


Appena appena traspare l'umido calore dell'estate del 2006, la magica estate dei legni, nelle immagini dello scavo pulito da Serena ed Elisabetta, e Irene, guizzando leggere nel fango, solo lasciando traccia di suola potenti, lieve fatica per Photoshop rispetto a quella di sfiorare legni marci salvandone colore e superficie, pendule, in un forno verde. Nel distillato dell'immagine i puri volumi dei legni si fondono nel blu violaceo dei limi palustri, riemersi sul fondo del fosso da aprire, nel tratto fittissimo del disegno appena appena si distinguono i pali portanti e le assi galleggianti, intrico che emula quello dello scavo. È la mitica Fossa Cinque, il villaggio del Bronzo Finale cercato da quasi venti anni, nelle sue forme, nei suoi colori. E poi, l'anno dopo, l'asciutta griglia dei pali, e il grumo dei cocci che conferma la data: BF 3 B, come dice autorevole il Pacciarelli, gli anni intorno al 1000 a.C., data suggestiva. Le fatiche di Augusto finalmente coronate, i tanti ghirigori incisi sui vasi del Bronzo Finale che trovano lo scenario degno.
E anni e anni per lavare i cocci, incollarli, fatica e esaltazione di Consuelo, studiarli, anche se lo studio è facile, dopo gli strenui tormenti del '97 e i fasti di Livorno. Da Stagno a Fossa Cinque, lungo le vie dei fiumi che Marcello aveva visto nel satellite e dall'aereo, nell'intrico di rami dell'Arno e dell'Auser, vie che si aprono verso il nord, verso la Pianura Padana, Protogolasecchiani e Protovillanoviani, Etruschi e Liguri, si direbbe in parlar comune e non nel gergo mistico e autorefenziale del protostorici accaniti nello scandire le teste degli spilloni in forme, controforme, varianti. E bravi anche a crederci (o a far credere di crederci).
Ma per dar vita a pali e tavole e travicelli, e relitti di stuoie, è assai meglio metter le vele nel mare di Google, e andar per pile dwellings o pfahbauten, e arrivare oltre la Nuova Guinea, alle Salomone e alle isole Trobriand, le mitiche terre in mezzo all'oceano, del kula e di Malinowski. La Struttura 2 di Fossa Cinque, scavi 2007, diviene a colori nell'immagine delle isole dei mitici canti, dei rituali neolitici e matriarcali (?), di Kiriwani, giacché i navigatori della Melanesia e della Polinesia non avavano bisogno di un francese che desse loro nome; navigavano anche meglio dei francesi e degli inglesi del Settecento, con le loro terrificanti canoe.
Quasi si immagina che anche i Bronzifinali (ma avranno di certo parlato in etrusco) di Fossa Cinque e di Stagno, di Fonteblanda e di Punta degli Stretti, navigassero come gli Austronesiani, sul Tirreno. Ma gli Efori dell'Archeologia non vogliono, erano Bronzofinali, non etruschi, si divertivano a far le teste di spilloni e le fibule in cento modi diversi, per la loro gioia analitica e fasificatrice.
Ma forse vivevano come i Trobriandesi, girando per isole con il kula, pieni di voglia di vivere, di generare, energici ed energetici. Troppo per i classificatori di teste di spilloni e di ghirigori incisi su vasi costruiti non per analizzare il rapporto fra depressione del fondo e angolo del labbro, spigolo della carena, ma per portare alla bocca una bevanda che desse gioia, vita, forza, oblio (sarà stato il vino? Avevano i vinaccioli, i Bronzofinali, ma forse ci si facevano una bella macedonia).
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