La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

domenica 24 giugno 2012

I giorni di Monte Formino per le Notti dell'Archeologia








Giulio Ciampoltrini – Roggero Manfredini

La collina delle anse a testa di cobra.
Monte Formino e il Valdarno Inferiore sul finire del II millennio a.C.

Quindici anni dopo la memorabile mostra ideata e realizzata a Livorno da Alessandro Zanini sulla Toscana centro-occidentale nel II millennio a.C. (Dal Bronzo al Ferro), lo scenario che veniva proposto in quella sede non si è particolarmente arricchito, almeno per quel che riguarda la pianura solcata dall’Arno e dai suoi affluenti ancora attivi (l’Era e l’Usciana) o perduti con le bonifiche granducali (il ramo dell’Auser-Serchio che oggi sottopassa l’Arno con la Botte lorenese): la ‘Terra dei Quattro Fiumi’, come si è proposto di definirla. O per l’affievolirsi della ricerca, o perché ciò che è venuto in luce negli ultimi anni rimane inedito, l’evoluzione del sistema di insediamenti negli ultimi secoli del II millennio a.C. che corrispondono, nella sequenza culturale, al Bronzo Recente e al Bronzo Finale, deve essere ancora delineata in base ai contesti che vennero presentati a Livorno. Anche le ricerche condotte nel territorio ‘fra le Cerbaie e l’Auser’, nella piana oggi bonificata del Lago di Bientina, per uno dei rari interventi programmati e finanziati dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana in località Ai Cavi di Orentano, nel 2006, e con lavori connessi ad attività del Consorzio di Bonifica Auser-Bientina, fra 2007 e 2008, nell’area di Fossa Cinque di Bientina, hanno arricchito e articolato le testimonianze di abitati già conosciuti e presentati nella mostra livornese, ma non hanno comportato revisioni significative della sequenza che vi era prospettata (fig. 1).
Acquista dunque un particolare interesse Monte Formino, la collina che, appena oltre l’odierno confine tra i Comuni di Montopoli in Val d’Arno e Palaia, nel territorio della seconda, domina un itinerario di crinale (fig. 2) oggi recuperato dopo trent’anni di abbandono per rendere accessibili agriturismi e case coloniche rinnovate come case-vacanze, ma che aveva tradizionalmente avuto un ruolo strategico fondamentale per raccordare alla piana dell’Arno i distretti della Valdera che fanno capo all’acropoli di Palaia. Il secolare rapporto fra Marti e Palaia, perduto con la revisione dei confini comunali degli anni Venti del Novecento, era strutturato da questa via.
Una fortunata ricognizione condotta dal Gruppo Archeologico ‘Isidoro Falchi’ di Montopoli aveva permesso di recuperare qualche frammento ceramico genericamente riconducibile all’Età del Bronzo, ma è stato l’impegno dell’ormai maturo volontariato dell’intero Valdarno e della Valdinievole, ancora con i membri del Gruppo ‘Isidoro Falchi’, e poi con Augusto Andreotti, Enrico Pieri, coordinati da Roggero Manfredini, a trasformare – fra l’inverno 2010 e l’estate 2011 – un sondaggio che mirava solo a valutare il potenziale stratigrafico dell’area di affioramento delle ceramiche in un vero e proprio saggio (fig. 3) che, pur nelle dimensioni contenute imposte dall’esigenza di salvaguardare le colture, ha permesso di acquisire preziose testimonianze di un abitato del Bronzo Finale del Valdarno Inferiore. La generosa disponibilità del proprietario del terreno, il sig. Adriano Bartoli, è stata essenziale per il buon esito della ricerca.
La complessità della sequenza stratigrafica e lo stato di avanzamento, assolutamente iniziale, della ricerca sui materiali impongono un’estrema prudenza nella presentazione dei dati di Monte Formino, ma – ad oggi – si dovrebbe argomentare che lo scavo ha portato in luce una concavità orientata grossolanamente est-ovest, aperta al piede della collina, dove il rilievo si distende in un ampio pianoro percorso, appena a occidente, dalla via da Marti a Palaia, spesso realizzata in trincee o tagli della collina. La concavità era stata colmata, progressivamente, da sedimenti antropici anche assai ricchi di materiale ceramico, talora in frammenti contigui o spezzati in situ, frammisti a schegge informi di una pietra calcarea autoctona (fig. 4); i livelli superiori erano di sabbia, pressoché identica a quella del suolo in cui la concavità era stata aperta. Spettacolare indice dalla formazione dei sedimenti, e dei livelli di calpestio originari, una mandibola di cervide, disposta di piatto su un livello di vita, presto sepolta sotto la sabbia di dilavamento.
Un fossato aperto al piede dell’unico lato accessibile del rilievo, per il resto circondato da erti dirupi, dapprima colmato da discariche di materiale proveniente da aree di vita prossime, comunque disposte a monte, assieme a residui di pezzame forse utilizzato nell’abitato stesso, in seguito livellato dal disfacimento delle pareti e dal dilavamento della sabbia di base, ancora ricca di ceramiche e altri materiali provenienti dallo smantellamento di stratificazioni di vita: questa è l’interpretazione al momento preferibile (o più agevole) per la sequenza messa in luce, non senza le difficoltà determinate dalla sostanziale omogeneizzazione dei suoli.
Lo stato di conservazione dei materiali e la presenza di lenti fortemente antropizzate, come si è appena accennato, non dovrebbero tuttavia lasciar dubbi sul fatto che la fossa fu aperta in funzione di un’area insediativa che doveva disporsi sul versante che dalla sommità del Monte Formino digrada verso sud. Naturalmente non è possibile – se mai lo sarà – valutare il ruolo del fossato: apprestamento a protezione dell’abitato, semplice delimitazione ‘di servizio’ dell’area insediativa, opera agricola.
L’orizzonte cronologico dell’occupazione è, tanto suggestivamente quanto ancora enigmaticamente, proposto dai non molti frammenti ceramici riconducibili a tipi di cronologia definita. Fra questi spiccano le due fastose anse sormontanti cilindroidi, che si aprono alla sommità in una fascia coperta da decorazioni a rilievo acquistando – del tutto casualmente, come è ovvio – l’aspetto di una ‘testa di cobra’ (figg. 5-6); le anse erano pertinenti a tazze la cui sontuosità dovrebbe corrispondere ad un ruolo specifico nella presentazione e nel consumo di una bevanda ‘di pregio’, sulla cui natura (vino o prodotto della fermentazione dell’uva? birra?) non è possibile avanzare congetture che non siano mere ipotesi. Rinunciando alla suggestione della ‘testa di cobra’ per terminologie più ‘scientifiche’, le due anse potrebbero essere definite come ‘tipo Monte Formino 1’ e ‘tipo Monte Formino 2’, e trovano per il momento il parente più prossimo in un esemplare proveniente dall’abitato di Via di Gello a Pisa, presentato da Stefano Bruni e ancorato dai materiali concomitanti al Bronzo Finale. L’analogo tipo presente a Stagno, minuziosamente pubblicato da Alessandro Zanini, nella semplificazione del modello proposto a Monte Formino potrebbe suggerirne l’evoluzione, in coerenza con la datazione ad una fase estrema del Bronzo Finale (Bronzo Finale 3 A), ormai poco prima del 1000 a.C., certificata anche dalle indagini dendrocronologiche condotte sui legni delle palificazioni che articolavano l’abitato di Stagno.
I frammenti di fibule ad arco di violino in bronzo e gli altri tipi ceramici – appena leggibili allo stato attuale – convergono con queste indicazioni e propongono di collocare la vita di Monte Formino in una fase iniziale del Bronzo Finale, che per il momento deve rimanere fluida, in un arco di tempo intorno al 1100 a.C. che potrebbe oscillare di molti decenni. Le stratificazioni del fossato e delle aree contigue hanno restituito, tuttavia, anche materiali probabilmente riferibili al Bronzo Medio, indice di una ripetuta frequentazione del sito, che si vorrebbe motivare con la specifica vocazione itineraria.

Posto in una fase precoce del Bronzo Finale, il sito di Monte Formino permetterebbe di approfondire le conoscenze – o, piuttosto, di moltiplicare le ipotesi – su un momento critico non solo per il Valdarno Inferiore.
L’esaurimento dell’abitato di Fossa Nera di Porcari è ormai concordemente collegato alla grande crisi che negli anni intorno al 1200 a.C. sconvolge l’intero sistema di insediamenti ‘terramaricoli’ della Pianura Padana, di cui questo sito – individuato negli anni Ottanta del secolo scorso da Augusto Andreotti – costituiva la ‘testa di ponte’ a sud degli Appennini, al punto di arrivo di un itinerario aperto dal Serchio con il complesso sistema di bracci con cui percorreva quella che è oggi la Piana di Lucca. I tipi ceramici, i bronzi, le ambre avventurosamente recuperati in giacitura secondaria a Fossa Nera di Porcari dimostrano infatti gli strettissimi rapporti del sito con l’area padana culla di questa cultura, dissoltasi per motivi misteriosi negli stessi decenni intorno al 1200 a.C. che vedono tutto il bacino mediterraneo, dall’Egitto assalito e minacciato dai Popoli del Mare sino alla civiltà micenea scomparsa con il Ritorno degli Eraclidi (l’arrivo dei Dori), sconvolto da eventi catastrofici, ancora dalle motivazioni oscure e comunque molteplici. Per tutto l’arco del Bronzo Recente (1300-1200 a.C.) Fossa Nera di Porcari doveva aver svolto – verosimilmente non da sola, ma assieme ad altri insediamenti oggi inattingibili perché sepolti sotto potenti sedimenti fluviali – un prezioso ruolo nell’aprire nuovi orizzonti ai distretti della Toscana nord-occidentale che per tutto il Bronzo Medio (intorno al 1500-1400 a.C.) avevano visto l’omogenea fioritura della ‘cultura di Grotta Nuova’, conosciuta nella Piana di Lucca grazie all’abitato del Palazzaccio di Capannori e nell’attuale padule di Fucecchio con i ritrovamenti di Stabbia.
Dalla Garfagnana e dalla valle del Serchio, dove comunità ancorate alla cultura terramaricola della Pianura Padana compaiono già nel Bronzo Medio, come dimostrano il contesto del Muraccio di Pieve Fosciana, scavato negli anni Novanta del secolo scorso, e quello inedito dell’Asilo Nido di San Romano in Garfagnana, la via verso la pianura e la valle dell’Arno è presto aperta e rimarrà assicurata, forse almeno per un secolo, a Fossa Nera di Porcari.
La dissoluzione dell’insediamento di cultura terramaricola della Piana di Lucca potrebbe essere riferita alle circostanze ecologiche forse indiziate dallo scheletro recuperato in sedimenti di matrice fluviale nel territorio di Orentano, lungo un ramo del Serchio (Auser), da Augusto Andreotti. Con la datazione radiometrica agli anni intorno al 1170 a.C., in effetti, induce la suggestione della concomitanza con la fine di Fossa Nera, ma non ci si deve nascondere che la coincidenza potrebbe anche essere casuale.
Quello che è certo è che l’esaurimento di Fossa Nera non implica l’abbandono di questo lembo della Toscana. Seppure con l’evidente ridimensionamento che traspare anche dalla povertà dei tipi ceramici, un vasto abitato si dispone al piede delle Cerbaie, in località Ai Cavi di Orentano. Le ricerche di superficie di Augusto Andreotti, protratte sino all’inverno 2011, e il saggio del 2006, che mise in luce una struttura lignea con focolare centrale, suggeriscono la presenza di una comunità che, in orizzonti culturali più angusti, cerca probabilmente un ambiente meno ostile di quanto fosse divenuto quello nell’aperta pianura prescelto da Fossa Nera per coniugare agricoltura, allevamento, sfruttamento degli itinerari e, in particolare, delle vie transappenniniche. Le affinità del povero repertorio ceramico con quello restituito dagli abitati d’altura che in Garfagnana (Capriola di Camporgiano; Castelvecchio di Piazza al Serchio; Pieve San Lorenzo, appena oltre lo spartiacque, ormai nella valle del Magra) assicurano comunque l’agibilità delle vie transappenniniche, indizio che queste comunità, seppure in crisi, non rinunciavano a tentar di serrare le maglie della rete di insediamenti e di comunicazioni.
Questo sfondo – non occorre ripeterlo – ha contorni evanescenti, ma è una potente suggestione per apprezzare il contesto di Monte Formino. La massa delle ceramiche, funzionali all’immagazzinamento e alla conservazione delle derrate alimentari, e i rarissimi frammenti di forme per la presentazione e il consumo dei cibi e delle bevande, come le tazze con profilo sinuoso provviste di ansa a nastro, presentano affinità con i tipi conosciuti nella Toscana settentrionale o Ai Cavi troppo generiche per poter mettere a fuoco la posizione dell’insediamento nello sfuggente contesto in cui matura, forse nel volgere di un secolo, il sistema di insediamenti di pianura che vede, lungo sepolti corsi d’acqua o sulle lagune costiere, Stagno e Fossa Cinque della Bonifica di Bientina, o i siti indiziati dai recuperi pisani, fra i quali continua comunque a spiccare il complesso di Via di Gello.
Tuttavia, la presenza di metalli, del tutto eccezionale in contesti insediativi, e comunque sconosciuta ai Cavi di Orentano, e l’apparire di tipi ceramici come le tazze ‘con ansa a testa di cobra’, che rinnovano il ruolo delle forme di prestigio del Bronzo Recente dimenticate a Orentano, così come negli abitati d’altura della Garfagnana, e destinate a nuove redazioni nelle fasi più avanzate del Bronzo Finale, sembrano segnali – pur nella povertà del contesto archeologico – di una vivacità culturale che certo potrà essere messa a fuoco solo con nuove ricerche e nuovi ritrovamenti.
Per ora Monte Formino, la ‘collina delle anse a testa di cobra’, si pone in un ambito geografico nel quale era sin qui pressoché sconosciuta questa fase storica e culturale, quasi come ‘faro’ tra le sparse comunità della piana dell’Arno e dei suoi affluenti, dal territorio di Pisa sino a Volterra: un paesaggio certamente diluito nel tessuto demografico, come dimostravano già i risultati delle ricerche di superficie dei remoti anni Settanta del secolo scorso, che offrono un possibile confronto – assai generico, tuttavia – per Monte Formino solo con l’esiguo complesso di ceramiche dal Poggione di San Genesio, genericamente ascritte al Bronzo Finale.
Una considerazione finale, oltre il valore e il potenziale ‘scientifico’ del sito.
Il lavoro di Monte Formino è stato condotto nello spirito del volontariato e della passione degli anni Settanta del secolo scorso, che sono anche gli anni di formazione di chi scrive: ore da sottrarre ad altre attività, senza nulla chiedere, per inseguire il sogno della conoscenza del passato e condividere con gli amici i momenti magici in cui il passato si rivela, nel sole dell’estate appena lenito dal vento di mare, o quando soffia la tramontana, mentre per due volte le olive maturavano. È sempre più difficile, per una serie innumerevole di motivi che sarebbe inutile elencare, rinnovare queste avventure; forse non è neppure opportuno, ora che giovani professionisti chiedono (giustamente) che la ricerca sia condotta secondo le regole del mercato (purtroppo evanescente per deficit di domanda). Per quei pochi – ormai tutti almeno sessantenni o quasi – che ancora credono nei valori del volontariato e della passione, i pomeriggi a Monte Formino, trent’anni dopo le prime ricerche sulle colline del Valdarno, rimarranno indelebili, come quelli vissuti sul Bastione di Marti o a perlustrare la Chiecina, a Pieve a Nievole a investigare la chiesa del secolo VIII, o come i giorni di Sant’Ippolito, all’alba di un millennio che si immaginava dai colori più vivi di quelli che stiamo conoscendo.

Bibliografia essenziale

Dal Bronzo al Ferro. Il II millennio a.C. nella Toscana centro-occidentale, catalogo della mostra Livorno 1997, a cura di A. Zanini, Pisa 1997.

Insediamenti dell’Età del Bronzo fra le Cerbaie e l’Auser. Ricerche al Palazzaccio di Capannori e Ai cavi di Orentano, a cura di G. Ciampoltrini, Bientina 2008.

Fossa Cinque della Bonifica di Bientina. Un insediamento della piana dell’Auser intorno al 1000 a.C., a cura di G. Ciampoltrini, Lucca 2010.

venerdì 15 giugno 2012

Le Acque e il Vino. L'avventura di uno scavo (La Scafa di Pontedera, 2010-2011)





Quando gli escavatori iniziarono a tracciare le trincee che dovevano accogliere il sistema di tubature previsto dal progetto di Acque S.p.A. per collegare in rete i pozzi aperti nell’area del Ponte alla Navetta di Pontedera che è indicata, nella cartografia, con il toponimo La Scafa (fig. 1), sarebbe stato difficile prevedere che le strutture e le stratificazioni archeologiche che sarebbero venute in luce avrebbero imposto, di lì a qualche mese, di rivedere molte delle pagine che la ricerca archeologica aveva fatto scrivere sulla storia del Valdarno Inferiore d’età romana e medievale.
Nell’ottobre del 2010, appena iniziato lo scavo, subito un ritrovamento, grazie alla strategia di tutela richiesta dalla Soprintendenza, con disposizioni puntualmente recepite, e alla conseguente costante presenza sul cantiere di un’archeologa, per intervenire con tempestività quando lo sterro dovesse trasformarsi in scavo archeologico: relitti di strutture nei quali fu immediato riconoscere un lacus vinarius d’età romana. Le indagini al Tosso di Capannori, condotte fra 2002 e 2003, mettevano a disposizione un modello perfetto per integrare e rendere leggibile ciò che del complesso romano era sopravvissuto alla sequenza di sedimentazioni ed erosioni con le quali l’Arno modellò le sue sponde, fino alla risolutiva regimazione conseguita negli anni Sessanta del Cinquecento, per volere di Cosimo I, incanalando l’Usciana e rettificando il corso del fiume con il taglio che avrebbe fatto slittare Calcinaia dalla sinistra alla destra del fiume, e avrebbe privato Bientina del ruolo che da millenni svolgeva su una grande ansa.
Il piovosissimo autunno del 2010 si fece sentire, imponendo una lunga sospensione dei lavori in questo settore, mentre a ridosso della strada che da Pontedera porta al nuovo e vecchio Ponte alla Navetta le complesse vicende di questo punto di attraversamento dell’Arno (fig. 2) si manifestavano in un tratto di via di ghiaia che doveva aver preceduto quello ancora registrato nelle cartografie ottocentesche: la strada della Scafa, sostituita nel sistema stradale rimodulato dal ponte ottocentesco.
Nel maggio 2011, con la ripresa e la fase conclusiva dei lavori, il lacus fu finalmente messo in luce, e, grazie alla coinvolgente passione di Sara Alberigi – l’archeologa incaricata da Acque S.p.A. (fig. 3) – fu possibile estendere il saggio anche oltre i limiti strettamente indispensabili per assicurare la compatibilità fra l’opera pubblica e la salvaguardia del dato archeologico.
La prosecuzione dello scavo della trincea, subito a nord-ovest dell’area del lacus, offrì nuove sorprese.
In effetti, i dati già disponibili sul Valdarno Inferiore lasciavano intuire che i potenti sedimenti che spesso rendono inaccessibili queste pianure alla ricerca di superficie sigillano il fitto sistema di insediamenti romani che si distribuiva nella griglia tracciata dai limites (le ‘vie di bonifica’) della centuriazione d’età augustea, ricostruita con certezza fra Arno ed Era sulla sinistra dell’affluente, nel territorio di Pisa – la colonia Iulia Opsequens Pisana che accolse tra il 41 e il 27 a.C., come le altre città dell’Etruria settentrionale, da Lucca a Firenze, i veterani delle guerre civili – ed ipotizzata sulla destra dell’Era per i relitti di limites leggibili fra il Romito e il territorio di Ponsacco, entro i quali ricadeva anche la piccola necropoli del I secolo d.C. intercettata alle Pescine di Treggiaia, nel 2004, dai lavori per la variante dei Fabbri della S.P. delle Colline. D’altro canto, la viticoltura e gli impianti per la vinificazione sono un tratto consueto di questo tessuto di insediamenti rurali, come suggeriva da tempo il lacus ritrovato sotto la pieve di Santa Giulia di Caprona, e – in un contesto certificato dal dato stratigrafico – l’impianto messo in luce fra il 1999 e il 2000 con lo scavo di Sant’Ippolito di Anniano, nel vicino territorio di Santa Maria a Monte.
Il Vino: la prima immagine delle storie sepolte alla Scafa.

Se i resti dell’insediamento rurale d’età romana della Scafa si incasellavano agevolmente nella scacchiera degli agri centuriati già ricomposta, del tutto inattesa ne era, invece, la rioccupazione nei primi secoli del Medioevo.
Quando Sara riuscì a cogliere, sotto il dente dell’escavatore, le tracce di una inumazione, il braccialetto (armilla, nella terminologia archeologica) in bronzo che la defunta conservava al braccio ne dichiarò immediatamente la cronologia: partendo dai ruderi dell’edificio d’età romana erano state tracciate le ‘righe’ lungo le quali, fra l’avanzato VI e il VII secolo, una piccola comunità aveva deposto i suoi defunti.
Iniziava lo scavo vero e proprio, intrecciando le esigenze di mettere in opera le tubature di progetto e l’opportunità di documentare adeguatamente una fase storica sin qui pressoché sconosciuta nel Valdarno Inferiore.
Grazie alla capacità organizzativa dell’archeologa, assecondata dall’impegno delle maestranze dell’impresa Fegatilli e dalla disponibilità assicurata da Acque S.p.A. e dai responsabili del cantiere, venivano progressivamente esplorati, fra giugno e luglio, un significativo tratto del sepolcreto e altri resti dell’edificio romano, con le sue complesse vicende che si intrecciavano a quelle del lacus. Le dotazioni di alcune delle deposizione indagate (dieci in tutto) ne confermavano la datazione alla prima metà del VII secolo; infine, nel Basso Medioevo, fra XI e XIII secolo, di nuovo questo lembo di riva dell’Arno aveva accolto un abitato, seppur riconoscibile solo per gli scarichi finiti nel reticolato di canalizzazioni che aveva inciso la necropoli.
Una storia complessa, alla cui radice la suggestione dell’archeologo vuol porre la peculiare posizione del sito, nel crocevia dei fiumi che formano la rete di acque che innerva il Valdarno Inferiore: l’Arno, l’Era, l’Usciana, che nei rettilinei della bonifica medicea ha cancellato i meandri che ne testimoniavano – con l’idronimo perduto già nell’Alto Medioevo, l’etrusco Arme – assai più efficacemente di quanto non sia oggi possibile il ruolo di terminale del sistema fluviale della Valdinievole e del territorio pesciatino; infine, il quarto dei fiumi che percorrono questo territorio, la ‘Terra dei Quattro Fiumi’, come chi scrive ha proposto di definirla: il ramo di sinistra dell’Auser-Serchio che ancora nell’Ottocento, con gli emissari dei laghi nei quali il fiume si impaludava dall’Alto Medioevo, raggiungeva Bientina, ed oggi sottopassa l’Arno con la Botte voluta per l’ultima, risolutiva bonifica dal Granducato, alla vigilia dell’Unità d’Italia.
Le Acque, dunque, non solo in omaggio alla società dai cui investimenti è nata la ricerca.
Sono proprio le peculiari vicende del sito della Scafa nell’Alto Medioevo a suggerire, infatti, che già in questi secoli il sito avesse occupato il ruolo di punto di attraversamento del fiume da cui trae il nome, e che forse aveva già in età romana, quando la via che da Pisa portava a Firenze, tracciata nel corso del II secolo a.C. sulla sinistra del fiume, doveva biforcarsi con un ramo che seguiva l’Arno attestandosi anche sulla destra; il controllo di questo punto di attraversamento, con le complesse interazioni fra Pisa e Lucca che traspaiono dalla tormentata vicenda dei confini delle due città nell’Alto Medioevo, è la ragione più suggestiva della peculiare vicenda che le trincee di Acque S.p.A. hanno fatto scoprire.
Grazie all’invito di Elisa Possenti, e all’impegno del personale tutto del Centro di Restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana (in particolare di Marcello Miccio per le indagini preliminari, di Araxi Mazzoni per le ceramiche, di Stefano Sarri per i materiali in ferro, di Daniela Gnesin per i bronzi, con Cinzia Innocenti come costante punto di riferimento), è stato possibile già nel settembre 2011 presentare i dati essenziali della necropoli altomedievale al convegno di Trento dedicato appunto alle Necropoli longobarde in Italia, suscitando anche l’interesse della stampa locale che – in particolare Mario Mannucci, con lo speciale dedicato all’evento sulle pagine di Pontedera della Nazione del 7 ottobre (fig. 4) – ha seguito con continuità lo sviluppo della ricerca.
Infine, proprio nelle ultime giornate di lavoro, il ritrovamento di testimonianze delle opere di bonifica agraria dell’Ottocento, con i resti di un ponticello costruito nella splendida tecnica laterizia che qualifica le eleganti opere pubbliche del Neoclassico di questo lembo di Toscana, quasi a coronare una ‘storia archeologica’ che va dall’età romana all’Alto Medioevo, alle vicissitudini dell’insediamento sparso dei secoli centrali del Medioevo che sulle sponde dell’Arno si esaurì solo nel Duecento, con la nascita delle ‘terre nuove’, come, appunto, Pontedera; infine, gli aspetti del paesaggio d’età medievale e contemporanea.
È stato forse l’entusiasmo che, dopo trent’anni e più di attività nella Soprintendenza, chi scrive ancora riesce a cogliere, condividendolo, nelle nuove generazioni di archeologi che nella terra sanno percepire ogni sfumatura di colore, a imporre di dare una tempestiva presentazione delle storie che la pianura a nord-est di Pontedera ha raccontato fra l’autunno del 2010 e la tarda estate del 2011.
Come già lo scavo, Acque S.p.A. ha assecondato anche questo ultimo momento del percorso, contribuendo in maniera risolutiva alla pubblicazione; ma queste pagine nascono essenzialmente dalla passione di chi cerca nella terra, nel fango dell’inverno o sotto il sole dell’estate, le storie di uomini e di paesaggi che i documenti non ci raccontano.

Giulio Ciampoltrini

martedì 5 giugno 2012

Bianco conventuale. Rivisitando San Francesco a Lucca







Si deve passare dai colori ritrovati dei Buonuomini di Firenze, e poi saltare a Monte Oliveto, fra i severi monaci del Sodoma, per apprezzare il bianco francescano, che è bianco conventuale, del San Francesco di Lucca, S ed F visitati infinite volte, in blu splendente sullo smalto bianco della bianca pasta, povero segno inciso a graffio sul giallo che vorrebbe esser bianco dell'invetriata arricchita di verde e di un po' di giallo.
Bianco dei Buonuomini, bianco benedettino, bianco francescano.
Inizi del Rinascimento in pure forme, con il vino dei Buonuomini che passa in fiaschi di vetro, come a Lucca San Francesco, forse, ma senza boccali.
Gli enigmi dell'archeologia che arriva al Quattrocento, agli Osservanti lucchesi coevi dei patroni fiorentini dell'amico del Ghirlandaio, parenti poveri delle Cene di Ognissanti o della Cappella Sassetti, per darci, nella sofferente quotidianità degli anni Sessanta e Settanta del Quattrocento, suggestioni per il convento lucchese amico degli Straccioni.

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