La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

martedì 24 luglio 2012

Le finezze elleniche della Murella




Il rosso in nero delle tavole di Furtwängler e Reichhold, per dar vita ai frammenti di kylikes attiche della Murella, e di skyphoi dei loro emuli etruschi. Usi ellenici del bere, per i severi Etruschi del crocevia dei fiumi della Garfagnana, degni del komos delle figure rosse dei primi del V secolo, i loro stessi anni, pur senza le frenesie dell'eros ellenico scatenato dal vino (si presume).
E tocchi di vita, mediati dal severo sapere dei dotti germanici fra Otto- e Novecento, per ricomporre i frammenti finiti sul pendio che guarda il Serchio, dopo viaggi interminabili per acqua di mare e acqua di fiume, associati ai fratelli etruschi ancora sulle ultime tappe del mare.
Si continua, per le fatiche di Paole e Silvio, ora affaticati sulle lettere, dopo aver faticato con minor affanno nelle gioie della neve e del sole.

giovedì 19 luglio 2012

Storie di monache e di crespine

Finissime gioie del compendiario, tratti rapidi sottili nervosi sicuri, come si suol dire, pochi colori nella tavolozza, che sembrano infiniti, e il blu su bianco velato dai secoli. Ragionar delle monache di Santa Giustina di Lucca, con amiche e altro, per tele con storie ritrovate, boccali ricostruiti con fatiche sfinenti, per raccontare nel monastero chiuso all'angolo delle mura dei viaggi nel mondo.
E l'inquietante putto, di Faenza o chissaddove, con il sorriso ambiguo, protobarocco, per le monache, per viaggi nella vita che le mura del convento negavano, come sui galeoni delle Indie che Silvia ricuce e Alessia rinsalda.
Si continua, si continua, con le monache che sognavano nel vino contenuto nei galeoni le storie che il puttino compendiario, tutto da studiare, salvato da un mucchio di terra marzo del '91, racconterà a chi vorrà cercarlo.

lunedì 16 luglio 2012

La notte del Tesoro del Lago, fra l'Arno e le Cerbaie (e oltre)






La premessa

La storia medievale del territorio che oggi forma il Comune di Castelfranco di Sotto non è narrata solo dai documenti che sin dal secolo VIII permettono di seguire le vicende dei villaggi vissuti fra Arno e Arme/Usciana o sulle Cerbaie che guardano la piana che oggi è la Bonifica del Bientina, e fu Lago di Sesto o Bientina fino al 1859: la vivacità delle curtes sull’Arno, con le chiese che ne corroborarono il ruolo di ‘nodi’ dell’insediamento, fra XI e XII secolo, fino alla nascita di Castelfranco, nel 1252/1253, o la formazione dei castelli di Orentano e Montefalconi, possono essere seguite anche nelle tracce lasciate nel suolo, che una paziente ricerca archeologica ha riconosciuto e ricomposto sin dagli anni Settanta del secolo scorso, e che – grazie all’attenzione che da quegli anni gli amministratori del Comune di Castelfranco dedicano all’archeologia – possono essere agevolmente seguite nella sintesi affidata a due volumetti (Ciampoltrini – Manfredini 2007; Ciampoltrini – Manfredini 2010), reperibili anche sul web.
Nonostante le ultime stagioni non siano fra le più felici per l’archeologia, la normativa di legge e la passione di tanti per i segni del passato consentono continui incrementi nella conoscenza, grazie anche all’affinarsi della strategia di ‘tutela preventiva’ sui lavori pubblici, sempre più imperdibili occasioni per individuare e investigare le testimonianze sepolte nella terra, talvolta prevedibili, talora del tutto insospettate.
Nel 2011, in questo modo, è stato possibile aggiungere alle storie dei villaggi vissuti sull’Arno nei secoli centrali del Medioevo due nuovi capitoli, raccontati dai saggi aperti alla Scafa di Pontedera per mettere in rete nuovi pozzi, e dalle indagini a Sant’Andrea di Santa Croce sull’Arno, imposte dal ritrovamento di stratificazioni d’età arcaica e medievale nelle trincee per un metanodotto. In entrambi i casi, la generosità e la disponibilità degli enti che realizzavano le opere (Acque S.p.A. e Snam Rete Gas S.p.A.) hanno fatto sì che il ritrovamento casuale, controllato dagli archeologi che provvedevano a documentare le sezioni delle trincee, divenisse una regolare campagna di scavi.
Infine, alla periferia di Lucca, sempre fra 2010 e 2011, lo scavo dell’area della dismessa Officina del Gas di San Concordio rivelava non solo le affascinanti vestigia dell’impianto industriale ottocentesco, ma anche i documenti materiali del porto della Formica, sepolto negli anni di passaggio fra Ottocento e Novecento, e del suo precedente medievale. Si completava in questo modo la ricomposizione di una via d’acqua del Medioevo toscano ben nota dai documenti, ma dimenticata nella sua concreta articolazione: dall’Arno, passando davanti alle mura del castello di Bientina, raggiungendo il lago e poi per una rete di fossi, fra Duecento e Trecento era possibile arrivare sino alle porte di Lucca.
In questo contesto le testimonianze archeologiche del Medioevo che la passione di Augusto Andreotti aveva riconosciuto al piede delle Cerbaie, nel territorio di Orentano, mettendo in luce un insediamento probabilmente di carattere portuale, al Rio Moro, ed una fornace, trovavano nuovo e più corposo spessore.
A queste si era aggiunto, da poco, un ritrovamento singolare, soprattutto per la sua storia.
Ancora Augusto Andreotti, nelle cose di famiglia, ritrovava un gruzzolo di monete che, opportunamente restaurate nei laboratori del Centro di Restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, sotto il coordinamento di Roberto Bonaiuti, confermavano le osservazioni che era stato possibile avanzare a prima vista: si trattava di un complesso di denari lucchesi e pisani del XIII secolo, che veniva affidato alla ricerca di Andrea Saccocci, da tempo prezioso punto di riferimento per la numismatica medievale del territorio di Lucca e di Pisa. Le indagini nella tradizione familiare permettevano ad Augusto di risalire alla data del ritrovamento e al suo autore: Domenico Buoncristiani (detto il Domeniini), cognato della sorella Marcella, coltivando la terra di sua proprietà nella bonifica di Orentano, ai piedi della chiesa che ha preso il posto dell’antico castello, agli inizi del Novecento lo aveva ritrovato in un sacchetto in pelle. Il complesso era stato conservato fra le cose di famiglia, pressoché inosservato, fino a che non era giunto nell’attenzione di Augusto.
Forse indulgendo alle esigenze della comunicazione, si è denominato il gruzzolo emerso al piede di Orentano ‘Il Tesoro del Lago’. Su questa definizione l’accademia avrà di certo da esprimere giudizi superciliosi, ma è sembrato opportuno un titolo di immediata evidenza, se si ritiene che – come chi scrive è convinto – solo il coinvolgimento di ‘non addetti ai lavori’ possa assicurare alla tutela e alla promozione di un patrimonio archeologico che raramente è di facile lettura, il sostegno che deriva dalla sua immediata comprensibilità.
Infine, giacché chi scrive è altrettanto convinto che sia indispensabile ricomporre il ‘contesto’ dei singoli dati, integrando le varie fonti disponibili, il ‘Tesoro del Lago’ è stato presentato negli scenari duecenteschi che indagine di scavo, evidenza documentaria e dati storici propongono: i paesaggi di vie d’acqua del Valdarno che già Maria Luisa Ceccarelli Lemut e Gabriella Garzella, con la compianta Rosanna Pescaglini, hanno delineato dai dati documentari, e ai quali è possibile aggiungere finalmente anche il contributo dell’archeologia; i paesaggi del lago-padule di Sesto o Bientina, come risaltano dal dato archeologico visto nella luce della spettacolare documentazione cartografica ed iconografica dell’Archivio di Stato di Lucca e – ancora – delle fonti documentarie.
Il colore delle immagini e la ricchezza dell’apparato documentario non sono, nell’opinione di chi scrive, orpello da imbonitori: sono strumenti che progresso delle tecnologie editoriali e moltiplicazione degli accessi che la rete di comunicazione del web propone, mettono a disposizione di chi pratica l’archeologia non per l’apprezzamento degli ‘addetti ai lavori’, ma per il pubblico appassionato che è il vero punto di forza di chi lavora per la tutela.

Giulio Ciampoltrini

domenica 8 luglio 2012

Il fascino delicato delle Notti dell'Archeologia, a Montopoli (in Val d'Arno)


Sono stanche le Notti dell'Archeologia, come quando il fulgore della bellezza, maturando, si apre in rughe delicate. Ma la Notte che il castello del Valdarno che guarda anche verso l'Egola e l'Era ci regala, per virtù della tenace Sindachessa, capace di sostenere un'ora di flusso di parole sul Bronzo Finale e un po' di sproloqui protosenili, e della Direttrice amante del pdf, i tocchi morbidi del tramonto d'estate alleggerito dal vento che riesce a risalire, per un po', le smunte acque del torrente Vaghera, splendido nome etrusco (mah!).
Son come il castello ora senza mura che le celebra, in competizione con un matrimonio illeggiadrito dai colori del laterizio della pieve, le Notti di Montopoli, quando si attende la notte: sobrie e severe come le facciate dei palazzi cinquecenteschi di un'aristocrazia di provincia fiera dell'insegna araldica e della pietra che ne segna i volumi. Sapori di Controriforma in colori oscuri, ma che sono chiari come i toni delle tele volute dai Pontanari di Castelfranco per la cappella in San Romano, la Vergine Lauretana del Valdarno.
Parole e parole, fra entusiasmi rivissuti trent'anni dopo e per trent'anni, e ora ogni giorno potrebbero affievolirsi, un tocco di nuove generazioni, con le domande intelligenti e inquietanti di giovani archeologhe, le attese di aspiranti archeologi.
Monte Formino, il Bronzo Finale finito nel fossato con le anse a testa di cobra, è un po' più in là, sull'altro crinale, mentre le olive attendono di rinnovare la loro pienezza.
Per questa sera la voce della cantante che si diffonde verso l'Arno, nella quiete del castello or senza mura, acquieta gli amici convenuti, con lo spuntino che prepara la Notte.

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