La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

mercoledì 31 dicembre 2014

L'anno del ponte




Più di qualsiasi ricostruzione virtuale, il tocco barocco di Bernardo Strozzi per dar vita alle sublicae del Botronchio, riemerse dalla terra e ritornate all'acqua, ponte sul fiume sepolto e talora rinato.
Anno del ponte, vagheggiato e appena intravvisto sotto l'acqua dell'Anno dell'Acqua, il ponte che si taglia e si rigenera, il ponte dei pontefici, immaginato nelle immagini dell'aereo e del satellite, visto per un attimo nella terra.
E i miti indoeuropei rinati nelle storie di Tito Livio, grandi metafore nell'incrocio di metafore dei gelidi giorni del solstizio.

sabato 27 dicembre 2014

Anamorfosi urbane e ceramiche a colori



Per il resto c'è il Notiziario della Soprintendenza, per vedere a colori le ceramiche delle Anamorfosi urbane di Lucca (perché se non sono a colori che gusto c'è ...)


Contesti stratigrafici e cronologie assolute fra Seicento e Ottocento: contributi dai saggi di Piazzale Verdi

I contesti di Piazzale Verdi offrono un significativo contributo alla definizione della cronologia assoluta dei tipi ceramici in uso a Lucca fra Seicento e Ottocento, grazie alla possibilità, appena esaminata, di raccordare livellamenti e discariche ad episodi – di demolizione o di costruzioni – ben databili.
La us 177, messa in opera dopo la demolizione delle mura medievali, conferma la datazione nel corso dei primi decenni del XVII secolo dei tipi di graffita caratterizzati dalla decorazione araldica stilizzata o da motivi vegetali entro cornici con motivi resi a punta o a fondo ribassato, già riferiti a questo periodo sulla scorta delle associazioni – in particolare con maiolica di produzione montelupina – nei contesti degli Orti del San Francesco e del Cortile Carrara[1].
In questo caso, per contro, è il contesto a consentire la datazione entro il 1640-1650 del grande piatto ascrivibile per caratteristiche tecniche della pasta e morfologia alle botteghe di Montelupo, che esibisce su un campo in cui si affollano tratti in blu e stilizzate “foglie” in arancio un grande fiore in boccio, disegnato da pennellate in manganese e campito in giallo (fig. 27, 1), in cui la suggestione della coeva “Flora” di Cecco Bravo[2] invita a riconoscere il fiore prediletto in questi anni del Seicento, il tulipano, reso con i modi speditivi dei ceramografi montelupini dell’avanzato XVII secolo[3]. Il variegato livello qualitativo delle produzioni di maiolica disponibili sul mercato lucchese del Seicento è emblematicamente suggerito dall’eccezionale presenza di un frammento ascrivibile ad una forma aperta decorata con i motivi del “calligrafico naturalistico” seicentesco delle manifatture liguri, forse albissolesi (fig. 27, 2)[4].
L’incrocio dell’evidenza documentaria e iconografica con quella stratigrafica sembra confermare che l’impianto dell’anfiteatro per le corse dei cavalli – almeno in forme solidamente strutturate – non è anteriore alla metà del Settecento. La stampa che lo presenta nello stato del settembre 1759, poco dopo il progetto promosso da una società nel 1756, e prima dei rinnovamenti certificati nel 1785[5], coincide sostanzialmente con l’evidenza archeologica; i materiali provenienti dai livellamenti che assecondano la formazione del nuovo edificio sono compatibili con il terminus ante quem che la stampa fornisce.
A dimostrazione dell’eterogeneità e casualità degli inerti accumulati e impiegati nelle opere di livellamento, sono vistose le distinzioni fra i vari contesti, in particolare la us 552 e la 176. Le “catinelle” montelupine con “spirali verdi”, fortunate anche a Lucca nei decenni centrali del Settecento[6], attestano la “chiusura” contemporanea dei due sedimenti, ma nella us 552 (fig. 27, 3-4) sono associate soprattutto a residui, che si scaglionano – per rimanere ai capi meglio databili – dai primi del Cinquecento, con il frammento che salva sul fondo bianco la sigla S D (fig. 27, 5) in cui parrebbe arduo non riconoscere le mode certificate dall’analoga sigla su un ‘bianco’ del San Francesco[7], applicata al San Donato lucchese, o con il tondo – ugualmente di bottega montelupina – con cane latrante (fig. 27, 6)[8].
Dal Cinquecento fino ai primi dell’Ottocento le botteghe toscane subiscono a Lucca la concorrenza di quelle liguri, decisamente meno “popolari”. Il successo delle manifatture liguri in questi secoli trova nell’evidenza documentaria, grazie ai dati registrati da Sergio Nelli[9], testimonianze assai più consistenti di quelle offerte dai contesti archeologici, a riprova di un’eccellenza qualitativa che ne esaltava il valore e quindi ne imponeva la registrazione negli inventari domestici; emerge tuttavia anche nelle restituzioni della discarica 552, con minuti frammenti a smalto berrettino (fig. 27, 7) o in “calligrafico naturalistico” (fig. 27, 8-9), uno dei quali salva nel tondo chiuso da una cornice “a quartieri” parte un apparato architettonico (fig. 27, 9) sovrapponibile a quello integralmente conservato da un esemplare albissolese in collezione privata[10].
L’omogeneità con i contesti esplorati negli Orti di San Francesco attesta invece che nella us 176 finì una vera e propria discarica di ceramiche in uso intorno al 1750, con la “catinella” con “spirali verdi” (fig. 28, 1) e la massa di forme aperte di manifattura toscano-settentrionale invetriate su un ingobbio speditivamente decorato da soggetti vegetali e floreali resi con veloci pennellate di verde o di giallo (fig. 28, 2-4), e un ricorso del tutto marginale alla pratica della graffitura[11].
Le unità stratigrafiche che segnano i progressivi adeguamenti e i rifacimenti dell’anfiteatro fra Sette- e Ottocento restituiscono quasi senza eccezione frustuli misti a residui, di regola in proporzione preponderante (fig. 29), talora di più antichi di secoli, come il frammento con fregio che dispiega sulla tesa le cornucopie che compaiono nei “girali fioriti” montelupini della metà del Cinquecento (fig. 29, 12)[12]. Tuttavia, anche in questa veduta “anamorfica” del vivace mercato lucchese d’età neoclassica, che merita una definizione più accurata di quella sin qui ancora essenzialmente affidata alle valutazioni formulate sui dati dagli Orti del San Francesco[13], traspaiono le acquisizioni di tono “medio” (più che medio-alto) dalla bottega empolese del Levantino, da cui giungono i capi in monocromia bianca impreziositi dall’“orlo cinese” in azzurro (fig. 29, 1-2)[14], dai “fiorellini diversi” (fig. 29, 3; 6-7)[15], e forse anche le redazioni di forme aperte decorate sulla tesa con “onde blu e punti neri” (fig. 29, 13), conosciute peraltro anche nella manifattura di Doccia[16]; al Levantino si deve probabilmente ascrivere anche la forma in monocromia con tesa increspata (fig. 29, 9)[17].
La grande forma aperta con “mazzetto fiorito verde” (fig. 29, 4) certifica la perdurante vitalità delle manifatture di Montelupo, che devono ormai competere piuttosto con le produzioni invetriate su ingobbio, provviste di una decorazione altrettanto schematica, resa da frettolose pennellate gialle e verdi che appena fanno intuire il soggetto floreale che intendono presentare (fig. 29, 5)[18]. Soprattutto, le botteghe di tradizione “artigianale” della Toscana settentrionale, attive per maioliche o per ingobbiate, devono ormai affrontare la presenza sul mercato di una produzione dagli aspetti “industriali” come quella albissolese che “firma” con le pennellate in nero – le tâches noires – i capi invetriati di marrone, restituzioni a buon mercato delle forme sin qui proprie delle manifatture di maiolica (fig. 29, 10-11)[19]. Nuovi orizzonti – non solo mercantili, ma anche delle strutture produttive – culturali, indiziati anche dalle produzioni in vetro fuso su stampo (fig. 29, 8) che cominciano ad apparire in questi contesti. (G.C.)


Riferimenti bibliografici

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[1] Ciampoltrini, Spataro 2005, pp. 69 ss.; si veda in seguito Ciampoltrini, Spataro 2009, pp. 200 ss.
[2] Barsanti 2003, p. 577, fig. 684.
[3] Si vedano le parentele con il “Genere 59. Foglia con frutta policroma” di Berti 1998, p. 196.
[4] Si veda da ultimo, con la revisione terminologica in “orientalizzante naturalistico”, Pessa 2011, pp. 63 ss.
[5] Rispettivamente Lucca iconografia della città 1998, n. 184, p. 118; n. 189, pp. 119 s. (G. Bedini).
[6] Ciampoltrini, Spataro 2005, p. 82; per il tipo Berti 1998, pp. 215 s., “Genere 72”.
[7] Da ultimo Ciampoltrini, Spataro 2013, pp. 43 s.
[8] Per il tipo a Lucca Ciampoltrini, Spataro 2013, p. 33, tav. X, 1.
[9] Nelli 2007, in particolare pp. 330 s.
[10] Barile 1965, tav. XXI, 1.
[11] Per queste produzioni, dopo Ciampoltrini, Spataro 2005, pp. 78 ss., si rinvia a Ciampoltrini, Spataro 2007, in particolare pp. 179 ss.
[12] Per questo Berti 1998, pp. 126 s., “Genere 32”.
[13] Ciampoltrini, Spataro 2005, pp. 93 ss.
[14] Per questo Moore Valeri 2008, p. 46; per Lucca, si vedano i cenni di Ciampoltrini 2008, p.
[15] Moore Valeri 2008, pp. 38 ss.; per Lucca, oltre a Ciampoltrini, Spataro 2005, p. 95, si veda Ciampoltrini, Spataro 2009, p. 222.
[16] Moore Valeri 2008, pp. 44 ss.
[17] Moore Valeri 2008, pp. 41 ss.
[18] Si veda rispettivamente Berti 1998, p. 217, “Genere 75”; Ciampoltrini, Spataro 2007, pp. 183 ss.
[19] Ciampoltrini, Spataro 2005, p. 95; Ciampoltrini, Spataro 2009, p. 222.

martedì 23 dicembre 2014

Piatti da un matrimonio



Giorni stanchi, l'inverno è autunno interminabile, il solstizio s'immerge nelle paludi dell'autunno, e stanco è anche l'anno. Ma pur si deve guardare avanti, nelle ammucchiate cassette di tante fatiche di amiche e proprie, perché le fatiche non si perdano nella palude della stanchezza.
E da ammucchiate cassette e dal fango affiora una storia di matrimonio, piatti rotti, maiolica misera, smalto che non regge alle ingiurie della terra se non quel tanto da generare da ricomposti frammenti e dal gorgoglio dell'acqua l'arme dei Balbani congiunta a quella Parensi, aquilotti sul blu e ricci sull'oro, e cimieri fieri di altri uccellacci.
Un matrimonio lucchese del Settecento, avanzato, dichiarano i piatti di ogni giorno finiti con il servizio buono del matrimonio, tâches noires di Albissola misere e tristi nella povera bicromia, ma solide, appena incise dal lavorio di coltelli; e il tegamino che pare uscito da una natura morta del Magini, festoso di uova al tegamino.
Sono lividi anche i colori, nella luce dell'autunninverno nei giorni del solstizio, sorridono appena al blu e all'oro dei Balbani e dei Parensi, di un matrimonio da ritrovare, finito nei piatti di una discarica.

sabato 22 novembre 2014

Anamorfosi di un paesaggio. Le storie narrate dalla terra dell'Ospedale San Luca di Lucca e le storie di tanti amici










Anamorfosi: il termine polivalente che in zoologia indica una trasformazione repentina, e nella pittura l’effetto ottico che rende compiutamente leggibili le immagini solo da una particolare angolazione è già stato applicato alla storia urbana di Lucca, per sintetizzare la sequenza di trasformazioni che ha investito il quadrante sud-occidentale della città, dall’età romana all’Ottocento, così come è emersa dai saggi condotti fra 2013 e 2014 per la realizzazione del progetto PIUSS.
Ancor più adatto pare il termine per la storia che hanno raccontato anni di scavo – dal 2009 al 2012 – nel cantiere del San Luca, nella periferia orientale dell’attuale agglomerato urbano, tra l’Arancio e San Filippo, e poi – fino ad oggi – nei depositi e nei laboratori. Ne sono emerse vicende di mutamenti di paesaggi e di insediamenti, dapprima in un ambiente dominato dai fiumi, poi dalle strade che ne determinano il complesso rapporto con un polo urbano così vicino. Solo in questo ‘contesto’ – come si sarebbe detto un tempo – è possibile trovare il ‘punto di vista’ da cui, per ‘anamorfosi’, i singoli episodi possono ottenere pienezza di colori e di volumi.
Parte ancor più da lontano la storia delle ricerche, con gli accordi di programma fra Regione Toscana e Ministero per i Beni Culturali per la costruzione dei quattro nuovi poli ospedalieri della Toscana settentrionale, nel 2005, e con l’applicazione sperimentale di una forma di ‘archeologia di tutela’ sostanzialmente non dissimile da quella che sarebbe stata strutturata negli articoli 95 e 96 del Decreto Legislativo 163 del 2006, e avrebbe trovato possibilità di concreta attuazione nella circolare della Direzione Generale per le Antichità del 2012 (10/2012).
Nel 2009, quando prese avvio il cantiere con la procedura delle opere di bonifica bellica – BOB: B(onifica) O(rdigni) B(ellici) – erano quindi disponibili una scheda per la ‘valutazione dell’impatto archeologico’ e una strategia di saggi diagnostici, messe a punto dalla Cooperativa Archeologia di Firenze d’intesa con la Soprintendenza, e motivate dai dati desumibili dai ritrovamenti del passato in aree contigue (da San Filippo a Tempagnano) e dal reticolo della centuriazione, con il possibile condizionamento sulle infrastrutture e sul sistema di insediamenti già riconosciuto nella Piana di Lucca.
A dimostrazione che la realtà è di norma più screziata di quanto possa immaginare la fantasia dell’archeologo, e che gli algoritmi della predittività archeologica fondati su serie storiche di dati hanno valore meramente probabilistico, furono le trivelle della BOB, con il quadrettato di carotaggi disposto su tutta l’area del San Luca, a rivelare che un complesso intreccio di stratificazioni e di strutture era sepolto sotto il paesaggio di boschi planiziali di recente formazione e di prati che le fotografie satellitari consentivano di apprezzare al margine della Via Romana, lambito dall’espansione del suburbio di Lucca in un connubio talora straniante di antiche corti e di nuove villette – la penultima ‘anamorfosi’ (fig. 1). I frammenti ceramici, i relitti di murature portati in luce dalle trivelle, minuziosamente esaminati dagli archeologi della Cooperativa Archeologia – con l’appassionata, continua presenza di Domenico Barreca – disegnavano una mappa straordinariamente più affascinante ed inquietante di quella che le valutazioni formulate sulla scorta dei dati già acquisiti potevano far immaginare (fig. 2).
Ancor più efficaci furono i risultati della serie infinita di saggi che la BOB impose per valutare se i ‘segni’ potenzialmente riconducibili a ordigni interrati erano tali, o dovuti ad altre presenze. Ancora con Domenico Barreca, d’intesa con la direzione dei lavori, fu messo a punto un metodo capace di contemperare le esigenze di sicurezza – particolarmente stringenti nel caso della BOB – con quelle di salvaguardia del patrimonio archeologico.
Le trincee diagnostiche si dilatarono dunque, progressivamente, nell’autunno e nell’inverno 2009-2010 divennero saggi su ampia estensione che in alcuni casi – in particolare al margine meridionale dell’area – portarono all’esplorazione integrale dei contesti (fig. 3), con opere agricole d’età romana distribuite su tutto il compendio; un lacus vinarius, ancora d’età romana; una struttura con la straordinaria testimonianza di vita contadina proposta da un ricco campionario di ceramiche databili al volgere fra Otto- e Novecento. In alcuni settori fu motivatamente esclusa la presenza di stratificazioni archeologiche; in altri, infine, vennero acquisiti i dati indispensabili per progettare nuove ricerche, funzionali ad assicurare la compatibilità fra le opere di progetto e le strutture archeologiche. Fu in questo momento che apparve, in un sito di immagini satellitari (Bing Maps), una veduta obliqua dell’area del San Luca in cui risaltavano i segni di un edificio sepolto dal solo suolo agricolo, che già le trivelle avevano in parte disegnato con i frantumi di strutture portati in superficie, e che i primi saggi stavano ricomponendo nel suo ordito. Una vera e propria ‘anamorfosi’, possibile solo in un momento ‘magico’ di crescita della vegetazione e con una particolare angolazione della ripresa aerea.
Con il personale della COSAT, che stava allestendo il cantiere – conclusa con esito positivo la BOB – e la componente della ASL 2 di Lucca – piace ricordare il direttore pro tempore ingegnere Oreste Tavanti e il Responsabile del Procedimento ingegnere Gabriele Marchetti – fu progettato e affidato l’incarico di esplorazione integrale delle stratificazioni archeologiche.
Dall’estate all’autunno del 2010, fra ripetuti episodi di allagamento (fig. 4) e siccità estive (fig. 5), gli archeologi della Cooperativa Archeologia – coordinati da Domenico Barreca con Silvia Giannini – misero in luce l’intero ordito del complesso, rivelatosi una mansio d’età romana capace di essere riconosciuta nella veduta satellitare, grazie anche al manto protettivo di geotessile (fig. 6), che apparve edificata su un sito già frequentato fra VIII e VI secolo a.C.; furono scavate strutture d’età medievale quasi sovrapposte ai resti di insediamenti etruschi d’età arcaica; fu completata l’esplorazione di un potente sedimento tardoantico. Infine, nell’arcipelago di stratificazioni che segna, al margine nord-occidentale del San Luca, l’area più vicina alla Via Romana, affiorò uno scarico con materiali farmaceutici d’età contemporanea, quasi preludio all’ultima, attuale ‘anamorfosi’ dell’area del San Luca.
Il rilievo del complesso delle strutture – in particolare d’età romana – sovrapposto a quello degli edifici del San Luca non segnalava criticità se non in due punti: la sovrapposizione dell’angolo sud-occidentale del corpo centrale dell’ospedale al lacus vinarius; l’incrocio fra la cloaca emissaria della mansio e il corridoio sotterraneo di collegamento del corpo centrale con l’edificio destinato alle attività amministrative (cosiddetto ‘Economale’). Nell’ambito dell’attività autorizzativa affidata dalla normativa vigente pro tempore alla Direzione Regionale per i Beni Culturali, e nel contesto di un progetto complessivo di valorizzazione del patrimonio archeologico dell’area del San Luca, fu disposta la ricollocazione del lacus e del segmento di cloaca, rispettivamente al margine sud-occidentale del complesso, in contiguità dell’eliporto e in prossimità dell’accesso al Pronto Soccorso, e nel cortile interno. La ricollocazione fu messa in atto fra 2011 e 2012, con cantieri affidati rispettivamente alla Cooperativa Archeologia e all’impresa Graziano Nottoli di Lucca. Questa provvedeva infine, con gli archeologi Alessandro Giannoni ed Elena Genovesi, nell’estate del 2011 e poi nell’anno successivo, a concludere lo scavo: il ritrovamento di un sepolcreto dell’VIII secolo a.C. investito dal peristilio della mansio e prima ancora nel III secolo a.C., con il singolare episodio di ‘riuso’ di un pozzetto funerario, l’esplorazione dei relitti di un insediamento d’età ellenistica e del pozzo che alimentava la fontana-ninfeo della mansio, segnavano infine, nell’estate del 2012, la conclusione delle indagini archeologiche, a quasi tre anni dalle prime attività diagnostiche.
Il progetto di valorizzazione era avviato già nel 2010, con le attività sui materiali – affidate a Consuelo Spataro, nel laboratorio che il Comune di Porcari mette a disposizione per l’archeologia della Piana di Lucca, e ad Araxi Mazzoni del Centro di Restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana – che trovavano la prima presentazione nell’autunno del 2011, con la mostra Emersioni. Il nuovo ospedale porta alla luce tremila anni di storia della Piana di Lucca, allestita nella Casermetta del Museo Nazionale di Villa Guinigi in Lucca. Prendeva corpo, già nel 2012, il progetto di un percorso espositivo da allestire nella sala d’ingresso dell’ospedale. La D’Arch Studio s.r.l., con l’architetto Luciano Lucchesi, provvedeva alla progettazione dei contenitori e dei pannelli cui era affidata la sintetica narrazione delle storie emerse dallo scavo, in un percorso a ritroso nel tempo che incontra il visitatore con le testimonianze d’età contemporanea – la ‘discarica del malato’ e le ceramiche di una casa della campagna lucchese fra Otto- e Novecento – e lo conduce sino agli Etruschi dell’Età del Ferro.
Anche le pagine che seguono vogliono raccontare questa storia, senza indulgere all’erudizione, coinvolgendo piuttosto il lettore con ampi spazi per l’illustrazione dei materiali e per la documentazione di scavo – rilievi, fotografie – dovuta all’eccellenza degli archeologi che hanno operato sul cantiere, in un contesto oggettivamente difficile per la sovrapposizione della componente archeologica a quella propriamente edile.
Il coordinamento del Responsabile del Procedimento, ingegnere Gabriele Marchetti, con la collaborazione dell’ingegnere Letizia Caselli, la disponibilità della COSAT, la duttilità degli archeologi hanno permesso di non sottrarre dati alla documentazione, senza determinare particolari problemi per il cronoprogramma dei lavori, con le conseguenze sui costi di realizzazione. L’apparato bibliografico è ridotto all’essenziale, e privilegia di massima materiali disponibili sulla rete, semplicemente avviando sui motori di ricerca, come parole-chiave, i titoli dei contributi. Altre sedi accoglieranno – ci si augura – le severe riflessioni che impone la massa di dati emersa fra l’Arancio e San Filippo, dai villaggi etruschi sui fiumi e dagli  edifici romani, medievali, d’età contemporanea, lungo la strada che portava a Lucca, nel paesaggio oggi segnato – l’ultima ‘anamorfosi’ – dall’Ospedale San Luca.


Giulio Ciampoltrini


 

lunedì 27 ottobre 2014

Viaggio tra Rogio e storia

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La storia della fascia di territorio al confine tra i Comuni di Porcari e Capannori, lungo il Frizzone e il Rogio, in età medievale, moderna e contemporanea, è raccontata da una straordinaria massa di fonti documentarie, spesso arricchite da immagini e cartografie di altissima qualità.
L’area lacupalustre del Lago di Sesto – che trae nome dall’Abbazia di Sesto – raggiunge la sua massima espansione nel secolo XI. I documenti di Porcari degli anni Quaranta di questo secolo segnalano paludi anche a nord di Paganico, con il toponimo Aqualunga. La via Francigena, infatti, non segue l’antico tracciato rettilineo della via pubblica romana, e descrive un ampio arco proprio per evitare l’impegnativo ambiente della palude.
A partire dal XII secolo, per iniziativa degli abitanti del Compitese, inizia un’opera di riconquista che, con alterne vicende di avanzata o di regresso della linea di sponda del lago, si conclude con la bonifica degli anni Cinquanta dell’Ottocento, portando all’attuale assetto del paesaggio. La cartografia dell’Archivio di Stato di Lucca offre immagini di questa storia, che inizia con le ‘mappe catastali’ dei primi del Quattrocento e arriva alle minuziose raffigurazioni del Settecento.




La storia della ricerca archeologica nella Bonifica del Lago di Sesto o Bientina è strettamente legata a quella della bonifica d’età granducale (anni Cinquanta dell’Ottocento), che ancora oggi richiede continue opere di manutenzione.
Proprio in uno di questi lavori, nel 1892, emerse il documento più spettacolare dell’età etrusca: una tomba che impiega come contenitore cinerario un vaso di produzione ateniese con decorazione a figure rosse (Teseo e il Minotauro), ed è provvista di un corredo di oreficerie che ne ribadisce la datazione intorno al 470-460 a.C. Grazie al Comune di Lucca, il complesso venne acquisito alle collezioni civiche della città ed è oggi esposto al Museo Nazionale di Villa Guinigi.
Scavi regolari, tuttavia, vengono condotti solo a partire dal 1981, quando si pose per la prima volta il problema di una tutela dell’area archeologica nel suo complesso. La Soprintendenza per i Beni Archeologici per la Toscana, dopo i saggi di accertamento che portarono al primo ampio provvedimento di tutela (1982), si impegnò per un decennio nelle ricerche sul sito del Chiarone, in Comune di Capannori, che testimonia tutta la storia antica di questo territorio, dal 700 a.C. al 250 circa d.C. I materiali sono esposti al Museo Nazionale di Villa Guinigi.





Le aree archeologiche di Fossa Nera, in Comune di Porcari, furono individuate nelle ricognizione condotte negli anni Settanta ed Ottanta del Novecento. La ricerca fu mirata alle sponde dell’antico percorso dell’Auser, perfettamente leggibile in una marcata depressione spesso allagata.
Lo scavo, finanziato dal Comune di Porcari, ha portato alla luce un complesso produttivo eretto nel II secolo a.C. e più volte ristrutturato, fino all’abbandono intorno al 250 d.C. L’edificio era stato fondato in un’area già occupata dagli Etruschi nel V secolo a.C.
Il complesso di Fossa Nera A è un esempio ‘da manuale’ di domus (casa) adattata alle esigenze della vita agricola. Dall’ingresso (fauces) si accede ad un’area scoperta centrale (atrium) che prospetta il ‘cuore’ della vita di relazione dell’abitazione (tablinum) e gli ambienti residenziali (cubicula). Un ambiente è dotato di una particolare pavimentazione che lo rende disponibile all’attività di vinificazione (calcatorium e lacus). Il complesso disposto a sud del corpo centrale riusale ad una ristrutturazione d’età imperiale ed aveva destinazione produttiva – forse come ‘magazzino’ – o a deposito di attrezzi agricoli e bestiame



L’attività di ricognizione e di recupero condotta a Fossa Nera da Augusto Andreotti ha permesso di recuperare, in scarichi di terreno rimossi nel corso degli anni Settanta del Novecento, una massa di materiali che ha consentito di ricostruire il ‘volto’ di un insediamento fiorito intorno al 1200 a.C.
Prima ancora del sistema di insediamenti etrusco, vissuto con fasi alterne dal 750 al 450 a.C., le sponde dei rami sepolti dell’Auser avevano visto già intorno al 1500 a.C. la formazione di abitati ben strutturati, entro aree assistite da fossati, come hanno rivelato gli scavi condotti nel 1995 durante la realizzazione del metanodotto nella località del Palazzaccio, sulla destra del Rogio, in Comune di Capannori.
L’abitato detto ‘di Fossa Nera’ è strettamente legato alla cultura detta ‘terramaricola’ della Pianura Padana occidentale. Si può addirittura supporre che sia stato fondatro da ‘coloni’ provenienti da questo distretto. Ceramiche, bronzi, ambre tratteggiano – nella perdita di tutti i dati stratigrafici – la vita di una comunità attiva sulle vie che dalla Toscana raggiungono l’Emilia, e che scompare nella drammataica ‘crisi del 1200 a.C.’.



Il complesso di Fossa Nera B è il vero e proprio ‘gemello’ di Fossa Nera A, costruito sull’opposta riva dell’Auser: Lo scavo fu voluto e finanziato dal Comune di Porcari e dalla Provincia di Lucca, e si concluse nel 2006 con un’impegnativa opera di consolidamento delle strutture messe in luce.
Come per Fossa Nera A, la storia di Fossa Nera B inizia con la fondazione negli anni della deduzione della colonia di diritto ‘latino’ di Lucca, nel 180 a.C., e si esaurisce con le effimere rioccupazioni del III secolo d.C.
Il cuore dell’edificio è ancora una volta una tipica domus tardorepubblicana, riconoscibile anche sotto la ristrutturazione del I secolo d.C. quando venne anche provvista di adeguate pavimentazioni. La presenza di un angusto vano probabilmente occupato da una scala dovrebbe confermare – assieme allo spessore delle pareti – la presenza di un piano sopraelevato. Gli ambienti residenziali sono integrati in un circuito produttivo che occupa l’intero settore meridionale, con strutture per la vinificazione, la produzione del formaggio e forse dell’olio (con un torcular), disposte intorno ad un vasto cortile, cui si accede da un portone.



L’area residenziale di Fossa Nera B, composta da ambienti in cui è possibile riconoscere il tablinum, posto in asse con l’atrium, una serie di cubicula e – forse – la cucina, ha conservato lembi di pavimentazioni che testimoniano l’adattamento ad un edificio rurale delle tipologie tipiche degli edifici di tono ‘medio’.
In particolare, la pavimentazione in terra battuta dell’atrium, con scaglie e ciottoli policromi disposti secondo un ordito irregolare, emula i pavimenti in tessellato (mosaico) o in battuto cementizio con inserti lapidei policromi, che sono conosciuti anche in edifici urbani di Lucca, e sono in uso dagli inizi del I secolo a.C. fino all’avanzato I secolo d.C.



Una particolare tipologia di pavimentazione è quella detta ‘a commesso laterizio’, che nelle realizzazioni canoniche vede l’impiego di ‘mattonelle’ fittili, di forma geometrica regolare (di solito rombi o esagoni). A Fossa Nera B l’estesa pavimentazione in laterizi – che è stata interrata per esigenze di conservazione – composta da frammenti di tegole, opportunamente ritagliate in ‘tessere’ di forma quadrangolare, come accade anche in altri contesti rurali, realizza il ‘commesso laterizio’ con materiale ottenuto da macerie.




Il Decreto Ministeriale del 3 giugno 1997 che incluse l’area archeologica dell’ex lago di Bientina/Sesto fra le “zone archeologiche” tutelate nella doppia valenza, archeologica e paesaggistica, è uno strumento di salvaguardia per la piana – compresa fra il Monte Pisano, le Cerbaie, l’Autostrada Firenze-Mare – che conserva estesi lembi della rete di paleoalvei del ramo di sinistra dell’Auser/Serchio. La millenaria ‘protezione’ assicurata dalle acque del lago ha permesso a queste testimonianze del paesaggio di giungere sino ai nostri giorni in eccellente stato di conservazione.
Fotografie aeree e satellitari e lo stesso profilo del terreno, con le accentuate depressioni corrispondenti agli alvei fluviali – spesso soggette ad allagamenti – ricompongono infatti il tracciato dell’Auser in età etrusca e romana, prima che le crisi ecologiche dellaTarda Antichità e dell’Alto Medioevo portassero alla formazione del lago, con il caratteristico aspetto palustre ai margini.
Sulle rive del fiume, per più di un millennio, fiorirono insediamenti che sono una preziosa testimonianza della vita rurale d’età etrusca e romana nella Toscana nord-occidentale. Assieme ai resti degli abitati sono conservate anche strutture del paesaggio, come la via etrusca del Botronchio di Orentano, realizzata con un terrapieno e palificazioni.
Dopo che più di un trentennio di scavi – dai primi saggi del 1981 alle indagini del 2012-3 nel Botronchio – ha permesso di ritrovare molte pagine di queste storie sepolte, lo strumento di tutela si propone lo scopo di conservare i resti del paesaggio antico, nell’intreccio fra insediamenti, manufatti stradali e alvei fluviali, all’interno di ambiente strutturato dalla bonifica del XVIII e del XIX secolo. Boschi planiziali di rinnovata vitalità e aree soggette ad impaludamento stagionale, che ospitano flora e fauna sempre più vivaci, completano un paesaggio in cui convivono i segni di quasi tremila anni di storia di una pianura interna della Toscana settentrionale.


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