La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

giovedì 30 giugno 2016

Storie di mura e di tutela: trentacinque anni in un'ellisse (in die Archexitus)







Per chi vada a Lucca, per lavoro per studio per curiosità, l’anfiteatro è punto di riferimento itinerario irrinunciabile – seppur non necessariamente da attraversare – nel fervore turistico dei giorni di primavera e d’estate o nelle fascinose solitudini dell’inverno, soprattutto quando piove. Se si percorre Via Fillungo, nel tratto in cui si dilata nella scenografia di Piazza degli Scalpellini, o da Piazza San Pietro Somaldi ci si avventura nel groviglio di strade che in Via del Portico trova come prospetto la più limpida immagine della veste antica del monumento, è difficile eludere la suggestione di deviare per un attimo, raggiungere l’antica arena, riprendere il percorso per i corridoi voltati progettati dal Nottolini, ma non dissimili da quelli che s’immagina facessero entrare nello spazio dei gladiatori e delle belve.
A maggior ragione, per chi ha frequentato la città per trentacinque anni con l’incarico di tutelarne il patrimonio archeologico l’anfiteatro è il focus – come si dice oggi – del suo impegno: l’ordito bicromo della facciata, i tamponamenti degli archi sono un continuo memento della storia della città, e il testimone più eloquente, assieme ai meno frequentati resti del teatro, delle memorie sepolte che sono l’oggetto del suo lavoro. Incarico non semplice, spesso ricco di momenti conflittuali, nei remoti anni Ottanta; poi più agevole, favorito da nuove norme e nuova attenzione nella società, ma sempre impegnativo, per l’inevitabile opportunità di mediare fra diverse esigenze.
La storia del monumento, del resto, è metafora suprema di queste ‘mediazioni’ fra l’antico e ciò che di volta in volta era contemporaneo. Le strutture antiche sono generosamente sopravvissute non perché vetustatum vestigia, come scriveva Ciriaco d’Ancona, ma facendole dapprima rivivere nella lenta metamorfosi del Parlascio medievale – case negozi e pittoreschi orti nell’antica arena; poi con l’innovazione neoclassica. Il volto ottocentesco di Lucca, frutto degli sventramenti napoleonico-baciocchiani, e delle sottili, continue imprese di edilizia pubblica di Maria Luisa di Borbone e dell’inquieto figlio Carlo Ludovico, accortamente gestite del marchese Antonio Mazzarosa, in simbiosi fra antica aristocrazia cittadina e nuova dinastia regnante, trova nella palingenesi dell’antica arena come luogo del mercato il punto più luminoso. L’opera del Duca e del Nottolini, con la regia del Mazzarosa, genera un’immagine che per certi aspetti potremmo dire anamorfica: illusione di antico, sostanza neoclassica. L’arena rivive come Piazza del Mercato, in realtà come straordinaria quinta scenica per la rappresentazione della società della Restaurazione.
Occorreva scendere – non molte volte, a dire il vero, per i trentacinque anni di cui si tratta – nel sottosuolo dell’anello, per recuperarne pienamente l’immagine romana. Paolo Sommella e Cairoli Fulvio Giuliani avevano dotato chi si sarebbe dovuto occupare delle antichità di Lucca di un vademecum fondamentale; certo da apprezzare ancor di più alternando queste pagine con quelle degli eruditi e degli antiquari lucchesi della stagione che va da Daniello de’ Nobili al Beverini, a Libertà Moriconi e a Vincenzo Marchiò, espressione di una cultura cittadina che forse meriterebbe maggiore simpatia nella società contemporanea. Ma nessuno di loro, sembra, ha avuto neppure la modesta gloria del nome di una strada, in una sfortuna non di genere, se è condivisa anche da Gentucca che tanto Dante amava; e lo stesso Michele Ridolfi dovette attendere sessant’anni, e l’impegno del figlio, perché si sapesse del suo lavoro di archeologo – benignamente favorito dalla Duchessa – nell’anfiteatro.
L’attività condotta nell’istituzione deputata alla tutela del patrimonio archeologico della Toscana – variamente denominata in questo terzo di secolo – ha avuto più esito d’immagine, se è stato possibile presentare almeno i risultati più significativi dell’opera di tutela, e di un mirabile intervento di restauro conservativo e innovativo (forse la pagina più limpida dal 1839) nell’Oratorio dei Santi Giorgio e Zita (ciampoltrini 1992 a; ciampoltrini 1993; Cronaca di un restauro 1993). I dati acquisiti nel prosieguo degli anni, fino alle spettacolari immagini dei lavori del 2003 nel cuneo 15 della classificazione Sommella-Giuliani (figg. 1-2), poco sembravano aggiungere a quanto già si era proposto, collocando i monumenti ricomposti dai due maestri di topografia antica nella dinamica urbana lucchese, d’età romana e medievale, che emergeva sempre più nitidamente da infiniti interventi di tutela preventiva e contestuale.
È stata l’occasione di una conferenza tenuta per i giovani aspiranti architetti dell’Università di Firenze, nel maggio 2016, mentre la Soprintendenza stava per chiudere e con questa un ciclo che si può serenamente definire storico nell’archeologia della Toscana, a suggerire l’opportunità di raccogliere in un’unica, snella sede, immagini e pagine accumulate in tanti anni. Riflessioni dell’avanzata maturità, quando – dopo averne apprezzato il rigore di metodo – si hanno solidi motivi per contemperare lo spirito antiquario del Ridolfi con la genialità di chi riuscì a creare immagini nuove dall’aspetto di antico; e si hanno, allo stesso tempo, non meno valide ragioni per comprendere e spesso condividere le passioni di chi crede nei nuovi metodi e nella nuova stagione dell’archeologia.
Per la memoria, vivida sin nei dettagli, dei primavera del 1981, quando anche un fresco ritrovamento proprio nell’area dell’anfiteatro contribuiva a convincere chi scrive alla sfida dell’impegno nella Soprintendenza, e per la generazione degli archeologi che in quegli anni nasceva, e anche nell’anfiteatro ha trovato campo per applicare il suo metodo, sono stese queste pagine.

lunedì 6 giugno 2016

Archeologia preventiva a Lucca, estate 1819


Un rilievo, saggi mirati, un progetto, la Duchessa (Maria Luisa, poi il Duca, il povero Carlo Ludovico), il Marchese (Amtonio Mazzarosa, nato Mansi), un Architetto (Lorenzo Nottolini). E un giovine pittore fra il Romantico e il Neoclassico, per fare archeologia preventiva, Lucca 1819, narrata nelle pagine del figlio, alle stampe sessant'anni dopoperché gli scavi, si sa, son spesso destinati all'inedito. L'anello antico chiuso su orti e susini diviene quinta scenica per recite dell'eleganza del potere restaurato (o meglio, innovato).
Le Cinque Relazioni di Michele Ridolfi, curate dal figlio, pagine per l'archeologia di Toscana d'età neoclassica e lezioni di metodo ...


«Fino d’allorquando la Dinastia, che ci governa, prese il reggimento di questa antichissima terra, e che Maria Luisa, di grata e gloriosa ricordanza, ascoltò le mie istanze a favore dei nostri monumenti delle belle arti, così allora negletti, io mi feci sollecito a raccomandarle l’antico Anfiteatro, come un edifizio che dà a vedere esser noi stati altra volta un popolo di qualche rinomanza in Italia; e ciò feci con una mia Relazione che inviai a quella Sovrana, col mezzo del Direttore del suo intimo Gabinetto, il cavalier avvocato Jacopo Paoli, sotto il giorno due del mese di luglio, dell’anno 1819.

«... Parlerò dunque a Vostra Maestà dell’Anfiteatro, del quale rimangono ancora alcuni maestosi avanzi, e vi supplicherò a far fare attorno ad esso dei ben diretti scavi, a fine di rintracciare più giustamente, che fin ora non fu fatto, la pianta di quell’edifizio e rintracciata che sia, commetterne al regio Architetto un esatto disegno che faccia fede ai lontani ed ai posteri delle nostre antiche glorie, e insieme della munificenza di Vostra Meastà e dell’amore che nutre per questa sua nuova dominazione.

Si avvalora anche di più la probabilità che il moderno nostro Anfiteatro sia del tempo de’ Cesari, da alcune medaglie che furono ritrovate in uno scavo fatto in addietro per costruire un pozzo nelle case dei signori Barsotti; delle quali n’ebbe alcune anche il pittore Pietro Paolini nostro. Tali medaglie portavano l’effigie ed il nome di Druso Germanico, fratello di Tiberio; e se fossero state ivi poste per indicarne il tempo, in cui fu fatto quel monumento, esso risalirebbe circa all’anno 39 dell’Era Nostra.

Comunque sia, o Maestà, il nostro Anfiteatro è un monumento che fa fede della civiltà dei nostri padri; e quantunque barbaramente mutilato in tempi d’ignoranza, pure vi rimane ancora tanto da prenderne un esatto disegno, specialmente nella sua pianta e nel suo spaccato, ed è cosa sicuramente degna della vostra munificenza reale l’occuparvene con premura. Converrebbe perciò che Vostra Maestà desse gli ordini opportuni, perché sotto la direzione di persona intelligente ed attiva fossero fatti alcuni scavi in varie direzioni, tanto nell’interno, quanto all’esterno di quell’edifizio, alfine di determinare con la massima precisione gli spazii che occupavano, l’arena, il podio le gradinate, gli ambulacri, le logge esterne, non che gli scalini, per i quali si doveva ascendere a quell’edifizio.
Ho creduto dovere di buon cittadino amante della patria sua, e di buon suddito di Vostra Maestà, di farle conoscere questi miei desiderii, i quali son certo che la Maestà Vostra si degnerà di appagare».
Non erano ancora decorse ventiquattro ore da che io aveva presentata a Sua Maestà questa Relazione, che con lettera di Gabinetto, sottoscritta da Alessandro Bossi, Intimo Segretario, mi si déette a conoscere essere precisa volontà della Duchessa che si facessero immeditamente gli scavi indicati, e che s’incaricava me di dirigerli e sorvegliarli.
A quell’annuncio rimasi veramente alquanto costernato, per timore di non ben riescire nell’impresa che io stesso aveva promossa e sollecitata. Ciò non ostante, siccome mio dovere era l’ubbidire, così mi accinsi con alacrità all’opera; ed avendo lo staffiere Pieruccetti (designato come assistente) messo a mia disposizione una quantità di manovali, incominciai uno scavo nel centro di quell’Anfiteatro nella direzione dell’ingresso, cioè da Levante a Ponente. Fu subito giudicato dal volgo che io volessi ricercar dei tesori, i quali dicevansi nascosti in quell’Anfiteatro, ed ebbi da esso il diploma di negromante; titolo che veniva anche accreditato dalla mia lunga capellatura e dall foggia dell’abito nero ch’io allora indossava tornando di Roma. Né mancò già chi prendendo la cosa sul serio mi portasse le simpatiche palle, per trovare mediante un’alchimia tradizionale il luogo, ove il tesoro stava nascosto! E il tesoro vi era veramente; ma ben diverso da quello che il volgo immaginava; imperocché dalle mie cinque Relazioni fatte alla Duchessa nostra su quel monumento risulta il frutto di quelle scavazioni; e il disegno della pianta che a mia istanza la Duchessa ordinò al regio Architetto, e che tanto poi giovò alla costruzione della nuova Piazza, è una prova di ciò che dico.
Colla prima Relazione, adunque, che porta la data del 7 di luglio del 1819, si faceva da me conoscere aSua Maestà che la prima escavazione, di circa venti braccia in lunghezza e due in larghezza [11,8 x 1,2 m], aveva avuto poco buon successo, attesoché alla profondità di circa quattro braccia [2,36 m] si trovasse l’acqua, e perciò non si potesse proseguire altrimenti lo scavo in quella direzione. Proposi per tanto di fare un altro scavo nella stessa arena, ma in prossimità del podio; e ciò al fine di trovar l’antico piano, e la distanza del podio medesimo dalle gradinate.
Dalla seconda Relazione mia, che è del 10 luglio dello stesso anno, si rileva che lo scavo da me proposto e da Sua Maestà approvato, ebbe un ottimo successo, giacché si poté approfondare sino alle quattro braccia e due terzi [2,74 m] senza che l’acqua venisse ad interrompere i nostri lavori. Si narrava in quella Relazione, come alla profodnità di due braccia dal piano presente [1,2 m] fu trovata una vòlta di mattoni, al di sotto della quale circa un braccio un’altra se ne rinvenne egualmente di mattoni. Questa seconda vòlta era costruita insieme col monumento; non così la prima. Aveva essa tre braccia di larghezza [1,77 m] e tre di profondità, ed erea fondata su uno strato di calce, ghiaia e pozzolana, posta ad eguali distanze, ed interrotta ogni tanto da un grosso muro che tutta la chiudeva, a riserva di alcuni piccoli pertugi lascaitivi per servire allo scolo delle acque. Queste vòlte erano probabilmente fatte per sostenere il ripiano o ambulacro, sul quale posava il primo sedile delle gradinate e dalla parte interna sorreggevano naturalmente il parapetto del podio.
Del giorno 15 Luglio era la terza Relazione: con questa io faceva conoscere alla Duchessa, che le mie congetture sulla vòlta di mattoni poco innanzi scoperta eransi verificate, giacché in alcuni punti vedevansi ancora intatti gli ambulacri. Non rimaneva dunque che trovare il piano dell’arena, e questo ancora fu fatto; imperocché con scavo fatto a bella posta si verificò che esso era quattro braccia e due terzi [2,74 m] sotto il piano presente; piano, composto egualmente dell’altro, di ghiaia, pozzolana e calcistruzzo. Rintracciato così ciò che spettava alla parte interna di quel monumento, chiesi di poter visitare la parte esterna, ed intanto pregai s’incaricasse il regio Architetto di disegnare la sua pianta, giacché con gli scavi fatti e con quelli che sarei per fare, si poteva ritrarre esattamente. Queste mie istanze vennero nel medesimo giorno secondate.
Con la quarta Relazione, che è del 24 di luglio, faceva conoscere a Sua Maestà come le escavazioni fatte al di fuori dell’Anfiteatro fossero state coronate dal più felice successo. Avendo io fatto fare un grandioso scavo precisamente incontro al principale ingresso dell’Anfiteatro medesimo, potei vedere fino al basamento loro i due pilastri che sorreggono l’arco d’ingresso: i quali avevano le basi dell’altezza di oncie otto lucchesi [0,39 m], situate auattro braccia e mezzo [2,65 m] al di sotto del piano presente. A livello di quel basamento trovai il solito smalto di ghiaia, pozzolana e calce, il quale, essendo ben battuto, pensai servisse di pavimento al portico esteriore che girava intorno all’Anfiteatro. Avendo poi fatto prolungare quello scavo nell’interno del Circo, aveva rinvenuto ivi pure la solita vòlta di mattoni, e alla base di essa il solito smalto, alla solita profondità. Dava pur conto in questa Relazione della venuta dell’Architetto regio, il quale, dopo aver bene esaminati i saggi d’escavazione da me fatti, si era accinto alla misurazione del monumento, da cui erano risultati i dati seguenti:
Che l’asse maggiore è di braccia lucchesi 206.6 [121,93 m];
L’asse minore esterno di braccia 160.7 [81,87 m];
L’asse maggiore interno di braccia 133.5 [78,79 m];
L’asse minore interno di braccia 89 [52,55 m];
Il perimetro esterno di braccia 504 [297,61 m];
L’altezza degli archi del prim’ordine di braccia 12.2 [7,18 m];
La larghezza degli archi di braccia 6.9 [3,98 m];
Quella de’ due agli estremi dell’asse maggiore di braccia 8.4 [4,91 m].
Diceva poi l’opinione mia esser questa: che le gradinate andassero composte di venti sedili, e che sopra di essi non vi fossero logge, ma solo un parapetto per impedire la caduta degli spettatori; che le arcate o logge esteriori fossero a due ordini, composte di cinquantaquattro arcate per oridne. Concludeva però che, per accertarsi se veramente queste logge vi fossero state e di quale larghezza fossero, conveniva fare un altro scavo nella piccola piazza che è a settentrione del monumento. Rimetteva intanto a Sua Maestà un numero di monete di rame, tutte appartenenti agl’Imperadoi, trovate in quelli scavi. L’approvazione di quest’ultima proposta non si fece aspettare, ed io potei subito intraprenderne l’esecuzione.
Con quinta ed ultima Relazione, del 29 di luglio, dètti esatto conto di questo scavo che portò la verificazione delle logge esteriori, giacché lo smalto che gira ll’intorno è largo braccia 7 [4,13 m] ed ivi comincia un primo gradino, poi un secondo ed un terzo, tutti tre dell’altezza di once 4 di braccio [0,19 m]. Io pensai allora, come penso anche adesso, che quel paviemnto non fosse coperto né di pietre né dei mattoni, ma fosse lasciato di solo smalto; giacché questo è talmente duro, che né gli scarpelli, né il palo di ferro potettero aprirsi una via in quel fortissimo cemento. Da queste Relazioni adunque si vede come io mi adoperassi, perché fosse lasciata ai nostri più tardi nepoti un’esatta decsrizione ed un’esatta pianta di quel monuemnto, unico che rimanga oggi a noi Lucchesi dei tempi romani: se si eccettuino le terme di Massaciuccoli, di cui altra volta avrò forse l’onore di intrattenervi, giacché di esse pure mi dètti non poco pensiero».

 

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