aveva fatto affidamento ancora per tutto il XII secolo.
Il decennio finale del XII secolo è turbinoso di eventi, per la vita esterna e interna della città, la cui crescita è insieme demografica, di monumenti, di ambizioni e di contese interne, con la crisi del potere imperiale seguita alla morte di Enrico VI (1197) a fare da detonatore.
Non sembra affatto casuale che la compositio – per citare il termine latino ‘di riferimento’ – di un nuovo apparato di mura per la città appaia nei documenti proprio subito dopo la morte dell’imperatore. Da qualche anno la città aveva superato, almeno nelle disposizioni amministrative, l’antico confine giuridico (e psicologico) delle mura romane, tracciando un percorso difensivo, formato da un fosso e un terrapieno (la carbonaria), forse poco rilevante come struttura poliorcetica, ma risolutiva per la definizione di un nuovo, e assai più ampio, spazio urbano che inglobava i ‘borghi’ cresciuti lungo le vie che uscivano dalla città, subito al di fuori delle porte: le asciutte Gesta Lucanorum – una sintesi cronachistica dei principali eventi della città comunale – ricordano sotto l’anno 1188 proprio la costruzione delle ‘carbonaie’, immediatamente citate come punto di riferimento topografico essenziale degli spazi urbani anche nei documenti privati (Ciampoltrini 2002, pp. 87 ss.).
Alla scelta della città di acquisire il pieno controllo del suo comitatus, e di proiettarsi negli scenari politici regionali – e non solo regionali – occorreva evidentemente un solido fondamento: la sicurezza di quegli spazi urbani in cui era radicata anche la forza del populus, in campo aperto assai meno efficace dei milites (i ‘cavalieri’), ma difficilmente superabile se poteva affiancare alla massa della fanteria il sostegno di potenti e solide mura in cui rifugiarsi, fiaccare gli assedianti, attendere soccorsi da altre città alleate.
Dopo il 1198, in effetti, le cronache cittadine ricordano scontri fra fazioni (di quartieri e interne), e, infine, un documento del 1206 fa luce sulle motivazioni squisitamente politiche della costruzione delle nuove mura: il 7 agosto 1206 le compagnie dei fanti cittadini (societates pedonum) si impegnano ad un vero e proprio ‘sciopero fiscale’ se il Comune non si deciderà a completare la nuova cerchia di mura.
Il successo dei pedites, espressione militare del populus, è assicurato, come appare dal fatto che nel giro di un decennio l’opera delle seconde mura è completata. La città comunale, intorno al 1220, si presenta dunque dotata di una cerchia turrita, tutta di pietra all’esterno, di laterizi all’interno, in cui si aprono porte di schietta tradizione ‘antica’ – ‘romaniche’ nel senso pieno del termine – tanto che è forte la suggestione di cogliervi l’eco, forse la più significativa, del ‘recupero dell’antico’ che anche Lucca conosce fra XII e inizi del XIII secolo (Ciampoltrini 2002, pp. 92 ss.).
A questa storia, ricostruibile dall’intreccio di documenti privati e fonti cronachistiche, l’indagine archeologica ha offerto un commento ‘visivo’ nel 2006, con i lavori di restauro ad un tratto delle mura nell’area cittadina cui faceva cenno il documento del 1198, «iuxta murum Orti Sancti Fridiani versus pontem sancti Quirici».
Nel pieno rispetto della cultura del restauro filologico, l’opera di recupero del tratto di mura compresa tra la Piattaforma San Frediano e il Baluardo Santa Croce (fig. 1), promossa dall’Amministrazione Comunale di Lucca, è stata preceduta – dall’autunno del 2006 – da una serie di saggi diagnostici, per la valutazione del tessuto murario e delle fondazioni che, eseguiti con rigorosi criteri stratigrafici da un gruppo di archeologhe coordinato – sotto la direzione scientifica dello scrivente – da Elisabetta Abela, sono divenuti vera e propria opera di scavo, e hanno consentito di cogliere la genesi di questo tratto della cerchia rinascimentale.
Quando a partire dal Cinquecento si decise di superare il composito ordito di mura medievali, fortificazioni trecentesche, torrioni quattrocenteschi cui la città confidava per tutelare la sua libertas dalle minacce dei Medici, in questo settore – come per buona parte del tratto nord-occidentale – le mura medievali furono conservate, con minimi adeguamenti, come paramento esterno del potente terrapieno adatto ad affrontare i nuovi strumenti di guerra: le armi da fuoco. Lo scavo del 2006 ha rivelato che, come traspare dai documenti, la struttura medievale fu eretta non senza rifacimenti e ripensamenti, in parte dovuti alla durata dei lavori (comunque inferiore ai venti anni), in parte forse a sollecitazioni esterne.
Il primo impianto delle mura, probabilmente quello cui allude il documento del 1198, è infatti costruito quasi sul letto del ramo del Serchio che da sempre lambiva le mura settentrionali della città, affidato alla combinazione di opere in muratura e di casseforme in legno, integrate da palificazioni (fig. 2), funzionale proprio alla costruzione in ambienti ‘umidi’. Pur con questi accorgimenti, tuttavia, la struttura dovette subire qualche cedimento, tanto che, quando si giunse a completare l’opera, non solo si provvide al recupero del materiale lapideo disponibile, limitandosi a trasformare i resti della prima costruzione in fondazione della seconda, ma si doveva anche essere determinata un’evoluzione nelle tendenze architettoniche: il torrione angolare della prima fase costruttiva, infatti, è poligonale, la torre della seconda – rasata nell’adeguamento rinascimentale – semicircolare (fig. 3), come l’intera sequenza di torri (isolate o di fiancheggiamento delle porte) che si innestava nella cerchia romanica, ed è straordinariamente apprezzabile nell’iconografia quattrocentesca, in particolare nelle miniature delle Cronache del Sercambi (Iconografia 1998, pp. 43 ss., nn. 1-15).
Lo scavo del 2006, seppure condotto con i metodi progressivamenti affinati dell’indagine archeologica, non è che uno degli ultimi episodi di quel connubio fra ricerca – antiquaria o archeologica – e ‘vita’ dell mura – dapprima con la costruzione, poi con la conservazione – che a Lucca è possibile seguire fin dal Cinquecento, quando la grande impresa di dotare la città del nuovo volto di mura andò di pari passo con la ricerca sui circuiti difensivi che l’avevano preceduta.
Il documento più fascinoso di questo lavoro, in cui si combinano indagini d’archivio e ricerche ‘sul campo’, è certamente la carta dei vari tracciati delle mura che un anonimo stese fra 1563 e 1565 (fig. 4; da ultimo Iconografia 1998, p. 54, n. 34), ma è nelle memorie degli eruditi lucchesi della fine del Cinquecento e dei primi del Seicento che si apprezza la ‘modernità’ di un metodo che a Lucca si affina anche grazie alle scoperte archeologiche vere e proprie (Ciampoltrini 1995, pp. 5 ss.).
Un passo del Penitesi, con Daniello de’ Nobili il miglior esponente di questa scuola, presto dissoltasi, permette di apprezzare il contributo che questo aspetto della cultura lucchese del Tardo Rinascimento assicura ancora oggi alla ricerca archeologica, con il ‘resoconto’ di un ritrovamento del 1613 (Ciampoltrini 1995, pp. 22 ss.):
«Abbattendoci noi nel secondo Horto de’ Frati Gesuati di S. Geronimo, mentre che si cavavano certi fondamenti molto à basso, di Pietre Tuffi, trovammo che i Muratori avevano fra essi tratta fuori una Lapide di finissimo marmo, ma troppo frangibile, la quale conteneva la seguente Inscrittione romana antica, e per inavertenza venne loro spezzata, ma raccolti et uniti insieme i pezzi, ricopiammo le lettere nel miglior modo, che ci fu possibile. Contenevano dunque
LUCEN. CIV. SUB PROBO
IMP. AUG. M. AUR. LAEV.
PROCOS. INTRA. GALLIAS
ENSIUM FAB RETENTURAE
IUSQU. COH. PR. LEGENDAE
MOEN. REST. A DUO LAT.»
Il resoconto del Penitesi, integrato con l’indagine ‘parallela’ di Daniello, ha infatti permesso di recuperare almeno il ‘senso’ della perduta iscrizione posta a celebrare un restauro delle mura che tutto autorizza a credere sia stato eseguito durante gli anni di Probo (276-282), quando l’antica cerchia di mura di cui la colonia Latina, fondata nel 180 a.C., si era dotata, dovette essere adeguata alle nuove esigenze poliorcetiche, e al ruolo che la città acquisiva nel sistema difensivo dell’Italia (da ultimo Ciampoltrini 2007 a, pp. 15 ss.).

Dalla fondazione all’assedio di Narsete: le mura di una città romana

Sono state proprio le pagine – purtroppo ancora ampiamente inedite – dei Discorsi di Daniello de’ Nobili a proporre, fin dai primi del Seicento, il punto di partenza per una ricostruzione del tracciato delle mura romane che rimane ancora sostanzialmente valido, con coincidenze di metodo fra l’indagine dell’antiquario seicentesco e quella – rimasta fondamentale – di Paolo Sommella e Cairoli Giuliani che negli anni Settanta del secolo scorso, dopo le ricerche di Antonio Minto, ha portato di nuovo all’attenzione dell’indagine archeologica il tema dell’urbanistica di Lucca romana (Ciampoltrini 1995, pp. 5 ss.).
Anche le recentissime acquisizioni sull’apparato difensivo della porta occidentale, disegnata dalla sequenza di opere di scavo che fra 2002 e 2003 hanno interessato interrati in Via Santa Croce, in effetti, non hanno permesso che di puntualizzare aspetti particolari dell’apparato del II secolo a.C., dimostrandone il compiuto radicamento nella tradizione ellenistica, con la porta ‘a cavedio’ provvista di torri laterali di fiancheggiamento, affermata in Italia già fra IV e III secolo a.C.
Decisamente più ‘rivoluzionaria’, anche per dissuadere dalle conclusioni basate su meri argumenta ex silentio cui talora gli archeologi indulgono, è stata la scoperta della torre innestata sul circuito tardorepubblicano, esplorata nel tardo inverno 2008 in lavori eseguiti fra Via Guinigi e Via dell’Angelo Custode (fig. 5).
Anche chi scrive, in effetti, sulla scorta della sola torre del circuito romano sin qui concretamente apprezzabile, nell’area del San Girolamo (fig. 6), aveva ritenuto (Ciampoltrini 2007 a, pp. 15 ss.) che la cerchia muraria tardorepubblicana non fosse provvista di torri, e che anche le due descritte dal Minto – ancora in aderenza all’antiquaria seicentesca – nel tratto sud-orientale del circuito, dovessero essere assegnate al rinnovamento del III secolo, o più genericamente tardoantico. La scoperta del marzo 2008 impone un drastico ripensamento di questo modello, e propone piuttosto per la Lucca del II secolo a.C. l’aspetto di una turrita piazzaforte, in piena consonanza con il ruolo che la città-fortezza doveva svolgere a tutela di un inquieto territorio di frontiera dell’Italia romana.
Altrettanto enigmatici sono i rifacimenti d’età augustea, che sondaggi diagnostici, fra 2000 e 2007, hanno delineato nell’area di Palazzo de’ Nobili, nel tratto settentrionale, e del San Girolamo, in quello meridionale. La centralità delle mura nel qualificare il decoro e il tono urbano, particolarmente di una colonia, come Lucca torna ad essere in età augustea ‘accogliendo’ i veterani delle legioni XXVII e VII, dedottivi da quel L. Memmius C.f. di cui ci è fortunamente giunta l’iscrizione funeraria, sarebbe da sola sufficiente a motivare i restauri, ma si è anche sottolineato il ruolo nel ‘controllo interno’ del territorio che le coloniae triumvirali e augustee dell’Etruria settentrionale sono chiamate a svolgere, e che nell’efficace cerchia in laterizio di cui la più vitale fra queste – Florentia – è immediatamente apprezzabile (Ciampoltrini 2007 b, pp. 14 ss.).
Già si è accennato che i frammenti di iscrizione ritrovati nel 1613 nell’area del San Girolano sono stati un vero e proprio ‘filo d’Arianna’ per focalizzare l’opera di recupero delle mura tardorepubblicane (con i restauri augustei, come si è appena detto), condotta a partire dallo scorcio finale del III secolo d.C., che l’indagine di scavo dell’ultimo decennio ha consentito di apprezzare in vari punti del circuito, dall’area Galli Tassi a quella di Corso Garibaldi (Ciampoltrini 2007 a, pp. 15 ss.).
In questa veste, con nuove torri che integravano il ruolo di quelle tardorepubblicane, anche con gli apparati per accogliere macchine belliche spettacolarmente leggibili nella superstite torre dell’area del San Girolamo (fig. 6), le mura di Lucca affrontarono uno dei pochissimi episodi bellici della storia cittadina. Non è un paradosso che una città che delle mura ha da sempre fatto l’elemento nodale della vita cittadina, abbia nella storia conosciuto pochissimi assedi: deterrenza e dissuasione sono ovviamente lo scopo primario di qualsiasi struttura difensiva.
Nel 553 la città fu chiamata però a svolgere un concreto ruolo ‘stretegico’, a tutela delle residue posizioni gotiche in Italia, e fu investita dall’esercito bizantino che tentava di completare, agli ordini di Narsete, la riconquista dell’Italia. Il difficile greco di Agathias (I, 16-17) rende poco appetibile la lettura dell’intreccio di minacce e blandizie che gli assedianti escogitarono per indurre alla resa i Goti e i Franchi loro alleati arroccatisi dentro le mura, ricorrendo solo da ultimo all’impiego di macchine da guerra, per aprire un varco nelle mura. L’assedio si concluse infine con una negoziato, come spesso accadde nella guerra ‘greco-gotica’ narrata prima da Procopio e poi da Agathias, condotta da sparute soldatesche in paesaggi urbani e rurali desolati dalla crisi demografica della Tarda Antichità, acuita infine dalle pestilenze e da catastrofici eventi climatici dei decenni centrali del VI secolo, cui l’immiserito tessuto sociale poteva far fronte solo ricorrendo a vescovi taumaturghi, come Frigdianus (San Frediano), a Lucca.
Tuttavia, è possibile che le helepoleis mechanai – le ‘macchine distruggicittà’ – impiegate dalle soldatesche di Narsete abbiano prodotto nelle mura le lacune, sanate con un eterogeneo impiego di ciottoli di fiume e pietrame di recupero, nella tradizione tecnica tardoantica, che sono apparse in uno scavo condotto nel gennaio 2005 sul lato occidentale delle mura (fig. 7), indiziato di essere lo scenario principale dell’attacco del 553 anche per il ritrovamento, seicentesco, di un ripostiglio monetario del VI secolo (Ciampoltrini 2007 a, pp. 42 ss.).

Fra archeologia e documenti: le mura di Lucca nel Medioevo

Tutto fa credere che i restauri succeduti alla conquista bizantina di Lucca abbiano invitato i primi Longobardi calati in Toscana dopo l’arrivo di Alboino e dei suoi in Italia (568), a fare della città la loro principale piazzaforte a sud degli Appennini, ‘chiave’ di quel percorso verso Roma che rimarrà elemento cruciale – e irrisolto – della politica del Regno longobardo fino alla sua scomparsa. Se avevano sostanzialmente resistito anche alle tecniche poliorcetiche delle truppe bizantine, raffinate dalla secolare tradizione romana e ancor più dall’esigenza di ovviare all’esiguo potenziale numerico della truppa, le mura di Lucca potevano garantire il punto d’arrivo in Toscana della via ‘da Lucca a Parma’, disegnata dagli Itineraria tardoantichi, che genererà, con un processo lungo e complesso, la via Francigena. Concepito fra III e IV secolo per assicurare i rifornimenti al sistema difensivo romano dell’Italia settentrionale e per sbarrare le vie di penetrazione verso Roma, questo percorso tracciato, formato da spezzoni di antiche vie, diveniva ora un sicuro asse per raggiungere il ventaglio di vie che da Lucca si aprono in Toscana e verso Roma.
Ancora una volta, dunque, Lucca deve alle sue mura – alle mura in opera quadrata degli anni della fondazione, rinnovate nella Tarda Antichità – il ruolo peculiare, di città ducale e marchionale, che svolge sino all’XI secolo, tappa sicura nei viaggi di re e imperatori attraverso l’Appennino. Senza nemici, senza assedi, le mura non sembrano neppure richiedere particolari opere di manutenzione.
Come si è visto, l’inadeguatezza del circuito murario romano non sembra dovuta all’esigenza di proteggere i sobborghi, quanto conseguenza di valutazioni politiche: anche la città longobarda sviluppa vivaci sobborghi, ma questi restano ‘aperti’, e manca, anche nelle fonti documentarie, qualsiasi accenno a strutture difensive. La città comunale, invece, sembra sentire con crescente ansia l’esigenza di un apparato difensivo che inglobi i sobborghi, divenuti essenziali alla vita pubblica – si direbbe – non solo per il potenziale demografico ed economico che accolgono, ma anche per gli equilibri nella vita politica interna che sono in grado di condizionare: la compiuta integrazione nella società cittadina, anche con il ‘fisico’ strumento delle mura, diviene essenziale e si esprime dapprima nella forma ‘giuridica’ del circuito delle carbonaie, e poi nella costruzione delle mura vere e proprie.
Le mura ‘romaniche’ propongono ancora oggi un aspetto non marginale del volto della città: i lunghi tratti inglobati nel settore settentrionale della cerchia rinascimentale, le porte di San Gervasio e dei Borghi danno un’eccellente idea del volto della città fra Due- e Trecento, con l’ampio letto dei fossi che faceva della città una vera e propria isola fluviale, e che è minuziosamente riprodotto nelle miniature del Sercambi. Il recupero del tracciato delle mura dei primi del Duecento, tuttavia, è anche opera dell’indagine archeologica, che – come per le mura romane – ha integrato i tratti superstiti, o documentati nelle fonti medievali e rinascimentali, in una sequenza di acquisizioni talora in grado di aprire insospettati squarci di luce sulla città medievale.
Se già Daniello de’ Nobili aveva raccolto documenti essenziali per la postierla che alla Fratta integrava, sul lato occidentale, il ruolo delle due porte maggiori (di San Gervasio e di Santa Maria, detta dei Borghi), e il cartografo cinquecentesco l’aveva indicata (fig. 4), all’indagine archeologica è toccato il compito di portarla in luce, nel 1989, sotto Palazzo Boccella alla Fratta (Ciampoltrini 2002), e di definire quella sottile dialettica fra conservazione e spoliazione delle mura medievali sulla quale si fondano aspetti dello sviluppo urbano, intramuraneo, che fra la seconda metà del Cinquecento e i primi del Seicento è indotto dalla costruzione della nuova cerchia: il quartiere rinascimentale, con settori riservati a palazzi gentilizi e altri destinati all’edilizia popolare, che si snoda con una progettazione urbanistica esemplare dal San Francesco sino all’altezza del San Martino nasce dalla demolizione delle mura medievali.
Gli scavi di Palazzo Arnolfini prima (1998-2000: Ciampoltrini 2002) e di Palazzo Poggi più di recente (2006-2007), in particolare, hanno rivelato i diversi ‘modi’ dell’edilizia rinascimentale, che trova nelle mura medievali un’imponente ‘cava’ di materiale da costruzione: questo è il destino sia dei blocchi del paramento esterno, che dei laterizi di quello interno, e dello stesso ciottolame della massa cementizia delle mura, se queste non sono riutilizzabili come fondazione dei nuovi edifici. A Palazzo Poggi, tuttavia, almeno una parte delle strutture medievali viene risparmiata, e sepolta sotto i potenti livellamenti (fino a 2-3 metri di spessore) che consolidano il terreno, in particolare in corrispondenza del fossato esterno; sondata nel 2006, conserva – in un settore delle mura in cui l’indagine di scavo ha dimostrato la rigorosa qualità del rilievo che ne fu dato dagli agrimensori che progettarono l’impianto del quartiere rinascimentale – una postierla pressoché ignota anche ai documenti medievali, e la via che ad essa conduceva (figg. 8-9: Ciampoltrini 2007 c, pp. 95 ss.).
Nella sequenza di tamponamenti e di rimaneggiamenti subiti, la postierla, che doveva condurre all’area suburbana del San Colombano, e al monastero che vi sorgeva, diviene immagine esemplare della storia di un monumento tanto significativo per la società comunale che lo volle con determinazione, quanto rapidamente trasformato da nuove esigenze strategiche: il lato orientale delle mura duecentesche, che integrava le porte monumentali con due postierle, preparando un’espansione extramuranea con sobborghi che presto richiederanno nuovi apparati difensivi, nella cerchia rinascimentale è completamente chiuso.
Il vivace borgo che dalla porta orientale della città romana, poi da quella medievale di San Gervasio, era cresciuto lungo l’antica via che portava a Firenze, accoglie ora palazzi gentilizi, ripiega in un paesaggio da ‘campagna in città’ che trova nella villa Buonvisi, poi Bottini, e negli orti delle comunità conventuali una adeguata espressione.


Nota bibliografica

Per le mura romane, si rinvia a G. CIAMPOLTRINI, Lucca. La prima cerchia, Lucca 1995 (= Ciampoltrini 1995), con una sintetica rassegna bibliografica degli studi, e recensione della documentazione archivistica e documentaria; il contributo di P. MENCACCI, Lucca. Le mura romane, Lucca 2001, ha risolto – in particolare – il problema delle cave del materiale da costruzione.
Per i restauri augustei, si veda G. CIAMPOLTRINI, Paesaggi urbani e rurali di una colonia augustea, in Ad limitem. Paesaggi d’età romana nello scavo degli Orti del San Francesco, a cura di G. Ciampoltrini, Lucca 2007, pp. 13-42 (= Ciampoltrini 2007 b); per le mura nella Tarda Antichità, sintesi in G. CIAMPOLTRINI, La città e la pieve. Paesaggi urbani e rurali di Lucca fra Tarda Antichità e Alto Medioevo, in San Pietro in Campo a Montecarlo. Archeologia di una plebs baptismalis del territorio di Lucca, a cura di G. Ciampoltrini, Lucca 2007, pp. 15-67 (= Ciampoltrini 2007 b).
Per le mura medievali si veda G. CIAMPOLTRINI, La seconda cerchia di Lucca fra fonti documentarie e evidenza archeologica in G. CIAMPOLTRINI – M. ZECCHINI, Palazzo Arnolfini in Lucca. Materiali per l’archeologia e la storia della città dal Medioevo al tardo Rinascimento, Lucca 2002, pp. 87-106 (= Ciampoltrini 2002). Sintesi ricca di materiale iconografico è l’opera di P. MENCACCI, Lucca. Le mura medievali (sec. XI-XII), Lucca 2002; dello stesso autore, fondamantale anche il contributo sulle mura del Tardo Medioevo: P. MENCACCI, Lucca. I borghi medievali (sec. XIV-XVI), Lucca 2003.
Gli inediti scavi di Palazzo Poggi sono sinteticamente presentati in G. CIAMPOLTRINI, Gli “astrachi” bassomedievali di Lucca, in Tra città e contado. Viabilità e tecnologia stradale nel Valdarno medievale, Atti del Convegno di Montopoli in Val d’Arno 2006, a cura di M. Baldassarri e G. Ciampoltrini, San Giuliano Terme 2007, pp. 91-100 (= Ciampoltrini 2007 c).
Per l’iconografia urbana di Lucca, è preziosissimo Lucca: iconografia della città, a cura di G. Bedini e G. Fanelli, Lucca 1998 (= Iconografia 1998).


Didascalie alle figure

Fig. 1. Il cantiere di restauro del tratto di mura fra il Baluardo Santa Croce e la Piattaforma San Frediano.
Fig. 2. Le mura medievali nell’area del cantiere: la tecnica costruttiva.
Fig. 3. Le mura medievali nell’area del cantiere: la torre della prima fase, a pianta poligonale.
Fig. 4. Le cerchie murarie di Lucca in una ricostruzione cartografica della metà del Cinquecento.
Fig. 5. La torre delle mura tardorepubblicane in Via dell’Angelo Custode (marzo 2008).
Fig. 6. Le mura tardorepubblicane con i restauri tardoantichi (gennaio 2005).
Fig. 7. Torre delle mura tardoantiche nell’area del San Girolamo.
Fig. 8. Le mura medievali nell’area di Palazzo Poggi: veduta dall’alto.
Fig. 9. Le mura medievali nell’area di Palazzo Poggi: il paramento interno.

domenica 29 novembre 2009

Festa barocca in Toscana, contadinelle a Lucca




Festa grande in terra di Toscana, con il Principe che chiama Letterati a convegno, a declamar versi e Musici a dar di violino, squillano gli inni. I Segni del Potere barocco, la Festa, per esaltare la ritrovata la fonte del potere, la legittimità, nell'antico Granduca venuto d'Austria, illuminista (un po' massone?), che agli archeologi di Toscana ha dato quasi un secolo di buco per il benigno motu proprio con cui consentiva a tutti di scavar tutto e far quel che volevano del ritrovato. Era finita l'epoca del Principe mezzadro dei tesori sepolti (anzi, più che mezzadro, Signore). E così via, era a fin di bene la decisione del Principe d'Austria; Chiusi ringrazia.
E oggi che il filin del rosso d'Austria evoca il filin del rosso delle passioni mezzadrili nella bandiera di Toscana, perché non tirar fuori il Ricci finito in Norvegia, per celebrare con il dovuto Fasto (e la Ragione) le glorie dei Nuovi Granduchi, eletti dal popolo per volontà di Dio (o Partito, è lo stesso). Via i Medici, avanti i Lorena.
Segni dell'Auser si consola con le contadinelle lucchesi che esaltano la Libertas; povere contadinelle di una Repubblica dimenticata da tutti, e di un Comune che di tasca sua salvò gli ori del Longobardo di Santa Giulia.

domenica 22 novembre 2009

Confezionando tavole, le Madonne di Pietro da Talada, le belle donne di Ferrara (o Modena)






Non erano come quelle di Francesco del Cossa le Madonne del pittore delle montagne, il Pietro dei colori resuscitato dal Quattrocento garfagnino quando il Maestro di Borsigliana trovò nome e respiro, e la grazia rustica e lieve delle sue Madonne, la freschezza dei suoi Bambini e dei loro alfabetari, il goticheggiare dei suoi santi proposero il fascino di una marginalità che traduceva per la società di montagna del Quattrocento i linguaggi nuovi nelle vecchie formule; o innovava le vecchie formule con i nuovi linguaggi. Artista e committenza, modelli che si impongono e tradizioni che devono essere rispettate: come ben sa l'archeologo, temi che nelle 'età di transizione' (e tutte le età sono di transizione) divengono particolarmente interessanti. Ma mentre confeziona tavole a colori destinate a finire in bianco e nero in una sobria pubblicazione che nessuno leggerà, l'archeologo maturo che distilla il pensiero dell'archeologo di montagna si deve domandare se i maestri lombardi che tiravan su alla maniera dei padri loro la rocca di Camporgiano non si ponevano nei confronti delle lezioni del Martini e della Romagna come Pietro da Talada verso i maestri di Ferrara e di Firenze. E se i castellani di Camporgiano, e le lor dame, mentre leggevano le ultime canzoni di gesta e se ne facevano approntar di nuove non cercavano di rammentare le immagini di Schifanoia con i piatti di graffita: dame e coniglie e unicorni, pillole di un mondo di cortesia muliebre che nella rocca di (mezza) fa da spechio agli spazi ampi degli affreschi del palazzo. E sugli uni e sulle altre i rustici a far da sfondo a corteggi e giostre, alle guerre feroci in cui i villici ancora non avevano appreso dagli Svizzeri la forza della democrazie e delle picche solidali.

mercoledì 18 novembre 2009

La Croce di San Frediano



La lastra di San Frediano, il passo di papa Gregorio (il Grande),l'iscrizione funeraria riletta in assordante solitudine, la tradizione agiografica: quattro sottili pilastri per una storia del VI secolo, anni in cui Goti e Longobardi, Bizantini e la Peste infuriavano nella povera Terra dell'Auser, e l'Auser non avrebbe saputo dove andare, se il Santo Vescovo non l'avesse guidato con il suo rastrello, nell'attonita inerzia di una comunità cittadina priva di soldi, di uomini, di punti di riferimento, fra qualche nobilotta gota a Ravenna e comites di passaggio con una banda di disgraziati buoni solo a far ruberie (leggersi l'assedio di Lucca). Frygianus episcopus, con la croce incisa sul frammento che si sognò di aver ritrovato dall'oblio settecentesco (Lucca giacobina colpiva anche ai tempi della Repubblica, forse, e anche il clero seppelliva la sua storia?), e ora a far luce in una tormentata sala del museo lucchese cui lavora Penelope assediata dai Proci (sic), si direbbe.
Ma è il giorno di San Frediano, oggi, non del vescovo Frygianus, non venuto dall'Irlanda perché in quegli anni ancora San Colombano se ne stava a godersi il verde del Nord, e Agilulfo non bazzicava dalle parti di Bobbio. Il vescovo Frygianus, con quel nome tanto vicino al Fregione-Frizzone della campagna lucchese, il promotore dell'estremo rinnovamento di una chiesa in crisi perché le plebi rurali per far venir su il grano ed averne per vivere almeno un chicco per ogni spiga, si fidavano ancora delle remote divinità frugifere (ce lo dice il Gran Papa Gregorio), piuttosto che del Pantokrator nelle absidi delle cattderali; e dunque per evangelizzare le campagne c'era bisogno dell'efficacia di un comes con le sue soldatesche lanzichenecche, pronte a servire chi meglio pagava, il Re di Ravenna o di Pavia o l'Imperatore di Costantinopoli poco importava, come ben sapeva Ariulfo, pronto a combattere gli Avari al soldo dell'Impero, o i Bizantini al soldo di se stesso. Il comes di Lucca doveva avere ben altre gatte da pelare, per impegnarsi a cercare capanna per capanna i rustici refrattari (ahi ahi, la Vandea a parti invertite, l'oppressione dei colti 'illuminati' sui disgraziati rurali).
Ma è San Frediano, l'eroe di papa Gregorio, il segno di una Chiesa che nell'impotenza si affida al miracolo. Un Santo di grande attualità, in questi giorni. Lasciando da parte la sua croce gemmata, l'eco remoto di Ravenna, il presbyter Valerianus, che con quella croce preparava la sua carriera ...

domenica 15 novembre 2009

Giorni di novembre, giorni di Osiride, giorni di Rutilio a Falesia





Giorni di novembre, con acqua e cielo che si fondono, e il giallo è solo un tono di grigio ... i giorni della festa dei rustici di Falesia, allegri per qualche attimo, per qualche ora, davanti agli occhi compiaciuti del senatore della Gallia, gran signore. Finissima erudizione, per la data della festa dei giorni in cui le piogge fanno spuntare il verdeggiante auspicio di nuova vita, o di vita che continua: 28 ottobre, primi di novembre, dal 15 al 30: i filologi, peggio degli archeologi. Facile battuta, così come facile è sproloquiare che per i disgraziati contadini della Tuscia – annonaria o suburbicaria non è il caso di distinguere – doveva essere assai più vicino del Dio cristiano celato in nuove basiliche lucide di mosaici e dalle diatribe dei concili, il dio che rinascendo nel verde novembrino faceva intravvedere, fra i dolori della guerra e i dolori dei domini, almeno la continuità di vita, miserabile ma vita, e allegrata dal primo vino (novello della Maremma, o della Val di Cornia): Osiride. La festa rustica che leggemmo nella statuetta di giallo antico di Volcascio, perché così un tocco di colore arricchiva l'opaca massa di cocci scaricati sui fianchi di un monte immerso nell'umidità dei boschi di Garfagnana; le devozioni pastorali di Dafni e Cloe che fan risuonare le grotte delle ninfe della Pania e di Soraggio di pastorali suoni perduti, delle primizie affidate alle dee perché si moltiplicassero, nella scodella forma Hayes qualcosa con stampini Hayes qualcosa.
Lucca cristiana, cattedrali e grotte delle Ninfe, Rutilio e l'antica passione, le attese dei rustici e il senso del potere delle aristocrazie militari, devote all'imperatore e alla sua fede (Costante e Giuliano): narrare agli altri è per prima cosa narrare a se stessi, ricostruire da un sottile strato di cocci medioimperiali, fra qualche buca che si vuol dir di palo, la capanna di Dafni e la festa di Falesia, ottobre-novembre 417 d.C. E l'importante è convincersene, sedotti dai colori del Vergilius Vaticanus, dai pupazzi del Vergilius Romanus.

I mostri dei Beni Culturali



Mostran lor tortile beltade
le Angeliche archeologhe
a crude rocce avvinte, esposte
da oscena, antica superstizione
alle brame del mostro berluscone;
attendono il Ruggero piacentino
ch'avvinga il buon Medoro alle lor coste.

Un Archivista direttore coordinatore ricercatore storico scientifico livello C 3 super in attesa di essere valutato per F 5 o F 6 fascia terza ha recentemente scoperto in un faldone d'età napoleonica una sequenza inconsulta di versi ai quali parrebbe essersi ispirato Ingres per il suo capolavoro; ne è poi emersa una variante, in cui Ruggero è detto 'magrebino' e non piacentino. Un Direttore bibliotecario vice genio, amico di Segni dell'Auser, non ha avuto difficoltà a svelare l'apocrifo, giacché un'attenta perlustrazione del Du Cange non ha rivelato alcun 'mostro berluscone', neppure nelle estreme versioni in patavino arcaico delle Gesta rolandiane. Si tratta chiaramente di un'allusione alle archeologhe (soprattutto, ma anche -gi) italiane/i, che vedono nella cupa superstizione che porta il popolo italiano a preferire il Berluscone, come un dì la DC, alle rosse bandiere oggi affidate al Ruggero piacentino (andrebbero bene anche le verdi del Ruggero magrebino, più filologiche, fra l'altro), la fonte di ogni lor male, inclusi certi sintomi protoartritici che affliggono già le tortili trentenni..
Segni dell'Auser ha chiesto notizie sul mostro berluscone, e sugl'infiniti mali che pare addurre ai Beni Culturali italici, ad un suo amico Vecchio Archeologo, appena ripescato in C 3 super dopo otto anni di valutazione dei venti prima passati sotto le insegne dei Beni. E questi asseverò che sì, oggi un mostro insidia la virginea Archeologia, ma anche quando il mite Veltrone teneva il Mostro Berluscone a bada con la sua flautata prosa, e l'Opulenta Romea pontificava, altri mostri infuriavano, non meno insidiosi, generati dalla rottura del mitico vaso 1089, da cui sorsero Direzioni Infinite, disseminate in tutta la terra a propagare nuovi Verbi del Male.
In effetti, continua il Vecchio Archeologo, né il Mostro Berluscone, né il Cane Veltrone, né la Foca Opulenta han combinato tanto, quanto l'incredibile copula fra il Dirigente e il Sindacalista di quegli anni remoti. Otto anni di gravidanza, e ora che l'elenco è nato, il Sindacalista vuol di nuovo copulare, inesausto e insoddisfatto del frutto dei suoi cromosomi. Aggiunge che da una pergamena sottratta a Lindisfarne e da poco scoperta in un tumulo norvegese dove i predoni vichinghi – che oggi dispensano la Sapienza della Pace, ma furono i più Feroci Viaggiatori dei Mari sino ad allora visti – si è letto, nel fluire dell'anglosassone, che anche Grendel fu generato/a dal connubio innaturale tra un Sindacalista e un Dirigente. E allora son guai per la Sala dell'Idromele, dove i guerrieri archeologici (in tutti i sensi, reperti corrosi dagli anni) dovranno di nuovo dar prova di sé,a sessant'anni, in ottennali concorsi per titoli, come il Sindacalista vuole, per diventare da F 3 F 4 o F 5. I mostri dei Beni Culturali nella Sala dell'Idromele, e un Beowulf all'orizzonte non si vede.

venerdì 13 novembre 2009

Dedicato alle paleonutrizioniste lucchesi, che studiano cosa mettere sulle maioliche dei Buonvisi








Da 'Castelfranco di Sotto fra Cinquecento e Settecento. Un itinerario archeologico', a cura di Giulio Ciampoltrini e Roggero Manfredini, Bientina 2007 (della serie 'Gli Introvabili'), un pensiero per le paleonutrioniste lucchesi, ovverosia: mettiamo il pollo sul piatto.

Graziella Berti (che si spera non ne sarà dispiaciuta) e Giulio Ciampoltrini

Lucca:
servizi in ceramica per la mensa
dei Buonvisi

Le ceramiche, come è noto, costituiscono sempre, nel corso di scavi archeologici, i re-perti più numerosi restituiti dal sottosuolo. La stratigrafia ci consente di collegarli con i livelli di frequentazione del sito indagato nei differenti momenti della sua storia, da epoche più o meno remote ai giorni nostri. Ed è da un accurato studio di questi resti, connesso con la consultazione della documentazione storica relativa al contesto in esame, che possiamo ricostruire, attraverso il consumo e l’utilizzo di specifiche ceramiche, il livello di vita, il ceto sociale, gli usi e costumi dei relativi abitanti, in un determinato momento della loro esistenza.
L’indagine, condotta nel 1985 dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana in occasione di lavori di ristrutturazione del complesso di Palazzo Lippi in Lucca, ci offre oggi l’opportunità di esaminare, all’interno di una stratigrafia complessa relativa alla vita del palazzo e alle fasi precedenti la sua costruzione, i resti di una serie di manufatti, ancora inediti, recuperati in strati della seconda metà XVI – inizio XVII secolo.
Con la denominazione moderna di Palazzo Lippi viene indicato un insieme di fabbricati, situati, a Lucca, tra la Piazza del Suffragio e la Via Sant’Anastasio, che costituivano il Pa-lazzo Calandrini, già esistente nella prima metà del XVI secolo . Il palazzo in questio-ne, e le sue pertinenze, insieme ad altri beni dei Calandrini, furono ceduti agli eredi di Antonio di Ludovico Buonvisi e di Alessan-dro Buonvisi a seguito di un atto di confisca, del 3 febbraio del 1568, emesso dallo ‘Ufficio sopra i Beni degli Eretici’.
I Buonvisi erano una delle grandi famiglie di mercatores lucchesi, la cui presenza è anco-ra attestata in molte città europee alla metà del Cinquecento. Tra queste possiamo ricordare, ad esempio Genova, Napoli, Venezia, Anversa, Parigi, Bordeaux, Lione, Marsiglia, Tolosa, Norimberga, Lisbona, Costantinopo-li, etc. E proprio questa famiglia costituisce uno degli esempi più significativi nel ricco panorama dei lucchesi dediti alla mercatura. Infatti, tanto per ricordare alcuni fatti importanti, fu Martino di Benedetto Buonvisi che nel 1517 installò nella nuova sede di Anversa la prima ‘compagnia’ lucchese, e qui, nel 1529, lo raggiunse il fratello Lodovico. Tra il 1521 ed il 1526 lo zio Nicolao si spostò da Londra ad Anversa per organizzare nel nuovo fondaco il commercio della seta. I Buonvisi dominarono l’attività finanziaria di questa città delle Fiandre fino al 1629, quando subirono un clamoroso fallimento Come attestano numerosi documenti, nei luoghi in cui operarono erano considerati i mercanti più facoltosi dell’epoca, capaci di coinvolgere nella loro orbita altre famiglie di Lucca . Ma i membri di questa famiglia non si dedicarono solo ai commerci: alcuni, resi-denti a Lucca, riuscirono a superare brillantemente la crisi del 1531 e quella che seguì la ‘Rivolta degli Straccioni’, sedata pure con il loro fondamentale contributo .
Questi brevi cenni alla condizione sociale, politica ed economica dei Buonvisi non sono certamente esaurienti per delineare, anche a grandi linee, la storia di questo casato, ma possono bastare per giustificare il rinvenimento, in una delle loro abitazioni, delle ceramiche che stiamo per prendere in considerazione. La presenza del loro emblema araldico su molte di queste ci porta ad affermare, senza timore di smentite, che si tratta di manufatti espressamente commissionati da membri della stessa famiglia ad una bottega attiva nel XVI secolo e poco oltre.



Il contesto

Il contesto da cui provengono i frammenti dei servizi Buonvisi è il riempimento (US 18/A) di un pozzo nero (eta) esplorato nel settore nord-occidentale (Saggio A) dell’area di scavo.
Il pozzetto era costruito di laterizi integrati da ciottoli, disposti in filari, legati da buona malta biancastra, e il suo uso era chiaramente indicato dalla canalizzazione in tubi fittili alloggiata sulla struttura in laterizi S e conclusa da uno scivolo costruito ancora con laterizi, che vi faceva confluire, all’angolo sud-occidentale, i liquami dall’edificio cui era pertinente il vano definito, oltre che dalla struttura S, da R, B1, V, ancora costruite in laterizi.
La formazione dell’ambiente è tracciata, nell’evidenza archeologica, da un livellamento di macerie (18) sciolte, con ceramica che la pone sullo scorcio finale del XV secolo; il livellamento 18 seppellisce il piano pavimentale di scagliette d’ardesia che segna la faccia superiore di un livellamento (20) di terra con rari frammenti di acrome basso-medievali. Il livellamento 18/A segna la fine dell’uso del pozzetto eta, colmato da macerie, abbondantissima fauna, ceramiche.
Il disuso, la demolizione, l’obliterazione del pozzetto, evidentemente funzionale alla fa-se quattrocentesca del complesso, non è che uno degli episodi che indicano, nell’evidenza di scavo, la rimodulazione del complesso nel corso del XVII secolo. L’inerte impiegato per seppellirlo fu attinto da un immondezzaio nel quale si dovevano essere accumulati resti di pasto e scarti d’uso di ceramiche, e a cui si ricorse anche per il livellamento 35, gettato su un pavimento in laterizi (36) datato dai materiali ceramici finiti nel vespaio al Tardo Medioevo.

Le ceramiche

I reperti di seguito analizzati più a fondo sono tecnicamente identificabili in due gruppi principali, ai quali è stato aggiunto un terzo che, pur essendo per alcune caratteristiche avvicinabile al secondo, costituisce, come vedremo, un caso decisamente diverso. Questi manufatti provengono per l’80-90% da un unico strato (PL.A/1 – 18/A), mentre i rimanenti sono stati rinvenuti in un altro (PL. 35), ma è significativo il fatto che tra gli ultimi si trovino frammenti che appartengono a recipienti attestati nel primo. Ciò ci autorizza a considerarli tutti un insieme omogeneo. Purtroppo lo stato molto frammentario ci impedisce di valutare il numero esatto dei recipienti attestati e di identificare di ciascuno il tipo morfologico preciso, pur potendo affermare che si trattava esclusivamente di forme aperte.

1° Gruppo – ‘Maioliche a fondo bianco’ (fig. 3-8)

Questo gruppo è testimoniato da 105 frammenti, pertinenti a più di venti manufatti.
– Per il corpo ceramico fu impiegata un’argilla depurata che, dopo cotta, si presenta di colore cuoio chiaro.
– Le due superfici sono uniformemente coperte di uno spesso strato di smalto stannifero bianco. Questo presenta crepature e una certa facilità a distaccarsi dalla superficie del corpo.
– Circa la metà sono pertinenti a manufatti con stemma centrale, l’altra metà a esemplari completamente bianchi. Dato che lo stemma occupa solo il centro del vaso, tale valutazione può essere alterata da forme di cui si conservano solo porzioni periferiche.
Gli stemmi identificati possono essere:
A – Quello tipico dei Buonvisi, entro scudo ovale: ‘d’azzurro alla cometa d’oro a otto punte in palo, carica di un bisante-torta inquartata in croce di Sant’Andrea d’argento e di rosso’; il campo azzurro è reso a trattini, la cometa è riempita con pennellate in giallo, mentre i quarti del bisante centrale sono alternativamente bianchi e marcati in giallo-bruno. I contorni, come tutti gli elementi esterni al disegno principale, sono sottili e tracciati in grigio violaceo. Lo scudo è fiancheggiato da svolazzi, con minuti elementi vegetali, ed è provvisto di cimiero con angelo ad ali spiegate, che sostiene un cartiglio con l’impresa della famiglia: tout jour je pence de bien faire, come suona nello stemma collocato nel plinto dell’altare Buonvisi in Santa Maria Corteorlandini a Lucca, datato 1660 (fig. 6-7); tout jours je pence a bien faire, attestato nella redazione a stampa, della fine del Settecento, di un albero genealogico della famiglia; infine, tout le jours je pense à bien faire, nella ver-sione del Libro d’Oro della nobiltà lucchese ottocentesca. La resa del motto – puot tours (o jours) ie pie[--] – tradisce l’evidente incomprensione dell’impresa, o per la scarsa qualità del modello fornito, o per il vero e proprio analfabetismo del pitto-re, che riproduce un testo senza comprenderlo.
Nel trattamento del complesso decorativo sono identificabili due mani diverse.
A commento della figura non manca, insieme a quelle in giallo e in blu scuro, qualche pennellata verde. Questa versione è attestata sicuramente almeno in tre casi, ma il giudizio è difficile per altri, sui quali si con-servano solo resti dell’ovale.
B – Uno stemma bipartito (tre casi). Sulla parte sinistra si trova lo stemma Buonvisi (sicuro in un caso, probabile negli altri due), sulla destra un leone rampante: lo stemma dei Cenami (sicuro in un caso, forse due), d’oro al leone rampante di rosso . L’associazione delle due famiglie potrebbe essere riferita al matrimonio fra Lorenzo Cenami e Chiara di Stefano Buonvisi, nel 1609 , anche se la posizione dell’arme Buonvisi, stando alla lettura araldica, dovrebbe indicare che nel matrimonio la famiglia era presente con il marito. L’inversione dei ruoli potrebbe essere giustificata, tuttavia, sia con la straordinaria superiorità dei Buonvisi rispetto ai Cenami – secondi sì solo ai Buonvisi nel repertorio per patrimonio delle famiglie lucchesi, ma ad enorme distanza da questi – che con il fatto che il servizio celebrativo delle nozze fu commissionato dai Buonvisi.
– Le forme sembrano essere tutte dello stesso tipo. Si trattava cioè di piatti con larga tesa e cavità abbastanza espansa, non troppo profonda. Il piede era ad anello, basso e arrotondato. Solo un reperto fornisce tutte le dimensioni, per altri due uguali (uno tutto bianco) ci mancano le prime due misure: diametro massimo cm 34; tesa cm 6; diametro cavità cm 22; profondità della cavità cm 3; diametro del piede cm 14. Altre misure, comunque, sembrano indicare nei casi citati la forma di maggiori dimen-sioni. Recipienti più piccoli sono documenta-ti da altri dati, pur se parziali, relativi al diametro massimo (cm 30/tesa 4,5-5; 28/tesa 4,5; 20; 18), al diametro della cavità (cm 17; profondità della cavità cm 2; diametro del piede cm 10), al diametro del piede (cm 12; 10,5; 10).

2° Gruppo – ‘Maioliche policrome a fondo blu’ (fig. 9-16)

Questo gruppo è attestato da 130 frammenti, pertinenti a più di trenta manufatti.
– Per il corpo ceramico fu impiegata un’argilla depurata apparentemente simile a quella delle ceramiche del 1° gruppo che, dopo cotta, si presenta di colore molto chiaro.
– Le due superfici sono completamente ri-vestite di uno strato di smalto stannifero blu (‘berrettino’).
– Lo stato frammentario non consente in nessun caso di rilevare completamente i dettagli, ma, nell’insieme, sono identificabili le varianti decorative di seguito commentate.
Tutti i manufatti di questo gruppo sono poli-cromi e presentano, entro un medaglione centrale, contornato da fasce concentriche, lo stemma dei Buonvisi.
I colori dei disegni eseguiti sopra il fondo blu sono il blu in tonalità più scura, usato per i tratti sottili e per mettere in risalto gli elementi vegetali delle fasce e il bianco. Il giallo e il giallo-arancio sono usati esclusivamente per esigenze araldiche.
Lo stemma ha il fondo blu, ma il suo profilo è sottolineato da una stretta fascia bianca. In base al trattamento dello scudo si posso-no distinguere due serie:
A – lo scudo è sagomato ed è circondato da sottili nastri; le otto punte della cometa si dipartono dal ‘canonico’ bisante già incontrato nel 1° Gruppo del ‘servizio bianco’.
B – lo scudo ‘a muso di cavallo’ campeggia da solo in mezzo al medaglione e le otto punte della cometa convergono al centro senza la distinzione del ‘bisante’ (almeno tre casi). La tonalità blu è in questo seconda serie decisamente più intensa.
Le fasce concentriche che circondano il medaglione sono sempre due, e possono essere entrambe riempite da motivi vegetali (tralci con foglie e frutta) in varia foggia (al-meno 5 casi), oppure con ornamenti del genere soltanto sulla fascia più periferica, mentre quella adiacente al medaglione è priva di ornamenti (almeno 16 casi).
Anche la superficie esterna è quasi sempre decorata sulla parete con un motivo ‘a ca-nestro’ o a ‘cespo’, tracciato in blu scuro, come la sigla all’interno del piede, presente soltanto sui pezzi della serie B. Tale sigla, con segni di abbreviazione sopra e sotto, è sempre pressoché uguale, costituita dalle lettere maiuscole P e B separate da un piccolo segno o da un grosso punto. È attestata in nove casi, in altri non è rilevabile a causa dello stato conservazione.
– Le forme più testimoniate erano dello stesso tipo di quello degli esemplari del 1° Gruppo. Si trattava cioè anche per questi manufatti di piatti con larga tesa, cavità ab-bastanza espansa non troppo profonda, piede ad anello basso e arrotondato. Nessun reperto fornisce tutte le dimensioni, ma i diametri massimi rilevabili indicano misure di cm 34/27-28/20 /14-14,5. Anche le altre misure registrabili confermano rapporti di-mensionali simili a quelli dei pezzi a smalto bianco.
Il quadro morfologico relativo al 2° Gruppo comprendeva però anche qualche recipiente diverso. Un frammento, relativo al centro di un vaso aperto che si presenta in questa parte quasi perfettamente orizzontale, con-serva resti di un piede svasato alto cm 2,5 circa. Il diametro di questo piede è cm 5,5 circa nel punto di attacco al corpo del vaso, cm 8,5 nel punto di appoggio. Di un altro esemplare (diametro massimo cm 20-22), verosimilmente con cavità emisferica, si conserva una porzione della parte alta della parete, che termina con una piccolissima tesa inclinata verso l’interno.

3° Gruppo – ‘Maioliche a fondo azzurro’.

– Una quindicina di frammenti, relativi a sei-sette recipienti, sono rivestiti di smalto stannifero colore azzurro (‘berrettino’) e decorati con motivi dello stesso colore, ma in tonalità più scura. Si differenziano netta-mente da quelli del 2° Gruppo, oltre che per i colori, anche per non essere mai ornati con uno stemma. Si tratta chiaramente di manufatti liguri del Cinquecento che, sebbene in numero esiguo, arricchiscono la pa-noramica della diffusione in Toscana di questi prodotti . In tre casi la tipologia rientra nel così detto ‘Calligrafico a volute tipo C’, con la tipica fascia ornata da un ‘filare di goccioline disposte a spina-pesce’. Si trova su una o due forme senza tesa, con orlo e-stroflesso, e su una con larga tesa. Su un frammento relativo ad un fondo, con piede ad anello basso e arrotondato, si conserva parte di un medaglione centrale riempito da volute arricchite con elementi vegetali. In un altro reperto, invece, è identificabile la ‘Decorazione a quartieri’, su una forma (di-ametro cm 27-28) simile alle precedenti senza tesa . Tutti gli esemplari, anche quelli con ornamenti non identificabili, hanno all’esterno il motivo ‘a cestino’ .
La differenza principale dei reperti del terzo gruppo da quelli degli altri due sta nel fatto che ci troviamo di fronte, in questo caso, a ceramiche oggetto di larga esportazione da parte di mercanti liguri. Tali manufatti venivano impiegati, per usi domestici, anche nelle dimore di cittadini di ceti sociali non necessariamente troppo elevati.
La loro presenza nelle unità stratigrafiche cinquecentesche degli scavi in centri urbani grandi e piccoli è piuttosto comune. Oltre che in siti della Toscana, troviamo i recipienti in questione in moltissime altre aree, non solo italiane. Tanto per citare qualche caso di esportazioni a largo raggio basterà ricordare, ad esempio, il recupero relativo al carico della nave naufragata di ‘Brocciu o Rocciù, à l’Île Rousse’ in Corsica . Ma la diffusione via mare non si limitò al Mediter-raneo, raggiunse infatti anche siti portuali del nord Europa e, addirittura, dell’America . L’ottica nella quale vanno visti questi manufatti è cioè simile a quella che accomuna tutti gli esemplari rinvenuti associati nella stessa unità stratigrafica, r-feribili ad un determinato contesto di consumo unitario. In merito allo specifico caso qui considerato, per avere un’idea sull’incidenza dei primi due gruppi, rispetto al totale, possiamo riprendere le informazioni da alcune note scritte negli ultimi anni Ottanta del secolo scorso, quando fu eseguita una preliminare schedatura delle ceramiche da mensa dello scavo di Palazzo Lippi.
I dati disponibili indicano le ulteriori attestazioni sinteticamente elencate di seguito:
– ‘Maioliche Arcaiche’, lucchesi e pisane di XIV-XV secolo: frammenti pertinenti a circa 15 individui.
– ‘Graffite policrome’ lucchesi, di XVI seco-lo: frammenti pertinenti a circa 15 individui.
– ‘Graffite Tarde’ pisane, di fine XVI-inizio XVII secolo: circa 150 individui.
– ‘Ceramiche graffite a stecca’ pisane, di XVI secolo: circa 30 individui.
– ‘Ceramiche graffite a fondo ribassato’ pisane, di XVI–inizio XVII secolo: circa 230 individui.
– ‘Maioliche di Montelupo’ (‘Italo moresche’ ed altre) di XVI secolo: circa 30 individui.
Pur trattandosi di dati da ricontrollare, da una prima approssimata valutazione sembrerebbe che, all’interno delle stoviglie da mensa attestate nell’unità stratigrafica selezionata, quelle dei gruppi 1° e 2° coprissero intorno al 10% del totale.
Che cosa suggerisce un dato del genere?
Se tutti i manufatti del sito rispecchiano in qualche modo le stoviglie da mensa impiegate dai Buonvisi nella seconda metà del XVI secolo – inizio del XVII, e la presenza del loro stemma su abbondanti pezzi dei primi due gruppi, come pure la notizia do-cumentaria dell’entrata in possesso del palazzo proprio in quel periodo sembra con-fermare, l’insieme ci offre un quadro relativo ad una famiglia nobile e molto agiata. Accanto ad un buon numero di stoviglie normali questi ricchi mercanti disponevano di uno o due ‘serviti buoni’, da usare nelle occasioni speciale.

Ritornando alle ceramiche del 1° e del 2° Gruppo è abbastanza facile escludere che si tratti di prodotti inclusi nelle produzioni correnti delle fabbriche della Toscana. L’unico centro che avrebbe potuto fare manufatti del genere sarebbe stato Montelupo Fiorentino. D’altra parte, la presenza dello stem-ma del casato indica in modo inequivocabile che quei pezzi furono commissionati da qualche membro della famiglia. Ciò rende più difficile ipotizzare il possibile centro di fabbricazione, in quanto è del tutto probabile che nel sito produttivo manchino pezzi con cui confrontarli. Se molti indizi indicano in Faenza il luogo di introduzione della tecnica del fondo blu (‘berrettino’) non si può fare a meno di condividere ancora oggi al-cune considerazioni espresse da Carmen Ravanelli Guidotti, dopo la scoperta della fornace dei Pompei a Castelli . La classe delle ‘maioliche turchine’ è una delle più caratteristiche e prestigiose del ’500 italiano. Ma «tale classe si può documentare in diverse aree regionali» e bene testimoniano tale fatto le collezioni del Museo delle Ceramiche di Faenza. «Infatti le ricche raccolte di interesse raffrontativo-multiregionale del Museo faentino, bene si sono prestate per dimostrare che le ‘maioliche turchine’ cinque-seicentesche sono presenti tra i prodotti di Faenza …, di Venezia, di Padova … e di Castelli. Ma l’assunto non sarebbe completo se noi non aggiungessimo che in raccolte pubbliche e private tale classe è altrettanto esemplificata tra i prodotti di Montelupo, di Deruta …, di Pesaro, della Sicilia e della Puglia, la quale sembra assimilare nel XVII secolo proprio i modelli compendiari castella-ni, bianchi e turchini …: ed è ancora più puntuale ricordare che, in ambito extra italiano, vasellami turchini si documentano anche presso le officine francesi di Nevers … ed ungheresi».
Un dato di fatto è che in quelle ‘turchine’ troviamo ripetute le stesse forme adottate nelle altre, a fondo bianco. Un ulteriore dato interessante per la sostanziale contemporaneità produzione delle ceramiche smaltate in bianco e in blu è la scoperta a Castelli di «frammenti di ‘marzacotti’ (o ‘fritte’) bianchi e turchini …».
Solo confronti molto approfonditi dei reperti di Palazzo Lippi con i prodotti di centri di-versi potrebbero darci qualche suggerimento più consistente sul possibile luogo di fabbricazione, come, del resto, potrebbe essere di aiuto identificare il ceramista che aveva posto le sue iniziali sotto un buon numero di esemplari. L’unica sigla simile (ma non identica) rinvenuta per ora si trova, tracciata in bruno di manganese, all’attacco inferiore dell’ansa di un ‘orciolo’ del XVII secolo attribuito a Montelupo . E non si può escludere che potrebbe dare buoni frutti anche un’accurata ricerca sui documenti degli archivi dei Buonvisi.
In attesa di ulteriori sviluppi delle ricerche, a conclusione di queste note non si può fare a meno di rimarcare l’attenzione sul fatto che il rinvenimento qui segnalato è da molti punti di vista piuttosto eccezionale. Durante il Rinascimento molte famiglie illustri fecero eseguire maioliche più o meno prestigiose con i loro stemmi ed il ‘caso Buonvisi’ si inserisce in questo filone. La massima parte degli esemplari noti, però, noi la conosciamo perché conservati in raccolte museali del Vecchio e del Nuovo Mondo, illustrati in libri d’arte o cataloghi più o meno importanti. Il rinvenimento di pezzi del genere non manca nelle discariche delle fornaci che facevano questi prodotti, come ad esempio quelle di Castelli in Abruzzo . Ma i servizi dei Buonvisi sarebbero rimasti probabilmente sconosciuti se non fossero stati recuperati gli esemplari di Palazzo Lippi qui segnalati, strettamente collegati al luogo in cui furono utilizzati proprio da membri di quel casato.

Pensieri d'autunno: la sepoltura murata di San Martino in Colle a Capannori







Capannori (Lu), la ‘sepoltura murata’ nella chiesa di San Martino in COLLE

Nel variegato panorama dell’archeologia d’età moderna e contemporanea nella Toscana nord-occidentale, il contributo dell’archeologia funeraria si sta facendo sempre più consistente. L’esplorazione di aree sepolcrali e l’indagine sulle ‘sepolture murate’ in uso negli edifici ecclesiastici fra Cinquecento e Settecento non stanno solo fornendo importanti dati antropologici, ma permettono anche di sottoporre alle verifica archeologica le informazioni documentarie su usi e riti funerari in questi secoli; infine, i ‘segni della devozione’ – rosari, crocifissi, medaglie devozionali – restituiti dallo scavo fanno rivivere con efficacia il mondo della devozione popolare.
Un’analisi complessiva dei dati disponibili, almeno al livello regionale, sembrerebbe ormai matura, e imposta dal continuo accrescersi dell’evidenza archeologica. Dopo l’esemplare e pionieristica presentazione dello scavo della sepoltura murata di Alica, nel 2002, in effetti, i scavi e pubblicazioni di sepolcreti del XVI, XVII, XVIII secolo si sono moltiplicati. Per rimanere in questa parte della Toscana, basterà accennare ai complessi di San Salvatore a Vaiano, nel territorio di Prato, di Soiana, in Valdera, di Lucca, Orti del San Francesco, e alla presentazione finale dello scavo delle strutture funerarie della chiesa di Santa Chiara a Castelfranco, nella mostra ‘Castelfranco di Sotto fra Cinquecento e Settecento. Un itinerario archeologico’, aperta nella struttura museale ricavata nella chiesa stessa (sintesi e bibliografia in Ciampoltrini, Manfredini 2007, pp. 65 ss.).
Nel maggio-giugno 2007 un intervento legato ad esigenze diagnostiche e all’attività di tutela ha offerto altrettante occasioni di documentare i riti funerari d’età moderna e contemporanea nell’antico territorio della Repubblica (e poi Ducato) di Lucca, e di cogliere con l’impressionante evidenza del dato archeologico l’evoluzione dei costumi funerari imposta dalle legislazioni di matrice illuministica, tra fine del Settecento e primi dell’Ottocento.
La chiesa di San Martino in Colle, posta sul confine tra Repubblica e Granducato, tanto che a lungo la sua torre campanaria fece parte del sistema di avvistamento sui confini lucchesi, è stata oggetto nel maggio-giugno 2007 di una serie di saggi diagnostici, voluti e finanziati dalla Parrocchia e mirati ad acquisire indicazioni sulle condizioni dell’edificio, in cui si stanno manifestando drammatici segni di cedimento strutturale; i saggi si sono dunque concentrati dapprima sulle strutture perimetrali meridionale e orientale, per poi proseguire all’interno, dove è stata messa in luce e scavata integralmente una sepoltura murata (fig. 1).
L’attuale situazione di fragilità strutturale ripete eventi già accaduti nella complessa storia dell’edificio, fondato nel secolo XI, trasmesso nel 1089 ai Benedettini di Polirone e infine, nel 1512, agli Agostiniani della Congregazione di San Salvatore.
Come attestano i documenti raccolti da Aldo Franceschini, che ne sta curando l’edizione (Franceschini c.d.s.), nel 1577 la Compagnia della Natività della Vergine Santissima, fondata dalla comunità di San Martino in Colle, ottenne di poter costruire un oratorio a ridosso della chiesa, che dovette essere dotato anche di camere sepolcrali, se almeno dal 1675 è ricordata come pratica corrente la deposizione dei defunti proprio in questo oratorio. Nel 1777, come suona un atto della Compagnia, «minacciando rovina le mura, il tetto, l’altare del sopradetto Oratorio» fu progettato un integrale lavoro di restauro, che finì tuttavia per sovrapporsi al rifacimento dell’intero edificio.
L’iscrizione collocata nell’esterno dell’abside, esibita da due putti, dichiara infatti che la chiesa fa ampliata nel 1801, e dunque anche il tessuto lapideo dell’abside, dall’aspetto squisitamente romanico, è ottocentesco, probabilmente frutto di un sistematico smontaggio e rimontaggio delle strutture medievali.
La storia della ‘sepoltura murata’ della Compagnia può oggi essere letta, oltre che nei documenti dell’archivio parrocchiale, anche nello scavo sistematico condotto nella scorsa primavera.
Il crollo parziale della volta in mattoni giaceva su un livello di terra mista a resti umani selezionati con un precisi criteri, e distinti in due settori da un sottile tramezzo in laterizi: sul lato occidentale, addossati in particolare alla parete, i crani (in alto); nel settore centrale della sepoltura ossa lunghe; nella cella minore, ricavata sul lato orientale, di nuovo, soprattutto crani (a sinistra). Naturalmente la selezione, per quanto evidente, non dovette essere rigorosa, e dunque nel terriccio in cui erano collocati i crani erano finiti anche altri resti ossei, oltre agli oggetti devozionali e a resti dell’abbigliamento (in particolare bottini in bronzo).
Allo stato attuale dell’indagine, si dovrebbe ipotizzare che la sistemazione dei resti umani emersa nello scavo fu disposta a seguito dei lavori di restauro che sono testimoniati dalle sequenze strutturali leggibili nelle pareti (fig. 2).
La parete occidentale e i tratti occidentali delle pareti meridionale e settentrionale sono costruiti in ciottoli e bozze di pietra legati da malta grigiastra, stesa fino a coprire i giunti, e quindi con una parziale intonacatura delle superfici (tecnica A); la pavimentazione sulla quale erano stati posti i resti umani, in mezzane, è collegata a questa fase edilizia.
Ben diversa è la tecnica del settore orientale della sepoltura murata: ciottoli e bozze di pietra, misti a qualche frammento laterizio, sono legati con scarsa malta, che lascia i giunti ben visibili (tecnica B); l’area collegata, chiusa anche dal tramezzo laterizio, è pavimentata da un semplice battuto su terra.
La comune adozione della cosiddetta ‘maniera moderna’ di costruire, fondata sull’impiego di materiale eterogeneo per natura e pezzatura, con la solidità della struttura affidata essenzialmente alla malta tenace e abbondante, e che anche a Lucca è di impiego pressoché generale almeno dal XVI secolo – anche per la grande disponibilità di materiale da demolizione reimpiegabile – si manifesta quindi in due versioni facilmente riconoscibili.
Una terza variante è applicata nel settore centrale del lato meridionale, dove un’esteso varco nel tessuto murario in tecnica A è sanato ricorrendo a filari di laterizi (di reimpiego) fra cui si intercala una specchiatura che adotta la tecnica B; alla base è ricavata nell’ordito dei laterizi un’apertura che immette in una canalizzazione non ancora esplorata. Un’identica apertura è costruita con spallette e copertura in laterizi allo spigolo nord-orientale della camera sepolcrale.
Lo stato dell’indagine di scavo, che è stato sospeso per procedere con priorità assoluta alle opere di consolidamento, dissuade dall’avanzare proposte risolutive sulla sequenza e la cronologia assoluta delle fasi evidenti nel tessuto murarie.
Come ipotesi di lavoro, tuttavia, da verificare proprio nel proseguimento dell’indagine, si potrebbe riferire la tecnica A alla costruzione della ‘sepoltura murata’, collegata all’erezione dell’oratorio o a un suo adattamento all’impiego sepolcrale per i membri della Compagnia della Natività, e quindi fra lo scorcio finale del Cinquecento e i primi del Seicento.
La tecnica B potrebbe invece essere attribuita ai restauri dello scorcio finale del Settecento, quando si provvide all’integrale rifacimento del tratto orientale dell’edificio, crollato o in stato di fatiscenza, che poté assumere anche la forma di un – sia pur modesto – ampliamento; in questa circostanza la camera sepolcrale potè essere dotata anche di ‘sfiatatoi’, che la mettevano in collegamento con l’esterno (sul lato meridionale) e con la seconda camera, da cui era distinta da un tramezzo. Anche la volta che copriva l’intera camera dovette essere ricostruita in questo momento, sostituendo la più antica, di cui rimane solo l’imposta sulla parete occidentale della camera. In questa volta doveva essere ricavata anche l’apertura che permetteva di scendere nella ‘sepoltura murata’ con i due scalini formati da blocchi di pietra aggettanti dalla parete.
Fu forse in questa circostanza che si provvide anche alla risistemazione dei resti umani già accolti dalla camera sepolcrale, selezionando, con un evidente carattere simbolico, teschi e ossa lunghe. La cronologia parrebbe coerente con il fatto che su questo piano non vennero collocate altre deposizioni: come attestano ancora una volta i documenti, a partire dal 1808 venne usata per le deposizioni l’area esterna alla chiesa.
Anche gli oggetti devozionali sembrano concordi nel riferire i resti umani della camera a deposizioni databili fra lo scorcio finale del XVII e il XVIII secolo.
Se lo splendido crocifisso, restaurato da Bettina Lucherini, originariamente applicato su una croce in legno, nel pathos del volto richiama stilemi tardobarocchi (fig. 3), la cinquantina di medaglie devozionali, in bronzo o in ottone, restituite dallo scavo potrà documentare – quando se ne sarà completato il restauro, appena avviato – soggetti, temi iconografici, cifre stilistiche che attivissime officine combinavano per rispondere alle esigenze dei membri della Compagnia della Natività di San Martino in Colle di veder rispecchiato nell’ultima dimora terrana il punto centrale della loro devozione.
Ovviamente prediletta è l’associazione fra il Cristo e la Madonna, che si manifesta tuttavia in forme articolate: il Figlio di Dio può essere il Volto Santo venerato nel San Martino di Lucca (fig. 4), abbinato ad una delle più amate fra le iconografie mariane del Seicento e del Settecento, la Madonna di Loreto; il tipo è attestato anche a Vaiano, e a Soiana, per rimanere nei contesti di scavo recente di questo territorio.
Forse è proprio il carattere squisitamente mariano della Compagna a esaltare la presenza dell’immagine di Loreto, associata al monogramma cristologico, e, spesso, ai santi oggetto di vasta devozione fra Sei- e Settecento: San Francesco e Sant’Antonio (San Francesco è reso con il tipo impiegato su una faccia di una serie di medaglie della Madonna di Guadalupe datate al 1682, a dimostrazione della facilità di combinazione di soggetti); Sant’Agostino (in basso a destra: si ricorderà la presenza degli Agostiniani in San Martino); San Pietro d’Alcantara, proclamato santo nel 1669; San Venanzio, particolarmente venerato dopo che fu gli fu dedicata una chiesa in Roma, ai piedi del Campidoglio, nel 1670, e invocato contro le cadute, dagli alberi o da cavallo; San Cristoforo. Come accade di frequente, le medaglie devozionali possono essere ricordo di pellegrinaggi: l’associazione fra San Pietro e la Porta Santa potrebbe appunto ricordare un pellegrinaggio giubilare a Roma, nel corso del Settecento.
Una splendida medaglia che associa la Sacra Famiglia alla famiglia di Maria (fig. 5) sembra la più adatta a rammentare il titolo dell’Oratorio, anche se la Sacra Famiglia è soggetto comune in questi contesti devozionali (si veda la Sacra Famiglia in basso, associata ad un’immagine di santo in preghiera in cui potrebbe essere riconosciuto San Carlo Borromeo).

GIULIO CIAMPOLTRINI, CONSUELO SPATARO

Riferimenti bibliografici

CIAMPOLTRINI G., MANFREDINI R. 2008, La chiesa di Santa Chiara a Castelfranco. I saggi 1991, in G. CIAMPOLTRINI, R. MANFREDINI (a cura di), Castelfranco di Sotto fra Cinquecento e Settecento. Un itinerario archeologico, Bientina, pp. 55-74.
FRANCESCHINI A. c.d.s., San Martino in Colle

martedì 10 novembre 2009

Nostalgie di primavere 'romane': Marziale a Massaciuccoli




Giulio Ciampoltrini

La villa: gli ‘ozi scomodi’ dei Venulei

Daphnonas, platanonas et aerios pityonas
Et non unius balnea solus habes,
Et tibi centenis stat porticus alta columnis,
Calcatusque tuo sub pede lucet onyx,
Pulvereumque fugax hippodromon ungula plaudit,
Et pereuntis aquae fluctus ubique sonat;
Atria longa patent. Sed nec cenantibus usquam
Nec somno locus est. Quam bene non habitas!

Un epigramma di Marziale (XII, 50) è la miglior guida ai resti della villa che si dispone sul fianco del terrazzo in cui sorge l’antica pieve di Massaciuccoli: «Possiedi boschi d’alloro, di platani, di pini, e bagni adeguati non certo ad una sola persona, e per te s’innalza un portico di cento colonne, e sotto i tuoi piedi splende l’alabastro, e l’unghia fuggitiva fa risuonare un polveroso ippodromo, e dovunque scroscia acqua corrente; si aprono atri immensi. Ma non c’è posto per mangiare o per dormire. Come vivi male!».
Se Antonio Minto, nell’ancor fondamentale edizione del monumento sottolineava «la mancanza di tracce sicure ed evidenti della villa stessa», interrogandosi sul ruolo del complesso, Marziale offre una risposta assai più vivace di quelle avanzata di recente rivalutando i dati degli scavi settecenteschi nell’area della pieve. Nella straordinaria tela – oggi al Museo Nazionale di Villa Guinigi in Lucca – in cui si vollero eternare, a grandezza naturale, gli oggetti ritrovati nel 1756 e lo scavo stesso, è possibile riconoscere i resti di ambienti riconducibili alle pratiche della villa quotidiana, nel contesto sontuoso oggi apprezzabile dalla qualità delle pavimentazioni in opus sectile e in mosaico; nelle dotazioni di terrecotte architettoniche; nell’apparato decorativo che comprendeva anche statue imperiali. La presenza di ambienti di servizio, qualificati dalle pavimentazioni in laterizio (opus spicatum) incontrate dal Settecento al Novecento, nei saggi condotti a varie riprese, sembra indicativa del carattere ‘funzionale’ dell’area.
La datazione di questo settore del complesso in un arco di tempo compreso fra gli ultimi di Augusto e quelli di Claudio (10-40/50 d.C.) apre anche una finestra sulla storia della villa di Massaciuccoli, scandita fin dalla fondazione in due corpi di fabbrica, distribuiti su due terrazze; l’inferiore, come indicano concordemente tecniche edilizie, tipologie architettoniche, le dotazioni, e – infine – i saggi eseguiti a più riprese, da ultimo nel 1991 – raggiunse l’aspetto attuale con l’impianto che in età tardoneroniana o flavia (60-90 d.C.) seppellì le strutture della prima fase, per subire in seguito gli adeguamenti leggibili soprattutto negli elevati.
È dunque negli anni di Marziale che, con una finissima tecnica del laterizio, memore delle esperienze maturate nei cantieri di Roma che in area regionale trovano stringenti analogie solo nelle terme pubbliche di Pisa, viene eretto il movimentato complesso della terrazza inferiore di Massaciuccoli, monumentale attestazione degli ‘ozi scomodi’ oggetto della garbata ironia di Marziale.
Oggi, forse, l’oliveto che abbraccia i ruderi può dare solo una pallida immagine dai boschi in cui si intrecciano allori, platani, pini, ma il settore termale della villa di Massaciuccoli risponde in pieno alle esigenze dell’anonimo destinatario dei versi di Marziale.
Il quadrante occidentale del complesso, infatti – in buona parte perduto – prevede, secondo il percorso ‘canonico’ delle terme, una latrina (ambiente Q), provvista di cloaca per lo smaltimento dei liquami, distinta da un corridoio (N) dall’ambiente R (riscaldato dal contiguo praefurnium, anche con la caldaia di cui furono riconosciute le tracce nei saggi 1991). Questo è il primo vano dell’area termale – fortemente lacunosa – la cui imponenza oggi si palesa soprattutto nella vasta sudatio Z: una vera e propria sauna, grazie al pavimento alloggiato su suspensurae formate da poderosi pilastrini, capace di diffondere senza perdite il calore prodotto dalla caldaia posta quasi al centro del vano. La lastra di piombo alloggiata nel pavimento, riconosciuta negli scavi del 1770, contribuiva ad innalzare la temperatura dell’ambiente e a favorire l’evaporazione dell’acqua gettata sul pavimento di marmo. L’ambiente è apparentabile al cosiddetto heliocaminus di Villa Adriana, in una seriazione tipologica che comprende anche il vano 1 delle terme della villa di Domiziano a Sabaudia, e la villa di Bocca di Magra.
Il portici e i colonnati, l’ippodromo, non sono attestati a Massaciuccoli. Delle pavimentazioni in opus sectile che dotavano gli ambienti di rappresentanza della villa – visti nel Settecento e in minimi avanzi ancora dal Minto – non restano ormai che le tracce nella base cementizia che accoglieva il ‘lucente onyx’, ma lo scrosciare della acque era elemento essenziale della vita nella villa, il cui ‘cuore’ – almeno nella fase della costruzione – è stato riconosciuto nel ‘triclinio-ninfeo’ formato dal vano absidato H (il triclinio) e dalla grande vasca I, in cui l’acqua scendeva a cascata dalle cisterne inglobate nella sostruzione del corpo superiore della villa: elemento fluttuante, scintillante, sonoro, del prospetto architettonico esaltato dalle nicchie e dalle sculture che queste incorniciavano, e dilatato da ambienti laterali (O, F), originariamente aperti.
Il ‘triclinio-ninfeo’ H-I, presto forse ridotto a un mero frigidarium del complesso termale, nell’impianto originale immette nel settore termale, a ovest, con il corridoio N e attraverso il vano X (forse ambiente conclusivo del circuito dei balneum); dà accesso ad un vano ‘riservato’ (Y), con movimentate pareti convesse, forse con un ruolo ‘stagionale’, grazie al riscaldamento assicurato dall’aderenza alla sudatio Z.
Infine, a est si apre in una serie di ambienti di non facile definizione (A, B), probabilmente con il ruolo di ‘accoglienza’ e di rappresentanza cui erano consone anche le (perdute) pavimentazioni marmoree e musive. Sono forse questi l’equivalente degli atria longa di Marziale, aperti dapprima all’esterno, sul lato orientale del complesso, divenuti poi anche punto d’arrivo della scalinata monumentale (D) costruita per il collegamento con la terrazza superiore.
I due nuclei del complesso (le terme, non unius balnea; il ‘triclinio-ninfeo’ con i relativi annessi, che dilatano a tutto l’edificio la scenografia e il suono delle acque: Et pereuntis aquae fluctus ubique sonat) sono assistiti da strutture di servizio, indispensabili per assicurare l’alimentazione del riscaldamento, o l’andirivieni dei servi (U, V, G ?).
Il locus ... cenantibus o somno, come si è detto, dovrà essere cercato nella terrazza superiore: la scalinata P, che consentiva un accesso autonomo alla latrina Q e alle terme, e la poderosa sostruzione a pianta ellittica che tuttora forma il lato occidentale della terrazza superiore, sono un eloquente indice, assieme ai dati dello scavo 1756, del tono che anche questo settore della villa doveva avere.
È evidente tuttavia che non è quello residenziale il vero scopo della villa di Massaciuccoli, come non lo era per l’interlocutore di Marziale. La ‘rappresentanza’ è la vera destinazione dell’edificio, l’accoglienza dei pari grado del proprietario, in una cornice monumentale che esalti la vita di relazione – tanto con le terme che con il ‘triclinio-ninfeo’ – in un contesto in cui il soggiorno può anche essere breve.
L’identikit dei proprietari di Massaciuccoli si arricchisce di particolari: una grande famiglia, che fra gli ultimi anni di Nerone e quelli flavi trasferisce nell’ager Pisanus tecniche (il laterizio) e tipi architettonici (lo pseudo-heliocaminus, il ‘triclio-ninfeo’) dell’Urbe, in una sontuosità di realizzazione esaltata dalle dotazioni di marmi per pavimenti e rivestimenti, e dagli arredi scultorei. Il frammento – oggi al Museo Archeologico Nazionale di Firenze – della fistula in piombo ritrovata nel 1770, con la siglato L∙L∙VENULEIOR∙/ MONT∙ET∙APRON∙ potrebbe dunque non darci solo il nome dei proprietari dell’officina in cui furono fuse e preparate le condutture per l’apparato idrico della villa, ma anche il nome dei proprietari.
L. Venuleius Montanus e L. Venuleius Apronianus – rispettivamente padre e figlio – sono noti anche da una dedica alla Dea Bona dal territorio di San Miniato, oltre che da un sottile, ma solido corpus di documenti epigrafici: il primo è proconsole di Ponto e Bitinia sotto Nerone, il secondo consacra l’ascesa sociale della famiglia, ottenendo il consolato nel 92; suo figlio (naturale o adottivo) è L. Venuleius Apronianus Octavius Priscus, console ordinario nel 123, suo nipote – verosimilmente – l’omonimo console nel 168, con cui la famiglia si estingue, o, comunque, scompare.
La storia della villa di Massaciuccoli potrebbe dunque essere letta sullo sfondo dell’ascesa della famiglia, dalla natia Pisa ai fastigi della grande aristocrazia senatoria: la fondazione con il Montanus, all’inizio della carriera senatoria, nell’età claudia; l’esaltazione del ruolo della famiglia, in un sito forse appartato, ma contiguo ai crocevia stradali e marittimi del Tirreno settentrionale, con la costruzione del complesso monumentale negli anni in cui Montanus seguiva i primi passi della carriera del figlio, presentandolo a Massaciuccoli, come probabilmente a Pisa con la costruzione delle terme pubbliche, o nel territorio con una dedica ad una divinità importante nella vita agricola: sono gli anni fra il 70 e l’80 in cui dovrebbe ricadere agevolmente la fondazione di un monumento che esprime, come tradisce l’epigramma di Marziale, la ricerca di edifici immersi nel verde, in spazi dilatati, ideali come sfondo architettonico della celebrazione di una famiglia in piena ascesa: gli ozi di Massaciuccoli.

Bibliografia
A. Minto, Le terme romane di Massaciuccoli, Monumenti Antichi dell’Accademia dei Lincei, 37, 1922, colonne 405 ss.
G. Ciampoltrini, Gli ozi dei Venulei. Considerazioni sulle ‘Terme’ di Massaciuccoli, Prospettiva, 73-74, 1994, pp. 119 ss.

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