La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

martedì 20 dicembre 2016

Luci di primavera in giorni d'inverno. Fosso Gobbo ottobre 1981




Luci di primavera, seppur fosse autunno, giorni d'ottobre 1981; ma primavera di passione ed entusiasmo, nel cuore della Bonifica, il Fosso Gobbo di Capannori e dei Porcaresi. Con due amici, giovani anch'essi, a camminare su prati intrisi dell'acqua dell'Auser, fino al sottile e dominante colmo, fra umide depressioni; e trovare le memorie dei Romani di Lucca, scritte dai colori degli strati e dalle pietre dei muri. Per loro memoria, segni di giovanile diligenza, che infine non si appalesa inutile.
Remote in questi tempi, inimmaginabili, luci quasi di sogno per due diapositive volate per anni trentacinque e mesi due. Forse anni-luce.

lunedì 21 novembre 2016

Il mare di Fonteblanda (sogni etruschi, tanti anni dopo)





Il mare di Fonteblanda veste i colori forse più belli nell’ora del tramonto, con il sole che sulla spiaggia della Puntata dipinge il profilo dell’Argentario, dell’Isola del Giglio, del castello che vigila sul porto che fu degli Aldobrandeschi, dei Senesi, infine dei Reali Presidi di Spagna e di Napoli (fig. 1). Ma per immaginare il porto degli Etruschi occorre ascendere sulla Pietra Vergine, nelle luci del pieno giorno, e seguire l’orizzonte del mare verso l’Uccellina, gli spazi della Bonifica, dove fu la laguna (fig. 2), infine volgere lo sguardo verso oriente, alla Piana di Fonteblanda – come la chiamavano nell’Ottocento – quando l’aratura ne esalta i rossi colori (fig. 3).
Fu questo il paesaggio che si presentò a chi scrive il 1° ottobre 1987, alla fine di una giornata di emozioni continue, nella storia rivelata dall’aratro che ricuciva nei frammenti di ceramiche e di tegole sparsi dalla ferrovia alla vetta della Pietra Vergine le storie raccontate dal Pasqui e le terrecotte architettoniche emerse nei lavori della Bonifica. Telamon sembrava aver ritrovato il suo porto e il mitico viaggio degli Argonauti, qui di sosta dopo l’Elba.
Soprattutto l’eco delle ricerche sul Commercio etrusco arcaico, presentate qualche anno prima ad un memorabile convegno romano, e allora fresche o quasi di stampa, si rifletteva nella distesa di anfore etrusche concentrare sulla Piana; quasi solo Py 3, il simbolo più vivido dei traffici tirrenici che Michel Gras aveva da poco ricostruito in un’opera non meno epocale di quella del convegno romano. Non meno risolutive erano state le indagini che Mensun Bound aveva da poco completato sul relitto del Campese all’Isola del Giglio.
Le tessere del mosaico salvate da remoti ritrovamenti ottocenteschi, dalle strutture e dai materiali portati in luce, direttamente o indirettamente, dalle opere di bonifica nel primo trentennio del secolo, si ricomponevano in un disegno coerente, che vedeva l’area occupata a più riprese, dal Bronzo Finale all’età romana; ma come si segnalava nella relazione del sopralluogo, era proprio l’area dell’insediamento arcaico a sollecitare l’attenzione più acuta, sia per il verosimile stato di conservazione e le correlate esigenze di tutela, sia per le prospettive di conoscenza – scopo allora certo non secondario dell’opera di una Soprintendenza Archeologica. Con uno schizzo topografico, il giorno 7, si concludeva questa prima fase delle ricognizioni.
Un’altra, assai più complessa, prendeva avvio.
Proprio per la molteplicità degli scopi istituzionali, la Soprintendenza aveva allora anche le dotazioni finanziarie essenziali alle ‘opere di conoscenza’ indispensabili alla formulazione di un motivato atto di tutela. Anni che allora sembravano lunghissimi, e oggi sono tempo inauditamente breve, per poter procedere ai primi saggi, in un piovoso autunno del 1990, presto sospesi e infine riavviati nell’autunno dell’anno successivo (figg. 3-4), con l’esperienza delle maestranze della ditta Fratelli Fedi di Murci – da tempo formati sugli scavi e nei cantieri di restauro del Grossetano – e la collaborazione dell’assistente Giuseppe Barsicci.
Un mese di scavi per confermare che sotto un velo di terreno agricolo le strutture d’età arcaica e le stratificazioni che ne scandivano la storia erano eccellentemente conservate; su questa base era possibile promuovere un inoppugnabile atto di tutela, con il decreto ministeriale del 25 giugno 1992, emanato proprio nel momento culminate di una campagna giudiziario-mediatica sui beni archeologici della provincia di Grosseto, oggi dimenticata se non da chi la visse. Fu in questo contesto, interminabile, che si poté riprendere lo scavo, ancora d’autunno, nel 1993: la tutela si faceva conoscenza, proprio mentre venivano elaborati in comunicazioni i primi dati di Fonteblanda, in particolare sull’insediamento del Bronzo Finale e su quello d’età ellenistica. Pier Giovanni Romano, restauratore nell’Ufficio Distaccato di Grosseto della Soprintendenza, ebbe il merito di assicurare la continua, fisica presenza della Soprintendenza in momenti fatti di continui ‘accertamenti’, mentre ancora le maestranze di Murci ampliavano il saggio, disegnando planimetrie che invitavano ad interpretazioni ‘palaziali’ della struttura, forse anche per la suggestione del ritrovamento di terrecotte architettoniche.
Solo nel 1997, con un corposo finanziamento, ed uno scavo protrattosi per tutto il mese di ottobre, era possibile dare una risposta convincente ad almeno alcuni degli enigmi di Fonteblanda. Con Marco Firmati, sperimentato archeologo libero professionista, si congiungevano e ampliavano i saggi del ’91 e del ’93, sino a far risaltare dalle strutture un organico quadrettato: urbanistica ‘ippodamea’, per plateiai e stenopoi, con lotti omogenei (oikopeda).
Mentre a Orbetello Giuseppe Chegia, nella sede operativa di Porta Nuova, provvedeva a completare le attività preliminari al restauro, e nel Centro di Restauro della Soprintendenza, a Firenze, si interveniva per preparare all’esposizione una scelta di materiali, la riflessione scientifica sui dati raccolti poteva essere presentata a Orvieto, grazie all’invito di Giuseppe Maria Della Fina, nel convegno del 2002, e a Londra, nello stesso anno. Nella prima sede venivano sintetizzate le informazioni sull’assetto urbanistico – anche per l’inevitabile confronto con l’organizzazione spaziale del sepolcreto orvietano di Crocifisso del Tufo – mentre a Londra si illustrava il contributo di Fonteblanda alla rete mercantile tirrenica del ferro, grazie alla ‘bottega di fabbro’ individuata nei saggi del 1997. Le indagini a Rondelli di Follonica, condotte nello stesso volgere di tempo e corroborate da risolutive ricerche archeometallurgiche, contribuivano ad avvalorare l’ipotesi che la ‘filiera’ del ferro elbano descritta da Diodoro fosse già attiva nel corso del VI secolo a.C.
Il mare di Fonteblanda continuava, tuttavia, a lasciare senza risposta risolutiva la domanda cruciale che l’archeologo si era posto sin dal momento in cui aveva camminato sulle zolle affollate di frammenti di anfore etrusche: Fonteblanda era un ‘porto di scambio’ in cui vino etrusco di varia provenienza – come del resto indiziavano le diverse tipologie anforiche – veniva smistato, assieme a quello ‘egeo’ e di Sardegna attestato dalle anfore, e al ferro, acquisito come semilavorato e trasformato in manufatti; oppure era, in primo luogo, il ‘porto del vino’ dell’entroterra, della Valle dell’Albegna?
Per la fase della fine del VI e dei primi del V secolo a.C. la risposta era già disponibile, grazie alle ricognizioni di Philip Perkins e Lucy Walker a Doganella: la ‘città di fondazione’ della Bassa Valle dell’Albegna era anche centro manifatturiero delle anfore etrusche Py 4 presenti in massa nell’area dell’insediamento tardoarcaico, esaltato anche dalla struttura templare i cui rivestimenti architettonici erano stati restituiti a più riprese, assai frammentati, sin dagli anni Venti. I dati che i ritrovamenti degli anni Ottanta proponevano per la fascia litoranea del territorio orbetellano ne facevano emergere con grande rilievo la vivacità, che non poco doveva alla viticoltura.
Occorreva attendere il nuovo millennio e l’impegno di Andrea Zifferero e del gruppo di lavoro da lui coordinato nel territorio di Marsiliana d’Albegna per avere una risposta a questa, estrema domanda. Mentre l’imponente attività condotta intorno al Museo Archeologico della Vite e del Vino di Scansano, culminata nel convegno del 2005, faceva risaltare le dimensioni della viticoltura etrusca nella Valle dell’Albegna, sino alla proposta di riconoscere nelle ‘lambruscaie’ del territorio l’esito dei vitigni d’età etrusca, a Marsiliana la fase d’età arcaica usciva dal cono d’ombra cui a lungo era stata circoscritta dal fulgore delle tombe orientalizzanti. I ritrovamenti di scarti di cottura di anfore etrusche, seppur forse in giacitura secondaria, attestavano infine che già dal VI secolo era stata avviata una produzione di anfore. Nel 2011 il Museo di Scansano ospitava una mostra che faceva il punto su un decennio di ricerche, con il titolo La Valle del Vino etrusco: dal distretto vinicolo della Media Valle, con Magliano e Scansano, alle vie del mare, verso la Gallia, si disegnava una ‘filiera del vino’ che trovava nelle manifatture di anfore di Marsiliana lo snodo al quale subito seguiva il porto di Fonteblanda.
Sarebbe stato tempo, dunque, di presentare con più spazio le fatiche degli anni Novanta, ora che il ruolo ‘emporico’ dell’insediamento arcaico di Fonteblanda poteva essere messo a fuoco in non pochi dei suoi aspetti: centro d’imbarco del vino della Valle dell’Albegna per la Gallia, in un circuito di scambi che vede aggiungersi alla produzione ‘locale’ quella giunta per le vie del mare, con carichi che vengono ‘spezzati’ e rivolti in parte al consumo locale o nell’entroterra, in parte reimmessi nei circuiti marittimi, offrendo un’alternativa al prodotto ‘dominante’; centro di trasformazione del ferro elbano, ancora per le comunità locali o per il commercio tirrenico, secondo il modello diodoreo. Altre merci sono solo da immaginare, nell’asciutto linguaggio dei contesti archeologici, come forse il bronzo o il pesce.
Al cuore, un luogo – verrebbe da immaginare – reso attraente a gente di varia provenienza ed estrazione (come è proprio delle città ‘coloniali’) dalla disponibilità di lotti edificabili assicurata da un impianto urbanistico solido e duttile al contempo, facilmente dilatabile.
Come nelle coeve colonie greche di Sicilia in cui è applicato lo stesso schema, era questo l’humus più idoneo alla genesi e alla maturazione di una comunità di artigiani e mercanti, capace di cogliere e moltiplicare le occasioni di un ‘luogo di incontro’. Il dato archeologico è elusivo per la comunità di Fonteblanda, se non per i suoi consumi alimentari e ceramici – che tuttavia ne attestano il ‘tono’ – ma dichiara che questa era tramite fra le navi etrusche che salpavano per la Gallia – come quella naufragata nei pressi di Antibes, alla Love, che tutto farebbe credere partita da Fonteblanda – e quelle focesi che intorno al 570 navigavano nel Tirreno settentrionale ripetendo e dilatando le esperienze dei naukleroi greco-orientali testimoniate nel decennio precedente dal relitto del Campese all’Isola del Giglio, e dall’altra le aristocrazie locali che lasciano il loro segno nell’immediato entroterra con i grandi tumuli affollati di sculture zoomorfe. Per un cinquantennio, un felice equilibrio con la contigua laguna concesse di fiorire agli Etruschi di Fonteblanda, prima che dovessero spostare la sede dell’insediamento poco più a monte, alla pendici della Pietra Vergine.
Storie raccontate da muri, da strati, da ceramiche, come sono quelle dell’archeologo, che richiederebbero minuzie di numeri e severità di descrizioni per le esigenze dell’accademia. L’archeologo un po’ stanco, sa che il mondo che lo circonda è assai diverso da quello degli anni Ottanta, e molti sono i motivi per cui non può andare oltre un rapido racconto; solo spera che almeno un po’ vi si risenta il rumore dell’acqua sulla spiaggia della Puntata, nelle luci del tramonto dei giorni in cui dallo scavo sembravano che le penteconteri greche fossero appena arrivate, ed Elena si preparasse all'avventura d'oltremare (fig. 5).


sabato 5 novembre 2016

Un filo per Teseo, nel labirinto fatato di Villa Guinigi

Giacché con Arianna si è concluso che un filo è necessario, benché il Minotauro sia ormai in pensione, l'archeologo scava nel disco rigido, ritrova il filo, e senza figure (perché non si sa mai ...) lo dedica agli avventurosi esploratori delle storie sepolte di Lucca & Dintorni.

Museo Nazionale di Villa Guinigi, l'archeologia in pillole (anche soporifere...), scusandosi per urei e protomi. Ma quando ci vuole, ci vuole ...


Sala 1

Vetrina 1 - Gli abitati lungo l’Auser (VIII-VII secolo a.C.)

Dopo un silenzio durato quasi tre secoli, con l’esaurimento dell’abitato fiorito intorno al 1000 a.C. (Bronzo Finale 3) su un ramo sepolto dell’Auser/Serchio nell’area di Fossa Cinque della Bonifica di Bientina, nel Villanoviano II (verso il 750 a.C.) le sponde del fiume tornano ad essere punteggiate di insediamenti, oggi riconosciuti fino all’altezza di Lucca-Arancio (scavi 2011 dell’area del Nuovo Ospedale). Grazie all’intreccio fra ricerca archeologica e indagine aerofotografica è possibile ricostruire questi paesaggi, profondamente mutati rispetto a quello dello scorcio finale del II millennio a.C.
Lo scavo del Chiarone di Capannori e i ritrovamenti casuali degli anni Ottanta del secolo scorso illustrano questa fase culturale, con ceramiche che presentano i motivi geometrici ‘villanoviani’ incisi a pettine, e con un raro esemplare con decorazione dipinta; gli stretti confronti con ceramiche di Volterra indicano in questa città – probabilmente assieme a Pisa – uno dei centri urbani che promossero la rioccupazione del territorio. Ancora nel VII secolo a.C., quando anche in questo territorio appaiono ceramiche fini in bucchero nero, la tradizione villanoviana è mantenuta nelle produzioni di ceramica da mensa e da fuoco d’impasto modellato a mano.

Riferimenti bibliografici: Ciampoltrini 2007, pp. 19-32.

Vetrina 2 - Necropoli etrusche lungo l’Auser/Serchio e la costa della Versilia

Verso il 600 a.C. gli abitati si moltiplicano, lungo le direttrici formate dal Serchio – con la sua complessa rete di bracci  che percorrono la Piana di Lucca – e dalla linea di costa.
Nell’area di San Concordio di Lucca, in Via Squaglia, nel 1982 fu esplorata una necropoli datata fra 600 e 550 a.C. Sono conservati i rituali funerari villanoviani: il defunto viene arso sul rogo, i suoi resti sono affidati ad un contenitore protetto da un vaso di copertura e deposto nella terra entro un dolio; il cinerario è di norma una forma d’impasto, in un caso un’olla di bucchero. La suppellettile accessoria è pressoché assente.
Lungo la costa, la tomba di Pozzi di Querceta, negli stessi anni, rivela invece la diffusione degli ideali culturali maturati nell’Etruria centro-meridionale durante il VII secolo a.C. I resti incinerati del defunto vengono sepolti con le armi che ne attestano lo status sociale (di ‘guerriero’) e la suppellettile ceramica (in particolare il kantharos di bucchero) che dichiara la diffusione dell’ideologia del banchetto, come momento essenziale della vita di relazione.
Le tombe erano completate da segnacoli funerari configurati ‘a clava’, spesso modellati nel marmo delle Apuane.

Riferimenti bibliografici: per San Concordio-Via Squaglia: Ciampoltrini 2007, pp. 34-41; per Pozzi: Monaco 1968, p. 42, A.33; Paribeni 2004; per i segnacoli funerari: Monaco 1968, pp. 43-44, nn. 175; 406; A.30 e A.32; 453.

Vetrina 3 - L’abitato di San Rocchino di Massarosa: la fase arcaica (VII-VI secolo a.C.)

La partecipazione ai traffici marittimi caratterizza in maniera specifica gli abitati disposti sul mare, lungo le dune costiere e sulle sponde delle lagune interne. A San Rocchino di Massarosa, negli anni Settanta del secolo scorso, Mauro Cristofani – un maestro della moderna etruscologia – scavò un abitato, individuato e sondato dal volontariato locale, che è ancora fondamentale per conoscere la vita quotidiana e i commerci di un insediamento costiero della Toscana settentrionale fra il VII e il V secolo a.C., fiorito sulle rotte che dall’Etruria settentrionale portano alla Gallia meridionale e ai centri portuali liguri, fra i quali spicca quello conosciuto dalla necropoli di Chiavari.
Le ceramiche d’importazione, con decorazione di tipo ‘etrusco-corinzio’ o semplicemente geometrica, che compaiono accanto alle produzioni di ceramica da mensa in bucchero e di olle da fuoco prodotte nell’impasto caratteristico del territorio di Pisa, sono un eloquente testimone di questa rete di rapporti.

Riferimenti bibliografici: Maggiani 1990.

Sala 2

Vetrina 1 - L’abitato di San Rocchino di Massarosa: l’età classica (fine VI-V secolo a.C.)

A San Rocchino, in una progressiva ristrutturazione dell’abitato – ampiamente costruito con materiale ligneo perfettamente conservato al momento dello scavo – la vita prosegue ancora per gran parte del V secolo a.C., per rallentare nel corso del secolo successivo, fino all’effimera rioccupazione degli anni intorno al 300-250 a.C.
La rilevante presenza di ceramiche attiche (largamente restaurate per assicurarne la leggibilità) e di anfore vinarie importate dall’Etruria o dal mondo greco continua a certificare la vivacità dell’area costiera a nord di Pisa. Le ceramiche da mensa di produzione locale, per contro, offrono la più coerente restituzione dei tipi in uso nel territorio che trova il centro urbano di riferimento in Pisa.

Riferimenti bibliografici: Maggiani 1990.

Vetrina 2 - La tomba del Rio Ralletta di Capannori (Lucca)

Nella Valle del Serchio l’insediamento d’età arcaica si evolve intorno al 500 a.C., in una dinamica che la ricerca archeologica consente di riconoscere fin nei particolari: insediamenti protetti, su alture, si aggiungono agli abitati lungo il fiume, che ha ora un importante ruolo di via di collegamento fra l’Etruria nord-occidentale, con Pisa e Volterra, e l’Etruria Padana (in particolare dei territori delle province di Modena e Reggio).
La tomba del Rio Ralletta di Capannori, che nel 1892 fece conoscere per la prima volta gli Etruschi della Valle del Serchio, dimostra la partecipazione di queste comunità ai commerci, con la completa serie di oreficerie – prodotte nell’Etruria meridionale, forse a Vulci – che formavano la dote dell’incinerata i cui resti vennero sepolti entro un cratere attico a figure rosse. La cifra stilistica della figurazione (Teseo che uccide il Minotauro) lo ha fatto attribuire al Pittore del Porco, attivo ad Atene intorno al 470 a.C. Questa data è coerente con i tipi delle oreficerie.

Riferimenti bibliografici: Monaco 1968, pp. 45-46, 78; Ciampoltrini 2007, pp. 72-75.

Vetrina 3 - Insediamenti d’altura e sull’Auser tra VI e V secolo a.C.

Gli scavi degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso hanno offerto preziose informazioni sulla struttura degli insediamenti; le ricerche più recenti le hanno sostanzialmente confermate, arricchendo di dettagli i paesaggi in cui, fino agli anni intorno al 450 a.C., prosperò un vero e proprio ‘sistema’, messo in crisi probabilmente da circostanze ambientali avverse nella seconda metà del V secolo a.C.
Le testimonianze degli abitati d’altura della Valle del Serchio (Montecatino e Romito di Pozzuolo) si aggiungono a quelle degli insediamenti di pianura – come quello fondato a Tempagnano, oggi alla periferia di Lucca – per far rivivere la quotidianità di villaggi o capanne isolate in cui l’agricoltura veniva integrata dai traffici, testimoniati nell’evidenza archeologica dalla ceramica attica o da un contenitore di unguenti preziosi, come l’anforetta in pasta vitrea.

Riferimenti bibliografici: Ciampoltrini 2007, pp. 70-97.

Vetrina 4 - Culti e luoghi sacri della Valle del Serchio nel V secolo a.C.

La rete di abitati è completata da necropoli (non in mostra), che ancora intorno al 500-450 a.C. conservano le tradizioni villanoviane, mantenendo – come dimostrano i ritrovamenti del territorio di Bientina, esposti nel locale Museo della Storia del Territorio – i riti documentati dal sepolcreto di Via Squaglia, e dai luoghi di culto.
Questi sono attestati da bronzetti, che raffigurano – in versione naturalistica, come nel caso di Palaiola di Capannori, o stilizzata – l’offerente. Il culto poteva avvenire entro l’abitato, come parrebbe attestare il ritrovamento del Chiarone di Capannori, o in veri e propri ‘luoghi sacri’.
Certamente il più spettacolare fra questi era l’antro detto ‘di Castelvenere’, o Cascaltendine, nella Media Valle del Serchio, al confine tra i territori di Fabbriche di Vallico e di Gallicano, che ha restituito a più riprese decine di bronzetti schematici di offerente, caratterizzati sessualmente.
La frequentazione culturale dell’antro – proseguita per tutta l’Antichità, fino al VI secolo d.C. – è quasi certamente legata alle acque che vi sgorgano. I bronzetti appartengono ad un tipo diffuso nel territorio di Pisa (Melorie di Ponsacco), nella Piana dell’Auser/Serchio (Ponte Gini di Orentano), e oltre l’Appennino in Emilia, a Campo Servirola di San Polo d’Enza (Reggio Emilia), e sono il più spettacolare ‘tracciante’ delle vie transappenniniche del VI e V secolo a.C.

Riferimenti bibliografici: in generale Ciampoltrini 2007, pp. 95-97; per Ponte a Moriano, Monaco 1968, p. 43, n. 406; per Castelvenere Ciampoltrini, Notini 2008.

Sala 3

Vetrina 1-2 - Insediamenti etruschi del III secolo a.C.: Romito di Pozzuolo

Fra il 330 e il 300 a.C., per impulso di Pisa, dopo un secolo oscuro, la Valle del Serchio torna a popolarsi di insediamenti che controllano, in particolare dalle alture, i crocevia della rete itineraria tracciata dall’Auser verso l’Appennino e la Pianura Padana.
Romito di Pozzuolo – una modesta altura che vigila su un ramo dell’Auser, oggi ripetuto dall’Ozzeri, a sud-ovest di Lucca – è il meglio conosciuto di questi. Le ceramiche di produzione romana e laziale a vernice nera con stampigliatura, dipinte e i frammenti di anfore vinarie etrusche pongono intorno al 280-270 a.C. l’apogeo di questo abitato, il cui ruolo commerciale trova uno straordinario testimone nel gruzzolo di monete d’argento coniate in una zecca dell’Etruria nord-occidentale, probabilmente a Pisa.
L’ippocampo tra delfini che connota le monete con segno di valore 10 e il cigno che compare sulle frazioni (forse del valore di ‘semisse’, la metà dell’unità-base, ‘asse’) sono infatti simboli monetari prediletti da città con forte vocazione marittima, quale era appunto Pisa ai primi del III secolo a.C., stando al geografo greco Strabone.

Riferimenti bibliografici: Ciampoltrini 2005, pp. 19-21.

Vetrina 3-4 - Ponte a Moriano (Lucca): la tomba di un percna (prima metà del III secolo a.C.)

L’abitato scavato a Ponte Gini di Orentano (Castelfranco di Sotto, Pisa) negli anni Ottanta del Novecento, presentato nel Museo di Orentano (Castelfranco di Sotto, Pisa) rimane il più importante testimone degli abitati etruschi lungo l’Auser, tra il 330 e il 220 a.C. circa.
Le necropoli che dovevano essere collegate agli insediamenti sul fiume sono invece conosciute, in particolare, grazie ad un ritrovamento casuale avvenuto all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso a Ponte a Moriano (Lucca).
Le ceramiche a vernice nera di produzione etrusco-settentrionale (in particolare le coppe) o laziale (il piatto da pesce, caratterizzato dalla concavità centrale, verosimilmente funzionale ada accogliere la salsa del condimento), assieme agli oggetti in bronzo, sono graffite in tre casi con il nome del proprietario, l’etrusco percna, vissuto intorno al 250 a.C.

Riferimenti bibliografici: Ciampoltrini 2005, p. 19.

Vetrina 5 - I Liguri Apuani: materiali da tombe di Val di Vaiana di Barga (fine III-inizi del II secolo a.C.)

La via proposta dal fiume, documentata fino all’altezza di Ponte a Moriano da abitati e necropoli etrusche, conduce nel corso del III secolo a.C. ai territori che, a partire dagli anni intorno al 300 a.C., sono occupati dai Liguri Apuani, probabilmente giunti nella Valle del Serchio e sulle Apuane (che da loro hanno tratto modernamente nome) seguendo itinerari d’altura che partivano dall’Appennino ligure-emiliano.
Le ricerche condotte sugli insediamenti di Monte Pisone di San Romano di Garfagnana e di Colle delle Carbonaie di Castiglione di Garfagnana, fra 1982 e 1984, hanno permesso di apprezzare il sistema di insediamenti ligure-apuano, ma fino al recentissimo (2008) scavo di un monumento funerario con una tomba femminile alla Murata di Vagli di Sopra (Vagli di Sotto), i corredi tombali ospitati a Lucca erano la più significativa testimonianza dei riti funerari di questo popolo. Rispettando le tradizioni della Prima Età del Ferro si pratica l’incinerazione e i resti delle ossa combuste vengono accuratamente raccolti in un cinerario ceramico, affidato – con la protezione di una ciotola o coppa di copertura – ad una tomba formata da lastre di pietra. Sono le ‘tombe a cassetta’, il segno più vistoso ed immediato della cultura apuana delle valli appenniniche che vanno dalla Lunigiana al bacino del Serchio, per raggiungere la Montagna Pistoiese.
Il cinerario è accompagnato da vasi per bere (per la birra nei casi più antichi, per la birra e per il vino nel corso del III secolo a.C.) e dagli oggetti personali del defunto: le armi per gli uomini, connotati come guerrieri, gli oggetti di ornamento personale (collane, cinture impreziosite da borchie in bronzo, braccialetti) per le donne. Capi di abbigliamento come le fibule – prodotte secondo un modello peculiare di questo popolo (la ‘fibula apuana’) – sono comuni alle tombe maschili e a quelle femminili.
I materiali da complessi almeno in parte recuperati da Gugliemo Lera a Val di Vaiana di Barga, nel 1962, illustrano alcuni di questi aspetti.

Riferimenti bibliografici: sui Liguri Apuani, in generale Ciampoltrini 2005; per Val di Vaiana Monaco 1968, p. 43, A.35-37; Ciampoltrini, Notini 2011, pp. 52-53.

Vetrine 6 e 11 - Le tombe liguri-apuane di Tereglio di Coreglia (inizi del II secolo a.C.) e di Filicaia di Camporgiano (inizi del III secolo a.C.). Ricostruzioni di tombe a cassetta della Valle del Serchio e della Versilia

Il complesso di Filicaia di Camporgiano è una coerente testimonianza della suppellettile che qualifica le tombe femminili, con le tipologie correnti nel momento di formazione della cultura ligure-apuana della Valle del Serchio, intorno al 280 a.C.
Il complesso di Margeglio di Tereglio (Coreglia Antelminelli), frutto di uno dei ritrovamenti che, grazie all’impegno di Luigi Pfanner, arricchirono le collezioni lucchesi negli anni Cinquanta del secolo scorso, è invece formato da due deposizioni, come dimostra la presenza di due cinerari. Una delle due era certamente maschile, come assicurano le armi (spada, punta di lancia, punta di giavellotto). La coppa a vernice nera la fa collocare nei primi decenni del II secolo a.C.
La ricostruzione delle cassette di lastre litiche recuperate soprattutto da Pfanner è completata – con scopo meramente documentario – con i materiali della tomba di Vado di Camaiore, il cui corredo è esposto nella vetrina 11.

Riferimenti bibliografici: Monaco 1968, pp. 41-42, A.25-31; Ciampoltrini, Notini 2011, pp. 51-66.

Vetrina 7 - Ponte a Moriano (Lucca): materiali da tombe, ritrovamento 1891

I materiali ritrovati a Ponte a Moriano nel 1891 nei lavori ferroviari e recuperati grazie all’impegno di Salvatore Bongi – benemerito anche dell’archeologia lucchese – sono l’estrema testimonianza di un sepolcreto che, a più riprese, fu in uso dallo scorcio finale del IV fino almeno alla metà del II secolo a.C. È probabile che la fase più antica della necropoli debba essere riferita ad un abitato etrusco coevo a quello testimoniato dal ritrovamento degli anni Settanta, mentre la fase più tarda potrebbe essere collegata ad una comunità ligure-apuana trasferita, come quelle di Marlia, nella piana di Lucca.

Riferimenti bibliografici: Ciampoltrini 2005, pp. 48-50; Monaco 1968, p. 43, 406 (prima del recupero dei dati di provenienza).

Vetrine 8-9-10 - La necropoli di Marlia di Capannori (decenni centrali del II secolo a.C.)

Questo momento storico trova infatti la migliore documentazione archeologica nel piccolo sepolcreto scavato nel 1969 al Ponticello di Marlia (Capannori), con quattro tombe di incinerati, i cui ossuari erano affidati alla terra entro anfore vinarie tagliate a metà circa del corpo.
Il rito funerario è quello ligure-apuano, con la sostituzione della teca di lastre litiche con l’anfora. Si potrebbe attribuire questa variante alla mancata disponibilità di materiale lapideo adeguato, ma non è da escludere che l’anfora possa tradire l’adesione della comunità ai culti dionisiaci, legati al consumo del vino, particolarmente diffusi proprio in quegli anni, tanto da imporre l’intervento delle autorità centrali romane per reprimerne gli aspetti estremi – sintomo anche di disagio sociale – con il Senatusconsultum de Bacchanalibus del 186 a.C.
La pertinenza del sepolcreto ad una comunità ligure-apuana è certificata dalla suppellettile delle tombe, con il bicchiere destinato al consumo della birra, modellato nella ceramica d’impasto locale o a vernice nera, e la coppa per il vino; infine, dai capi di abbigliamento e di ornamento che caratterizzano le tombe femminili: braccialetti, cinture con borchie in bronzo e relativo gancio di chiusura, anelli. Le ceramiche a vernice nera, le anfore vinarie (greco-italiche o rodie di imitazione) e la tipologia delle fibule ‘apuane’ concordano nel fissare nei decenni intorno al 150 a.C. il periodo d’uso del sepolcreto del Ponticello.
Con un’ipotesi assai convincente si potrebbe attribuire la necropoli ad una di quelle comunità liguri che, dopo la sconfitta nella guerra con Roma, nel 180-179 a.C., non vennero deportate nel remoto Sannio, ma furono più semplicemente trasferite – come ricorda Livio – dalla montagna alla pianura, dove le eventuali spinte all’insurrezione potevano essere più facilmente controllate.

Riferimenti bibliografici: Ciampoltrini 2004 a, pp. 375-386.

Lucca romana: dalla colonia Latina del 180 a.C. alla deduzione coloniale augustea (circa 27 a.C.)

L’esito del conflitto fra Roma e i Liguri, maturato durante lo scorcio finale del III secolo a.C. e divampato, con le alterne vicende narrate estesamente da Tito Livio, fra il 190 e il 180 a.C., è nella fondazione di Lucca, colonia di diritto latino, eretta a controllare il cuore della piana dell’Auser/Serchio, dove sbarrava l’accesso dalle valli verso la pianura e l’Etruria, ed era un agevole punto di partenza per la via di valico degli Appennini che si conclude, sul versante opposto, nelle città fondate nello stesso periodo lungo la via Emilia, da Modena a Parma.
La potente cerchia di mura di cui la nuova fondazione è immediatamente dotata ne convalida il ruolo strategico, che si rivelerà utile ancora per qualche decennio, giacché solo nel 155 a.C. gli Apuani dell’Appennino sono definitivamente sconfitti.
Divenuta municipio per gli esiti della guerra sociale nei primi anni Ottanta del I secolo a.C., Lucca è coinvolta nel turbine degli anni delle guerre civili, dopo essere stata sede, nel 56 a.C., del vertice fra Cesare e Pompeo (e forse anche Crasso), grazie alla sua posizione al confine meridionale della provincia della Gallia Cisalpina. Con Augusto, infine, negli anni tra il 41 e il 27 a.C., accoglie i veterani di due legioni (la XXVI e la VII) e ritrova il rango di ‘colonia’.
La storia dell’assetto urbano di Lucca è narrata, da trenta anni, da un’attività di tutela archeologica capillare, che ha consentito di riconoscere le ‘metamorfosi’ della città sullo sfondo delle vicende del mondo romano.

Torsetto (manifattura di datazione incerta); pietra grigiastra; alt. 55; inv. A.4.
Da Lucca, Via San Paolino, ritrovamento casuale del 1966.

A quasi cinquanta anni dal ritrovamento, in lavori stradali in Via San Paolino, il torsetto maschile acefalo resta un enigma dell’archeologia lucchese. La torsione del busto, nudo, e il panneggio a larghe pieghe ampiamente sovrapposte del mantello, gettato sulle spalle, invitano a collocarlo nella plastica tardorepubblicana, e in questi orizzonti cronologici la suggestione delle statue di cavaliere d’area italica – e sannitica in particolare – del II secolo a.C. è tanto elevata, quanto meramente epidermica, benché il movimento del busto sia compatibile con la postura del cavaliere.
Allo stato attuale, tuttavia, non è stata chiarita la collocazione cronologica e culturale del singolare frammento.

Riferimenti bibliografici: Monaco 1968, pp. 38-39, A.4; per possibili confronti De Benedittis 2000.

Resti architettonici della città romana

La città romana e i materiali di reimpiego (colonne, capitelli, sarcofagi) che Lucca acquisì almeno dall’età romanica alimentano la piccola collezione di resti architettonici della sala.
Solo in rarissimi casi, tuttavia, è possibile apprezzare le diverse provenienze.
I nuclei più significativi sono quelli restituiti dallo scavo dell’area della chiesa dei Santi Giovanni e Reparata, fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, e il piccolo complesso ritrovato negli anni Trenta in San Paolino.

Riferimenti bibliografici: Monaco 1968, pp. 35-37; Ciampoltrini 1992, pp. 195-196.

Ara di Piazza San Michele in Foro (maestranze romane – urbane? – del 30-20 a.C.); decorazione a festoni appesi a protomi taurine; marmo bianco a grana fine; alt. conservata 115, diametro max. 72.
Da Lucca, Piazza San Michele in Foro, ritrovamento casuale del 1983.

Certamente di provenienza locale è la grande ara cilindrica venuta in luce nel 1983 nell’area dell’allora Banca Nazionale del Lavoro, sul lato occidentale di Piazza San Michele in Foro, lacunosa nella parte superiore, ma con perdite che compromettono solo in modesta misura l’apparato decorativo. L’ara, in marmo, era già emersa nel Quattrocento, dato che a questa epoca risale la formazione, con una potente discarica, delle stratificazioni nelle quali fu ritrovata.
La decorazione è di festoni vegetali affissi a protomi taurine, arricchiti da temi figurativi di carattere decorativo o apotropaico, come la Gorgone entro urei che – assieme alle peculiarità dello stile e dell’iconografia – permettono di datare il monumento fra il 30 e il 20 a.C. Negli urei è vistosa l’allusione al tema reso di gran moda dalla recente conquista dell’Egitto.
Gli scavi di tutela preventiva condotti in questo settore del Foro di Lucca, fra 1987 e 1991, hanno permesso di ricostruire – seppure con ampio margine di ipotesi – un complesso monumentale modulato da un porticato, con un tempio provvisto di decorazioni in marmo che ne fissano la costruzione negli stessi anni iniziali dell’impero di Augusto.
È dunque probabile che l’ara facesse parte dello stesso complesso, con cui si rinnovava l’aspetto del cuore della città, subito dopo l’arrivo dei veterani, fedelissimi dell’imperatore.
Il tono decisamente ‘urbano’ delle decorazioni architettoniche, che riflettono con tempestività i modelli elaborati per le architetture della prima età augustea di Roma, e l’elevata qualità dell’ara – probabilmente il più significativo monumento scultoreo della prima età imperiale nell’Etruria settentrionale sin qui ritrovato – rendono verosimile l’ipotesi che l’intero ‘progetto’ sia dovuto alla benevolenza dell’imperatore per i ‘suoi’ coloni, e che fosse affidato a maestranze di livello elevato.

Riferimenti bibliografici: Rendini 2005.

Iscrizione onoraria per l’imperatore Giuliano (361-363) (maestranze romane della prima età imperiale, per la colonna; del 361-363, per l’iscrizione); granito; alt. 95, diametro 39; inv. 181.
Da Lucca, Piazza “delle Herbe”, oggi Piazza XX Settembre, ritrovamento degli anni intorno al 1600.

Se con l’ara da Piazza San Michele si può salutare l’inizio di una nuova fase nella vita urbana di Lucca, la colonna che conserva – appena leggibile – un’iscrizione onoraria per l’imperatore Giuliano, cosiddetto ‘Giuliano l’Apostata’ (361-363), conosciuta già dal Tardo Rinascimento, può essere considerata ‘simbolo’ della nuova veste che la città acquista nel corso del IV secolo d.C., quando il baricentro della vita cittadina si sposta nel quadrante sud-orientale della città. In questo settore – forse intorno ai resti di un edificio termale pubblico del II secolo d.C. – vengono costruiti verso il 350 il battistero e la prima cattedrale della nuova città ‘cristiana’, dedicata a Santa Reparata, scavata e resa accessibile sotto la chiesa dedicata ancora alla stessa santa e a San Giovanni Battista.
I centri della vita amministrativa cittadina, ancora nell’Alto Medioevo, e quelli della vita religiosa, con la cattedrale di San Martino che sostituisce la prima, si dislocano intorno alla “Piazza delle Erbe” in cui venne in luce la dedica all’imperatore Giuliano, incisa su un frammento di colonna.
L’ipotesi che la dedica sia stata trovata non molto lontano dal nuovo ‘cuore’ della città tardoantica è dunque plausibile.

Riferimenti bibliografici: Monaco 1968, pp. 34-35, 181; CIL XI, 6669; Ciampoltrini 1991, p. 258; AEp, 1991, 656.

Sala 4

Pavimentazioni e decorazioni fittili delle case urbane (domus) fra I secolo a.C. e I secolo d.C.

Le indagini archeologiche hanno dimostrato che l’area urbana di Lucca, chiusa dalla cerchia coloniale del 180 a.C., fu coperta da edifici privati soprattutto a partire dallo scorcio finale del II secolo a.C., in un processo concluso solo nel corso del I secolo d.C.
La tipologia delle case cittadine (domus) emerge con grandi difficoltà nello scenario che lo scavo propone, perché la continuità di vita e i continui reimpieghi d’età medievale e moderna hanno ridotto le strutture di Lucca romana, di solito, a frammenti. L’omogeneità nelle tipologie edilizie e delle pavimentazioni dimostra però che i modelli di riferimento rimasero costanti e coerenti con il livello ‘medio’ delle dimore urbane dell’Etruria settentrionale.
Un frammento proveniente dagli scavi ottocenteschi dell’area della chiesa di San Giovanni e Santa Reparata esemplifica le pavimentazioni ottenute da una gettata cementizia (‘battuto cementizio’) di colore bianco o rosso, arricchita da motivi geometrici resi con tessere di mosaico; è riferibile alla prima metà del I secolo a.C.
Dall’area di Palazzo Gigli, in Piazza San Giusto, proviene invece il lembo di pavimentazione in tessere laterizie (‘commesso laterizio’) allettate secondo partiti geometrici guidati da tessere lapidee entro fasce a mosaico; fu ritrovato e staccato negli anni Trenta del secolo scorso. Anche per questa pavimenntazione può essere proposta una cronologia alla prima metà del I secolo a.C.
La decorazione delle case era completata – oltre che dagli intonaci dipinti, di solito ritrovati in frammenti di dimensioni minutissime – da terrecotte architettoniche. Dagli scavi 1989 di Via Burlamacchi, sede dell’Archivio Notarile, proviene il raro ciclo di lastre che compongono, alternandosi, un tralcio di vite con foglie e grappoli d’uva, popolato da eroti, oltre alla lastra isolata con Gorgone entro motivi vegetali (palmette).
Sono databili intorno all’80 a.C., e attestano che Lucca era pienamente partecipe delle innovazioni culturali dell’Italia di quegli anni.

Riferimenti bibliografici: Monaco 1968, p. 35, 202; p. 50, A. 59; Ciampoltrini 2009 a, pp. 29-34; per le terrecotte architettoniche Ciampoltrini, Rendini 1994.

I monumenti pubblici della città romana

Lastra marmorea di rivestimento per un monumento pubblico (manifatture municipali dell’Etruria settentrionale della prima età imperiale), marmo, 127 x 73; inv. 179. Reimpiegato con rilavorazione della faccia opposta a quella del monumento d’età romana come lastra sepolcrale in età moderna.

Architrave con iscrizione per un’opera pubblica (manifatture municipali dell’Etruria settentrionale d’età augustea); marmo; 173 x 72 x 16; inv. 460.
Reimpiegato nella chiesa di Santa Giulia in Lucca, ritrovato nel 1934.

Poche iscrizioni, per di più lacunose, assieme ai rari frammenti architettonici, sono quel che rimane dell’apparato di edifici pubblici – templi, edifici amministrativi – indispensabile per la vita pubblica della città romana. Solo le poderose strutture murarie dell’anfiteatro, e in parte minore delle mura e del teatro, sono sopravvissute a secoli di spoliazioni e di abbandono.
Anche il materiale epigrafico deve la sua sopravvivenza soprattutto al reimpiego, come accade per la dedica posta dai magistri Mercuriales – un collegio sacerdotale dei primi anni dell’Impero, a cui potevano essere ammessi anche i liberti – ritrovata nell’area della chiesa di Santa Giulia, o per il frammento che doveva rivestire un grande monumento pubblico finanziato da un sevir Augustalis – il collegio sacerdotale presto subentrato ai magistri Mercuriales – di cui rimane solo il cognomen, Constans, forse dedicato al Genio coloniae et decurionum.
Lo stile del festone lo fa datare negli anni fra il 30 e il 50 d.C.

Riferimenti bibliografici: rispettivamente Monaco 1968, p. 38, 179; CIL XI, 7023; Ciampoltrini 1981; Monaco 1968, pp. 38, 460; AEp 1937, 131; AEp 1938, 30.

Vetrina 1

Gli spazi sepolcrali della città

La città romana prevede una rigorosa distinzione fra gli spazi dei vivi e le aree funerarie, poste al di fuori delle mura, lungo le vie di accesso alla città, e scandite secondo precise norme.
A Lucca è la necropoli esplorata a più riprese lungo la via che usciva dalla porta orientale per giungere a Pistoia e a Firenze a documentare questi aspetti della legislazione romana. Fino all’avanzato II secolo d.C. i defunti sono incinerati e una parte – talora solo simbolica – dei resti del rogo viene affidata alla terra entro contenitori – ceramici, o di pietra come l’urna ritrovata in Viale Castracani – o semplicemente in una fossa. Le dotazioni sono limitate a suppellettili ceramiche o in vetro e a lucerne, spesso impiegate nel rituale funebre e finite nella tomba in frammenti.
Alle testimonianze cittadine si aggiungono quelle del territorio, che dimostrano l’omogeneità nei costumi funerari, fino alla scomparsa del rito dell’incinerazione. A partire dagli anni intorno al 150 a.C., infatti, diviene esclusiva la pratica dell’inumazione.

Riferimenti bibliografici: Monaco 1968, p. 50, A.60 per l’urna di Viale Castracani: Ciampoltrini 2009 b, pp. 34-40.

Le iscrizioni funerarie

Frammento di iscrizione per il monumento funerario del collegium dei Martis cultores (manifatture municipali dell’Etruria settentrionale d’età augustea); marmo; 60 x 35; inv. 217.
Da Lucca, Piazza dei Servi, Casa Tegrimi, 1764.

Conservare la memoria della tomba è fondamentale nella cultura romana. L’iscrizione collocata sull’area sepolcrale tutela gli spazi del sepolcreto della famiglia o dell’associazione funebre, e assicura la conservazione della memoria.
Anche le iscrizioni funebri hanno subito, spesso, le vicende del reimpiego. Sono queste che hanno portato in città, con qualche mutilazione, l’iscrizione che contrassegnava l’area funeraria che l’associazione dei ‘Devoti di Marte’ (Martis cultores) aveva acquistato e tutelato per i suoi membri, fra la fine del I e i primi decenni del II secolo d.C.

Riferimenti bibliografici: Monaco 1968, p. 37, 217; CIL XI,  1530.

Vetrina 2-3-4

Gli insediamenti del territorio

La Piana di Lucca ha conosciuto una fervente stagione di ricerche archeologiche, a partire dal 1982, che si è concentrata soprattutto nell’area della Bonifica del Lago di Sesto o Bientina, dove le ricerche di superficie avevano individuato una fitta serie di insediamenti produttivi rurali.
Ai materiali provenienti dallo scavo del Chiarone di Capannori (1982-1990) è affidato il compito di testimoniare la vita quotidiana degli abitati distribuiti nelle campagne di Lucca, dal II secolo a.C. ai decenni di passaggio fra II e III secolo d.C. (l’età severiana), quando l’insediamento è abbandonato. Alle ceramiche di produzione locale – in un caso contrassegnate dal marchio del produttore – si aggiungono le produzioni fini da mensa, dapprima acquisite dalle officine dell’Etruria settentrionale dalle quali esce la terra sigillata italica e tardoitalica, con vernice rosso-corallina, e poi – nel corso del II secolo d.C. – da quelle africane, poste dell’attuale Tunisia, che inondano il mercato mediterraneo delle ‘sigillate africane’, ‘chiare’, con vernice arancio. In rari casi le ceramiche sono contrassegnate da graffiti, con il nome del proprietario (Pacatus) o con il riferimento al contenuto del vaso (salsa).
Strumenti in bronzo di uso medico, o le gemme, testimoniano il livello di vita e la complessità delle relazioni commerciali e culturali che riuscivano a raggiungere anche gli insediamenti rurali.

Riferimenti bibliografici: Ciampoltrini 1995; Giannoni 2005.

Le iscrizioni funerarie del territorio

Frammento di iscrizione per il monumento funerario di un magistrato municipale (manifatture municipali dell’Etruria settentrionale della prima età imperiale); marmo; 83 x 95; inv. 194.
Dal territorio di Capannori, 1696.

Frammento di iscrizione per il monumento funerario di una fanciulla (manifatture municipali dell’Etruria settentrionale della prima età imperiale); marmo; 83 x 70; inv. 216.
Recuperata nella Badia di Cantignano (Capannori), 1885.

Spicca fra i monumenti funerari del territorio la frammentaria stele ritrovata nel territorio di Capannori nel 1696, databile agli ultimi decenni del I secolo d.C. per le caratteristiche della decorazione vegetale dei pilastri che inquadrano lo spazio destinato all’iscrizione, quasi interamente perduta e alla figurazione di una sella curule e di fasci; il soggetto è peculiare dei monumenti funerari dei magistrati municipali, dei seviri Augustales. Proprio il chiaro riferimento alle tradizioni magistratuali e d’età romana ne favorì l’immediata collocazione nel Palazzo Pubblico di Lucca.
Al reimpiego nella Badia di Cantignano si deve la sopravvivenza della lastra apposta dai genitori, Acheolous e Heorte, al monumento funerario della figlia Nymphe, morta prima di aver compiuto sei anni. I toccanti versi dell’epigramma funerario nel quale si piange la scomparsa della bambinasono uno dei più squisiti documenti della vita e degli affetti familiari degli anni intorno al 50 d.C. L’assenza del gentilizio, peculiare dei cittadini romani, dichiara che la famiglia era di schiavi, o di stranieri.
La tipologia dei monumenti funerari – completata dalle iscrizioni ancora distribuite nel territorio – è completata dalla lastra con testo pressoché illeggibile proveniente da   , dei primi decenni del I secolo d.C.

Riferimenti bibliografici: rispettivamente Monaco 1968, p. 48, 194; CIL XI, 1529; Ciampoltrini 2009 c, p. 20; Monaco 1968, p. 47, 216 (CIL XI, 7024).

Sala 5

Le vie del commercio hanno fatto portato a Lucca, dal Medioevo al Rinascimento, manufatti d’età romana funzionali al riuso (come nel caso delle colonne), all’adattamento a reliquiari (le urne) oppuire al reimpiego; la provenienza è quasi senza eccezioni da Roma. È questo il caso, in particolare, dei sarcofagi: per tutto il Medioevo arrivano a Lucca – seppure in misura di gran lunga minore rispetto a Pisa – sarcofagi che vengono impiegati per le deposizioni nelle aree funerarie delle chiese cittadine o rurali, in concorrenza con i manufatti di produzione locale, decorati o lisci. Spesso sono ancora conservati dove vennero messi in opera, ma frammenti – così come resti di colonne e di membrature architettoniche o urne – sono giunti al Museo.
È singolare la storia del rilievo d’età ellenistica, con scena di banchetto funebre, del I secolo a.C. arrivato alle collezioni museali dalla Pieve di Vallecchia (Pietrasanta), dove era giunto, per vie decisamente insondabili, dal luogo di manifattura, da porre nell’Anatolia.

Riferimenti bibliografici: Monaco 1968, p. 343, A.1, per il rilievo già a Vallecchia; p. 37, 77 per l’urna già in Casa Montecatini (CIL XI, 1533); p. 47, 247 per il frammento di sarcofago da Antraccoli; in generale, Monaco 1968, pp. 35-37.

Gli scavi del 1756 a Massaciuccoli (scuola lucchese del XVIII secolo), olio su tela; 4309 x 230; 418.

La tela che esibisce, a grandezza naturale – come viene dichiarato esplicitamente nella legenda che incorpora – i più significativi tra i reperti della campagna di scavo condotta nel 1756 a Massaciuccoli (Massarosa) da Domenico Spada, nella sua proprietà attigua all’attuale pieve, è un prezioso cimelio della ‘nascita’ dell’indagine archeologica, ancora fortemente impregnata dell’antiquaria tradizionale, nella Lucca del Settecento, con esiti apparentabili a quelli proposti dall’attività del Piranesi e degli altri illustratori suoi contemporanei.
La testimonianza della tela può essere compiutamente apprezzata grazie alla relazione sullo scavo – edita per la prima volta nel 1963 – di cui è una singolare ‘tavola fuori testo’, esplicitamente voluta dall’autore degli scavi, in una fervida stagione di ricerca e ‘valorizzazione’ dei resti romani di Massaciuccoli iniziata con gli scavi del 1756, ripresa nel 1770, culminata infine nei restauri d’età neoclassica affidati al Nottolini.
La fedelissima riproduzione del pavimento in opus sectile di un ambiente in parte reimpiegato per la chiesa altomedievale inglobata dall’attuale, della frammentaria statua marmorea di personaggio eroizzato, nudo, con il mantello gettato sulle braccia (quasi certamente un imperatore), dei lembi di pavimento a mosaico, dei rivestimenti lapidei e delle terrecotte architettoniche, è ancora fondamentale per ricostruire le vicende della grande villa di otium voluta dalla famiglia dei Venulei a Massaciuccoli, nel corso del I secolo d.C.

Riferimenti bibliografici: Parra 1995.

Sala 7

Vetrina 1

La città del VI e VII secolo – la ‘Città di San Frediano’ – è oggi conosciuta non solo per le scarne testimonianze delle fonti letterarie, agiografiche o epigrafiche. L’indagine archeologica delinea, seppure con ampie lacune, il quadro di una città aperta fino allo scorcio finale del VI secolo ai traffici mediterranei, dai quali giungono le estreme produzioni di sigillata africana da mensa o contenitori di sostanze pregiate come i piccoli spatheia.
Alle manifatture ceramiche locali, partecipi della cultura tardoantica – come attestano in particolare le imitazioni di lucerne ‘africane’ – si devono manufatti peculiari di questi orizzonti cronologici: il diffusissimo mortaio con listello sull’esterno del labbro, o il raro esempio di fiasca da viaggio, redazione fittile di una forma attestata anche in legno.
Sede di attività artigianali – testimoniate dal dato archeologico nella metallurgia del ferro e del bronzo, con gli scarti di applicazioni in bronzo per cintura da Via Fillungo, recupero Grida 1981 – la città subisce nel corso del VI secolo una profonda trasformazione, con la fine della tradizionale distinzione fra spazi dei vivi, intramuranei, e spazi dei morti, extraurbani, per conoscere deposizioni funebri anche entro l’abitato, fra le ‘isole’ di aree insediative che fanno della città non più la coerente struttura urbana della prima età romana, ma un vero e proprio ‘arcipelago’ di abitati e di sepolcreti. La tomba scavata in Via Fillungo, all’angolo con Via Buia, nel 1988, era probabilmente di un Romano che si era fatto seppellire con la sua veste, in una ripresa del rito della sepoltura ‘abbigliata’ che si manifesta tra l’avanzato VI e il VII secolo anche fra le popolazioni ‘autoctone’ della Tuscia.

Riferimenti bibliografici: Ciampoltrini 2011, pp. 28-61.

Vetrina 2

A partire dal 570 in questo tessuto urbano si insediano, così come nelle campagne, i Longobardi, che fanno di Lucca il presidio toscano del più sicuro asse di attraversamento dell’Appennino, sulla via di Roma: dapprima per la conquista, poi – a partire dal secolo VIII – sugli itinerari dei pellegrini, anticipando la via Francigena del tardo X secolo.
La tomba ritrovata nel 1859 davanti la chiesa di Santa Giulia, in Piazza del Suffragio, a Lucca, è certamente il più vistoso documento della classe dominante longobarda insediata nel corso del VII secolo in città, equivalente archeologico dello scenario sociale che le pergamente dell’Archivio Arcivescovile propongono dirante il secolo successivo.
La cintura con pendenti d’oro, configurati da delfini contrapposti, che assimila il Longobardo alle classi dirigenti dell’intero mondo mediterraneo del pieno VII secolo è, assieme al numero delle crocette auree del velo funebre (cinque) e allo scudo da parata, il segno del rango del defunto, probabilmente da riconoscere come vir magnificus, appena un gradino al di sotto del dux (vir gloriosus), vertice della società e dell’amministrazione cittadina.
Lo scudo – un unicum per la completezza – con la figurazione affidata a lamine di bronzo dorato che propongono due scene consuete nell’iconografia cristiana della Tarda Antichità (Daniele, qui identificato con il guerriero titolare dello scudo, nella fossa dei leoni; il kantharos a cui si avvicinano i pavoni) è probabilmente uscito da una manifattura di corte, attiva a Pavia per la fascia più alta dell’aristocrazia longobarda. L’iscrizione, resa recentemente leggibile dal restauro, con la ripresa del verso del Salmo (Domine ad adiuvandum me festina), è l’equivalente ‘letterario’ della figurazione del guerriero, sulla cui asta crucigera si posa la colomba dello Spirito Santo.
La tomba di semplice arimanno ritrovata a Marlia (Capannori) nel 1969, nell’area del sepolcreto tardorepubblicano, dimostra con l’evidenza delle dotazioni la strutturazione gerarchica della società longobarda. La cintura con decorazioni animalistiche niellate in ferro su argento la fa datare intorno al 650, ed è dunque sostanzialmente contemporanea a quella di Santa Giulia.

Riferimenti bibliografici: Ciampoltrini 2011, pp. 61-74.

Vetrina 3

Ancora l’indagine archeologica ha aggiunto testimonianze di sepolture longobarde in Lucca, con il piccolo sepolcreto esplorato nel 1989 in Via Fillungo, che comprendeva una tomba di arimanno di livello comparabile a quella di Marlia, e con le dotazioni della ‘Dama con gli Orecchini’, scavata nel 2011 in Via Elisa, probabilmente in una chiesa funeraria suburbana.
Gli orecchini a cestello in argento – per la prima volta attestati a Lucca in questa deposizione – e il pettine in osso certificano che la Dama – una signora morta intorno ai 25 anni, come mostra l’indagine antropologica – visse nella prima metà del VII secolo.

Riferimenti bibliografici: rispettivamente Ciampoltrini 2011, pp. 58-61; Ciampoltrini, Giannoni, Mongelli c.d.s.

Sala 8

Ceramiche altomedievali di Lucca

Dai contesti altomedievali emersi e regolarmente esplorati, e prima ancora dai ritrovamenti casuali e dai recuperi, è stato possibile ricomporre le tipologie ceramiche lucchesi dei secoli centrali del Medioevo (VIII-XI). Due forme esauriscono il campionario morfologico: il boccale e l’olla. Rimane dunque sostanzialmente immutato il binomio di formazione tardoantica ‘orciolo-olla’, con il contenitore ansato (‘orciolo’) destinato alla presentazione dei liquidi, e la forma chiusa, sprovvista di anse, modellata in un impasto adatto ad affrontare il fuoco, che è funzionale alla preparazione e alla presentazione di alimenti semiliquidi. In base alle informazioni offerte da documenti dei secoli VIII e IX si potrebbe ipotizzare che l’olla portasse alla mensa il pulmentarium ottenuto da legumi e cerali, conditi con grasso animale (strutto o lardo), che fungeva da ‘companatico’. L’evoluzione delle forme, fino al XII secolo, è appena percepibile.
I vasai lucchesi si cimentano tuttavia in fome come il testo o la lucerna, realizzata – secondo la tradizione invalsa dall’Alto Medioevo – con vasca aperta su alto sostegno cilindroide. Del tutto eccezionale è l’esemplare fittile di affumicatore per api, puntualmente rispondente alle descrizioni proposte dai trattati agronomici dell’antichità, e alla pratica giunta sino ai nostri giorni.

Riferimenti bibliografici: Ciampoltrini 2004 b.

Pedina per gioco degli scacchi (manifattura del secolo XI); osso;      .
Lucca, Cortile Carrara (Palazzo Ducale), scavi 1999.

Nell’austerità dei contesti altomedievali, formati quasi esclusivamente da ceramiche di manifatture locale, spicca la pedina per gioco degli scacchi (cavallo) ritrovata nei saggi del 1999 nel Cortile Carrara, databile per tipologia e per dati di associazione intorno al secolo XI. La scacchiera musiva del San Savino di Piacenza è lo sfondo più immediato per l’apprezzamento della testimonianza archeologica di un gioco che è uno straordinario ‘tracciante’ delle comunicazioni culturali del bacino mediterraneo, dal mondo arabo-islamico a Bisanzio e all’Europa occidentale, forse per il tramite della Spagna.

Riferimenti bibliografici: inedito. Per la tipologia, si vedano gli esemplari di Venafro o del relitto di Serçe Limani; utilissima la sintesi di Romeo 2006.

Il ripostiglio dell’area Galli Tassi di Lucca, 2002

Durante gli scavi di tutela preventiva condotti nell’area dell’ex Ospedale Galli Tassi di Lucca (oggi sede degli uffici giudiziari cittadini), nel 2002, grazie all’accuratezza del metodo di indagine fu possibile recuperare, distribuiti in pochi decimetri quadrati di superficie, 34 monete d’argento, probabilmente provenienti da un gruzzolo affidato ad un contenitore di pelle o di tessuto dissoltosi, collocato in un anfratto della parete esterna delle mura cittadine, o sepolto al piede di queste. Sono presenti denari di Pavia al nome dei re d’Italia (Lotario II, 945-950; Berengario II e Adalberto, 950-961) e di Ottone I imperatore e di Ottone II re d’Italia, associati (962-967); di Lucca, al nome di  Ottone I e Ottone II, associati; di Venezia, per il re d’Italia Ugo (926-947); denari emessi a Roma per papa Benedetto V, al nome di Ottone I imperatore (maggio-giugno 964); tre pennies anglosassoni del re Eadgar (959-975), delle zecche di Londra e Winchester; infine un frammentario mezzo dirham, imitazione occidentale della moneta araba d’argento. La cronologia della deposizione può essere fissata al 964, soprattutto per la presenza dei denari di papa Benedetto V. In questo caso, è particolarmente suggestiva la possibilità di riferire l’occultamento e la perdita del gruzzolo agli eventi di quell’anno, registrati dalla concomitante testimonianza dei diplomi di Ottone I e dei cronisti. A Lucca sostò a lungo, nell’estate, l’imperatore con  il suo corteggio, che non scampò alla pestilenza divampata in città, che mieté vittime anche fra i più illustri membri della corte. In queste circostanze potrebbe essere andato perduto il ripostiglio del Galli Tassi, che rimane comunque una testimonianza del ruolo svolto dalla città sulle vie del X secolo.

Riferimenti bibliografici: Ciampoltrini, Abela, Bianchini 2001-2002; Saccocci 2001-2002.

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