Giulio Ciampoltrini
La città e la pieve. Paesaggi urbani e rurali di Lucca
fra Tarda Antichità e Alto Medioevo.
Da città-fortezza a civitas Christiana: dinamica urbana a Lucca fra III e V secolo
«Abbattendoci noi nel secondo Horto de’ Frati Gesuati di S. Geronimo, mentre che si cavavano certi fondamenti molto à basso, di Pietre Tuffi, trovammo che i Muratori avevano fra essi tratta fuori una Lapide di finissimo marmo, ma troppo frangibile, la quale conteneva la seguente Inscrittione romana antica, e per inavertenza venne loro spezzata, ma raccolti et uniti insieme i pezzi, ricopiammo le lettere nel miglior modo, che ci fu possibile. Contenevano dunque
LUCEN. CIV. SUB PROBO
IMP. AUG. M. AUR. LAEV.
PROCOS. INTRA. GALLIAS
ENSIUM FAB RETENTURAE
IUSQU. COH. PR. LEGENDAE
MOEN. REST. A DUO LAT.»
La testimonianza autoptica del Penitesi, uno dei migliori antiquari lucchesi dei primi del Seicento, integrata da accenni dell’ancor più autorevole e affidabile Daniello de’ Nobili, ha permesso da tempo di rivalutare l’iscrizione che, con la fantasiosa integrazione del compagno di escursioni del Penitesi, Niccolò Tucci, avrebbe meritato di finire – come CIL XI,*204 – fra le falsificazioni, e di proporre di riconoscervi piuttosto i frammenti di un’iscrizione posta a celebrare un intervento di restauro alle mura di Lucca, curato sotto Probo da un personaggio, forse di rango equestre, la cui formula onomastica potrebbe essere stata conservata almeno in parte nei frammenti M. Aur. Laev.[1].
L’ipotesi trovava sostegno, al momento in cui fu formulata, essenzialmente nel luogo di recupero dei frammenti, proprio lungo il lato meridionale delle mura di Lucca, e in prossimità della porta (fig. 1, 1). Negli anni 2002-2004 sono emerse significative conferme archeologiche dei restauri alle mura tardorepubblicane condotti nella Tarda Antichità, con la tecnica edilizia, fondata sull’impiego di lastre e liste di arenaria giallastra legate da una solida malta con largo impiego di ghiaino, peculiare di Lucca tardoantica; l’ampio tratto di restauro messo in luce nell’area Galli Tassi, sul lato nord-occidentale (fig. 1, 2), applica una tecnica identica a quella con cui fu sanata una lacuna nel settore sud-orientale (fig. 1, 3)[2].
Indice ancor più risolutivo dell’impegno profuso nel recuperare appieno il ruolo strategico e il potenziale difensivo delle mura è la dotazione di torri. La torre inglobata proprio nel complesso del San Girolamo (fig. 2 A), rimasta a lungo inosservata nonostanze le feritoie in laterizi che ne segnalano inequivocabilmente il ruolo (fig. 2 B) e, assieme alla tecnica edilizia, ne pongono la costruzione fra III e IV secolo, con l’icnografia rettangolare, aggettante rispetto al filo delle mura (fig. 3), dà una chiave di lettura per ancorare fra media e tarda età imperiale la costruzione delle torri che Antonio Minto poté esplorare nel settore meridionale del lato orientale della cerchia (fig. 1, 4; 4)[3]. La cerchia tardorepubblicana, in effetti, non doveva disporre di torri, se non negli avancorpi a tutela delle porte, attestati nella porta orientale dai resti emersi nel 2002-2003[4], e nelle porte meridionale e occidentale da documenti altomedievali[5].
Seppure in uno scenario ancora condizionato da ampi spazi d’ombra, l’incrocio dell’evidenza archeologica con quella epigrafica porta a proporre che le mura di Lucca dovettero ricevere un accurato recupero, con restauri integrati dalla dotazione di strutture – come le torri – adatte alle nuove esigenze poliorcetiche, in un momento che nulla vieta di ricondurre agli anni dell’impero di Probo, quando l’esigenza di tutelare le possibili vie d’accesso dalla Pianura Padana a Roma doveva essere particolarmente avvertita, come del resto aveva avuto modo di provare lo stesso Aureliano.
Un diretto intervento imperiale, forse anche con la partecipazione dell’esercito, poteva essere particolarmente opportuno a Lucca, che tutti gli indicatori archeologici mostrano, nel corso del III secolo, ancora attanagliata dalla crisi iniziata già nella prima età imperiale, e appena contrastata dalle modeste imprese edilizie condotte, spesso con materiale di recupero, nel corso del II secolo[6].
La città medio-imperiale, con il foro e il suo complesso di edifici pubblici in gran parte coperti da discariche, ridotta a frammenti di spazi urbani[7] dispersi all’interno del circuito di mura almeno in parte fatiscenti, con le necropoli suburbane giunte ormai a ridosso delle porte, investendo aree già urbanizzate – come dimostra il caso esemplare del sepolcreto di Via dell’Anguillara (fig. 1, 5)[8] – è tonificata dal ritrovato ruolo strategico, trasparente anche nella centralità di Lucca nel sistema itinerario transappenninico registrato dal tardoantico Itinerarium Antonini[9]: la città è vista come terminale dei due percorsi che attraversano l’Appennino tra l’Etruria e la Aemilia, portando a Parma e, attraverso Florentia, a Faventia.
Sembra arduo non connettere ruolo strategico e consolidato assetto viario anche alla scelta della città come sede di una fabrica imperiale di spathae, che ne fa un fondamentale supporto logistico al sistema militare che nella Pianura Padana forma l’antemurale per Roma[10].
La tradizione metallurgica cittadina, documentata almeno fin dall’età augustea[11], potrebbe aver favorito la decisione, ma la ritrovata efficienza di un sistema itinerario capace di rifornire la città con le materie prime indispensabili all’attività metallurgica (il metallo e il legname), e la sicurezza garantita dalle mura ebbero forse un ruolo ancor più risolutivo nel segnare le sorti di Lucca.
Recentissimi scavi tratteggiano un’immagine archeologica della metallurgia lucchese nella Tarda Antichità.
Nell’area Galli Tassi (fig. 1, 6) un vero e proprio ‘quartiere’ metallurgico si dispone a poche decine di metri dalle mura, investendo anche un cardo glareato della città medio-imperiale, in disuso o comunque ridimensionato, con una serie di forni subquadrangolari o circolari (fig. 5), caratterizzati da pareti rettilinee rubefatte e concotte, e con fondo piano, rivestito di norma con ciottoli accuratamente sistemati, che spesso conservava tracce di un riempimento di carboni (fig. 6)[12].
Lo scavo ha messo in luce almeno otto di queste strutture, verosimilmente pertinenti a forni da fucina, idonei cioè non al processo di riduzione del minerale, ma all’attività di trasformazione del metallo, che conservano una tipologia ‘tradizionale’ attestata anche nell’area extraurbana degli Orti del San Francesco, in età augustea[13].
L’assenza nelle stratificazioni di minerale o di scorie, la presenza – spesso solo nelle tracce lasciate nel terreno – di piccoli ‘lingotti’ o semilavorati di ferro (elementi circolari con foro centrale, linguette e barrette con fori passanti, placche sagomate) corrobora l’ipotesi. La perdita – se non per modestissimi lembi pavimentati in laterizi e pietrame misto a lenti di argilla concotta – dei piani di calpestio relativi ai forni pregiudica la possibilità di ricostruire le strutture del complesso, ma la coerenza tipologica e cronologica porta ad ipotizzare che l’area già urbanizzata nell’estremo settore nord-occidentale della città fu scelta, nel corso del IV secolo, come sede di un impianto metallurgico.
È possibile che alla stessa struttura, forse costituita da una serie di complessi autonomi distribuiti su una vasta area, appartenga anche la fucina addossata ad una struttura muraria della prima età imperiale, emersa nel 2004 in saggi in Via del Toro (figg. 1, 7; 7). Datato al corso del IV secolo, o ai primi del successivo, dalla sequenza stratigrafica, l’impianto sembra sfruttare gli avanzi della prima età imperiale per addossarvi un forno, alloggiato su un piano consolidato da concotti; la struttura muraria potrebbe aver accolto e protetto il mantice che regolava il processo di combustione[14].
Pur senza sopravvalutare il ruolo dei fabricenses, la ritrovatà vitalità di Lucca lascia cospicue tracce archeologiche già nel corso della prima metà del IV secolo.
L’analisi delle pavimentazioni musive della cattedrale cittadina, dedicata a Santa Reparata, eretta nel quadrante sud-orientale della città (fig. 1, 8) sui resti di un edificio termale dei primi del II secolo d.C.[15], ha recentemente condotto a fissarne la fondazione entro la metà del IV secolo.
L’icnografia dell’edificio (fig. 8-9) è assai lacunosa, se si esclude l’abside, costruita nella tecnica edilizia osservata nei restauri delle mura, con l’impiego negli zoccoli di fondazione di blocchi parallelepipedi di calcare cavernoso tratti dalla demolizione (o dal recupero di resti) di edifici tardorepubblicani.
Anche se i pilastri in laterizio di spoglio riconoscibili nelle fondazioni della parete settentrionale dell’attuale chiesa di Santa Reparata inviterebbero a ipotizzare una pianta a tre navate, questa porterebbe ad attribuire all’edificio dimensioni francamente smisurate; sembra dunque preferibile proporre un edificio dotato, nella tradizione degli edifici pubblici tardoantichi, di una navata unica (fig. 9)[16], in cui penetra in profondità una solea che, ripetendo immediatamente il modello offerto dalla cattedrale lateranense[17], modula l’aula di culto in spazi assimilabili a quelli proposti dal colonnato delle navate.
È semmai plausibile la presenza di un breve transetto aperto sulla navata centrale dalle arcate affidate ai pilastri laterizi emersi nello scavo; la suggestione delle basiliche apostoliche di Roma – San Pietro in particolare[18] – può incoraggiare nella proposta, destinata comunque a rimanere per il momento non verificabile (fig. 9).
I lacerti musivi che conservano almeno i temi applicati alla sequenza di riquadri in cui la pavimentazione fu scandita mostrano l’impiego esclusivo del repertorio di motivi geometrici, resi con una moderata policromia (fig. 10 A-E), corrente nell’Etruria settentrionale della prima metà del IV secolo anche per gli edifici privati o per i complessi termali che segnano il nuovo tono della regione in questo volgere di tempo[19].
La cattedrale è completata, sul lato settentrionale, da un battistero che, almeno nella prima redazione, sembra ottenuto dallo speditivo adattamento di un edificio del II secolo d.C., verosimilmente pertinente al complesso termale (fig. 11, in grigio), presto trasformato in policonco con l’aggiunta delle absidi innnestate sul lato settentrionale, meridionale, occidentale (fig. 11, tratteggiato)[20].
Il riquadro che conserva parte dell’iscrizione che celebrava un donatore della pavimentazione della cattedrale (fig. 10 A) è per ora, paradossalmente, il solo indice epigrafico della società lucchese del IV secolo, le cui manifestazioni dovranno dunque essere piuttosto cercate negli edifici con cui si recuperano aree residenziali in abbandono.
Uno di questi è stato indagato in Palazzo Fatinelli, nella via omonima (figg. 1, 9; 12)[21].
Le strutture murarie di liste e blocchi allungati che chiudono il solo ambiente esplorato (701, 820; fig. 13, US 820) sono l’esemplare applicazione di un modello edilizio che permette di conglutinare liste e lastre di cava e di recupero da strutture della prima età imperiale, con una spessa e coerente malta che garantisce la solidità. La pavimentazione era completata da un tessuto musivo, di cui resta quasi solo la preparazione, che tuttavia pare indicare – assieme al livello medio-alto dei consumi ceramici e di beni alimentari di importazione evidente nei materiali della discarica che si accumula sul selciato aderente al lato settentrionale dell’edificio – il livello di questo episodio di riurbanizzazione su resti di strutture della prima età imperiale.
Nell’estrema difficoltà di ricomporre nei frammenti di strutture e stratificazioni tardoantiche sopravvissute alla trasformazione alto- e bassomedievale della città resti organici di edifici, sono i lembi di tessuti murari riconducibili ai modi edilizi attestati dai restauri alle mura o da strutture ben databili come quella dell’area di Palazzo Fatinelli a permettere di delineare le ‘isole’ insediative che si addensano – per recuperare un termine proposto da chi scrive quindici anni fa – in una città uscita ‘frammentata’ dalla crisi del II-III secolo[22].
Nella casualità della documentazione archeologica risalta la peculiare vitalità dell’area intorno alle mura: la struttura tardoantica che in Via Diversi conclude le vicende di un edificio eretto nella prima età imperiale, e ripetutamente trasformato (figg. 1, 10; 14) si aggiunge a quella esplorata in un interrato della contigua Via Streghi (fig. 1, 11)[23], nell’avvalorare il ruolo della porta urbica come catalizzatore dell’insediamento, per l’evidente opportunità agli scambi fra città e territorio che replica nel campo ‘privato’ l’esigenza urbanistica affrontata in età imperiale dalla collocazione delle terme o degli anfiteatri.
Nella rinnovata città cristiana ruolo di ‘mediazione’ fra città e campagna e recupero della destinazione sepolcrale delle aree extramuranee sono affidati alle chiese erette lungo le vie che escono dalla città, subito al di fuori delle porte, cui daranno nome, almeno nel secolo VIII: San Vincenzo, che sarà poi denominata dal santo vescovo cittadino, Frediano, di cui accoglierà i resti, a nord; San Pietro, sulla direttrice verso Pisa (e dunque forse anche verso Roma) a sud; i Santi Gervasio e Protasio a est; San Donato a ovest[24].
I saggi nell’area del San Vincenzo (fig. 1, 12) delineano una pianta cruciforme (fig. 15), che, assieme alla tecnica edilizia (fig. 16), ha invitato a porre la costruzione della chiesa nello scorcio finale del IV, o nei primi del V secolo, con l’adozione dei modelli ‘milanesi’ che l’attività di Ambrogio nella Tuscia poteva contribuire a propagare[25]. La coerenza tecnica e planimetrica fra l’abside, rettangolare all’esterno e semicircolare all’interno (fig. 15 A) con quella di Sant’Ippolito II (fig. 17), nel Valdarno lucchese, ancorato dall’evidenza stratigrafica e in particolare numismatica al decennio 360-370[26], ha recentemente offerto un sostanziale conforto alla proposta di datazione formulata quasi venti anni fa.
È plausibile che le quattro fondazioni delle chiese cimiteriali suburbane si dispongano in un arco di tempo relativamente ristretto, in età teodosiana, che dunque segnerebbe la conclusione del ciclo di ‘recupero’ della città medioimperiale, completata infine da rifacimenti di sedi stradali, come nel caso del cardo di Via Burlamacchi (fig. 1, 13)[27], e da nuovi assi, come la via emersa in Piazza San Frediano (fig. 1, 14), plausibilmente collegata alla fondazione di San Vincenzo, pavimentata con una glareata che si distingue da quella della prima età imperiale per l’abbondante impiego di laterizi frammentati[28].
A più di un secolo dalla svolta impressa alla città dal restauro delle mura, e dal peculiare ruolo conferitole nella struttura ‘strategica’ dell’Italia centrosettentrionale, Lucca si presenta dunque con un’efficiente cerchia muraria, che è punto di riferimento per una serie di ‘isole’ insediative che sembrano disporsi senza regola apparente all’interno ma anche a cavaliere delle mura. L’area di Palazzo Fatinelli, il settore aderente alle mura subito a est della porta settentrionale, sembrano paradigmatici di questo assetto; più trasparenti sono ovviamente i motivi per la ‘specializzazione’ in un’attività come quella metallurgica dell’area periferica del Galli Tassi.
Le aree urbanizzate sono, infine, disperse fra gli orti o le strutture precarie che possono essere esemplificate dalla sequenza di fosse e discariche di Via Buia 24 (fig. 1, 15)[29] o di Via dell’Anguillara, a ridosso del sepolcreto medio-imperiale (fig. 1, 5)[30]. In questi settori già urbanizzati possono cominciare a disporsi anche sepolcreti, nonostante – come si sia visto – il ruolo peculiare affidato alle chiese suburbane; tuttavia non è quasi mai agevole una datazione tardoantica delle sepolture intramuranee esplorate[31].
Il complesso episcopale della cattedrale sembra svolgere una parte più efficace come catalizzatore dell’insediamento, se agli edifici religiosi si aggiunge la struttura con pavimentazione musiva, recentemente attribuita ad orizzonti tardoantichi, di Piazza San Giusto (fig. 1, 17)[32]; le fosse e le discariche che si accumulano immediatamente a sud, nell’area di Palazzo Ansaldi (fig. 1, 18)[33], replicano la morfologia di area urbana esemplificata in Via Buia 24 e parrebbero segnare il limite meridionale del nucleo insediativo formato intorno alla cattedrale. Se fosse possibile accettare che erano state innalzate nei pressi del punto in cui furono ritrovate sia la dedica a Costantino e Licinio, cui vengono associati i cesari Crispo, Liciniano, Costantino, databile dunque al 317-323 (CIL XI, 6670), riemersa, stando a Daniello de’ Nobili, «sopra la Piazza di San Giovanni» (fig. 1, 19), che la dedica a Giuliano (CIL XI, 6669) data come ritrovata in «piazza delle herbe», corrispondente all’attuale Piazza XX Settembre (fig. 1, 20), si potrebbe supporre che l’area della cattedrale svolgeva anche un ruolo nodale nella vita civile tardoantica[34].
L’Ordo episcoporum lucchese fa trasparire la precocità della penetrazione del cristianesimo e della strutturazione ecclesiastica in città[35], ma si dovrebbe cercare nella rapida cristianizzazione delle classi dirigenti costantiniane – in particolare nella componente legata alla fabrica – uno dei motivi della tempestiva costruzione di una sede cattedrale, e nell’adeguamento anche degli spazi sepolcrali alle esigenze della religione divenuta, sullo scorcio finale del secolo, ormai ufficiale. Gli indicatori cronologici disponibili, in particolare, portano ad avvicinare la costruzione della cattedrale al nome del vescovo Massimo, che con la sua partecipazione al concilio di Sardica, nel 343, offre una testimonianza della vivacità della chiesa lucchese nell’età dei Costantinidi.
Vie, ecclesiae baptismales, castelli: nuovi paesaggi delle campagne tardoantiche
Nell’evidenza archeologica del territorio lucchese elemento saliente della dinamica degli insediamenti tardoantichi è il recupero di complessi rurali della prima e media età imperiale in abbandono, totale o parziale, con edifici talmente labili da non lasciare di norma traccia che in alloggiamenti di pali: le stratificazioni con materiali della fine del IV e V secolo che si dispongono sulle macerie livellate della fattoria del Tosso, nel cuore dell’agro centuriato, poco a sud-ovest di Tassignano, ristrutturata da ultimo in età severiana[36], velano la vicenda di recuperi comparabili a quelli che, nello stesso volgere di tempo, fanno ancora sfruttare il pozzo della fattoria di Fossa Nera A di Porcari[37] o a Corte Carletti di Orentano conducono a costruire una capanna a ridosso delle macerie di una struttura lignea eretta nel corso del III secolo[38].
Può essere solo effetto di suggestione veder rispecchiata la fluttuazione della struttura urbana nella volatilità degli insediamenti rurali, su campi di macerie o in edifici dismessi. Il paesaggio proposto nel secolo VIII dai documenti, caratterizzato da abitati rurali di piccole o minime dimensioni, di norma indicati da un toponimo di origine prediale o comunque romano, parrebbe tuttavia sostanzialmente sovrapponibile a quello che l’evidenza archeologica propone per l’età teodosiana.
Le innovazioni dell’assetto urbano non si riverberano nelle campagne solo con l’esilità delle strutture insediative.
Il nuovo volto dato alla città dalla costruzione della cattedrale e delle chiese cimiteriali viene infatti tempestivamente emulato nei paesaggi rurali dagli edifici del culto cristiano, in una turbinosa dinamica che genererà in pochi decenni il modello di insediamento destinato ad essere superato solo con l’esplosione dell’incastellamento; questo raggiungerà l’apice fra X e XI secolo, ma comincia a manifestarsi già nei paesaggi ‘militarizzati’ della Tarda Antichità che a Lucca si stagliano sullo sfondo della rinnovata cerchia.
Due castelli costruiti per vigilare sull’itinerario transappenninico che ha i terminali a Lucca e a Parma, uno – verosimilmente il più antico – sulle rocce che dominano la confluenza dei due rami del Serchio a Carfaniana, da porre nell’area dell’attuale Piazza al Serchio, e l’altro – il castrum Novum – destinato a generare l’odierno Castelnuovo di Garfagnana, impongono di adeguare la realtà amministrativa alla struttura ‘militare’ del territorio, creando nuovi distretti. I castelli sono citati in atti del secolo VIII, ma la documentazione archeologica sull’insediamento longobardo a Piazza e a Castelnuovo, già sullo scorcio finale del VI secolo, conforta la tradizionale ipotesi che la loro fondazione sia da porre nella Tarda Antichità[39].
Poco più di dieci anni fa, nel delineare il rapporto fra i distretti amministrativi dei due castelli e quelli religiosi – le pievi – dell’Alta Valle del Serchio, ricorrendo anche a ‘casi paralleli’ offerti dal territorio della diocesi di Lucca[40], si poteva fare affidamento pressoché solo su un’evidenza archeologica frammentaria e disparata, prodotta dal recupero di remoti ritrovamenti (come nella pieve di San Bartolomeo a Triana, nella Valdera lucchese, o a Massaciuccoli). L’edizione dei saggi condotti ancora negli anni Ottanta del secolo scorso nell’area della pieve di San Lorenzo di Vaiano, nella Valdinievole lucchese[41], ha aperto una fortunata sequenza di scavi – seppure eterogenei per estensione e motivazione – che nel giro di qualche anno ha portato a investigare parte della pieve di San Pietro loco Neure, a Pieve a Nievole[42], e a esplorare l’area della pieve di Sant’Ippolito di Anniano, a Santa Maria a Monte[43], mentre giungeva a conclusione la ventennale impresa di scavo di Fabio Redi nella pieve di Santa Maria a Santa Maria a Monte, ‘erede’ di Sant’Ippolito di Anniano, e prendeva inizio l’esplorazione di San Genesio a Vico Wallari[44].
Sant’Ippolito di Anniano, nel Valdarno lucchese, ha offerto un’attestazione ‘da manuale’ della genesi di un edificio di culto nel sito, se non sui resti stessi, di un complesso insediativo della prima età romana.
La fattoria posta al cuore del fundus Annianus, che dà nome al sito e poi alla pieve, è in effetti emersa, seppure ridotta a minimi lacerti, al margine orientale del complesso cristiano. In particolare, sono sopravvissuti alle spoliazioni e alle fosse per inumazioni della pieve lembi di un calcatorium e del connesso lacus (fig. 17: rispettivamente 1; 38-39-40), ben datati all’età tiberiana dalla sequenza di livellamenti che ne asseconda la costruzione[45]. L’occupazione del sito, dopo le tracce di una remota frequentazione in età etrusca, nel VI-V e poi nel corso del III secolo a.C., è tuttavia collegata alla centuriazione del tratto di Valdarno Inferiore compreso tra Arno ed Usciana (attuale corso canalizzato dell’altomedievale fiume Arme), d’età augustea, come conferma l’arco di tempo in cui si distribuiscono i materiali finiti nel livellamento; l’orientamento del complesso di Anniano, che sarà poi ripetuto anche dagli edifici che si succederanno nell’area, rispetta quello della centuriazione, attribuita alla pertica di Lucca solo per ipotesi, seppure convincente.
Materiali sporadici confermano la continuità della vita di Anniano anche nella media età imperiale, fino al deciso punto di svolta segnato – al volgere fra III e IV secolo nell’evidenza stratigrafica – dalla costruzione di un edificio formato da un’aula rettangolare sul cui lato occidentale si apre un’esedra semicircolare: Sant’Ippolito I (fig. 17) è delineato da una sequenza di frammenti di strutture murarie, ma la precisa sovrapposizione dell’icnografia che questi ricompongono a quella di complessi funerari del IV secolo – dai monumenti sepolcrali delle necropoli di Salona e Aosta fino ai grandi edifici funerari della dinastia costantiniana[46] – conforta l’interpretazione della struttura come mausoleo. I dati di scavo, tuttavia, per l’impossibilità di correlare con certezza al Sant’Ippolito I le tombe (in particolare alla cappuccina) che lo scavo ha messo in luce all’interno del suo perimetro, lasciano in dubbio se attribuirgli carattere gentilizio, o riconoscervi piuttosto un heroon – o un martyrion, se già cristiano – funzionale ad esaltare, con la curva dell’esedra, una singola deposizione.
Al culto cristiano è certamente dedicato l’edificio che negli anni intorno al 360-370 ne prende il posto, sfruttandone anche, per quanto possibile, le strutture. Come si è accennato, Sant’Ippolito II è datato dalle attività di cantiere che ne segnano la costruzione, e dalle consistenti restituzioni di divisionale bronzeo che vi finì, con il terminus post quem offerto dalle coniazioni di Giuliano (361-363); nell’articolazione in aula rettangolare provvista sul lato breve orientale di un’abside – rettangolare all’esterno – è ovviamente riconoscibile l’applicazione dello schema basilicale, in una versione che, per la netta scansione dello spazio absidale, avrebbe permesso di conservare in una struttura architettonica rigorosamente ‘cristiana’ le partizioni spaziali dell’edificio a esedra Sant’Ippolito I.
Se questa è solo una congettura, che porta inevitabilmente a postulare un ruolo di martyrion per Sant’Ippolito I, comincia ad emergere dalla rilettura dell’evidenza documentaria e dall’indagine archeologica di superficie il contesto territoriale in cui ricade la costruzione dell’edificio cristiano.
Anniano è posto lungo l’Arno, in un tratto che era costeggiato dalla via che ha lasciato una traccia toponomastica inequivocabile nel Vigesimo attestato già nel IX secolo qualche km più a ovest, a San Pietro a Vigesimo, oggi al confine orientale di Castelfranco di Sotto, e nei toponimi strata/ad strata distribuiti lungo il fiume nell’evidenza documentaria tra XI e XIII secolo (fig. 18).
La via romana da Pisae a Florentia doveva in effetti biforcarsi, superati il tredicesimo miglio – indicato nel territorio di Calcinaia dal toponimo miliario Tredecim – e la confluenza dell’Arno nell’Era, in due percorsi, uno, settentrionale, sulla destra del fiume e in aderenza al fiume stesso, come già nell’agro centuriato di Pisa; il secondo, sulla sinistra del fiume, doveva attestarsi al piede delle colline, dove i toponimi Tabernule, documentato già nel secolo VIII, e oggi conservato in Tavella, e Barbata – in cui è arduo non riconoscere l’esito della mansio Balbata/Valvata attestata dagli Itinerari – sono indici altrettanto inequivoci di un tracciato stradale romano[47].
Fiumi e assi stradali sembrano, d’altro canto, condensare progressivamente l’insediamento nella Tarda Antichità.
Se l’insediamento augusteo doveva essere omogeneamente distribuito nel reticolo della centuriazione, nel territorio castelfranchese il dosso di sinistra dell’Arme/Usciana segnala un addensamento degli abitati, nel corso della Tarda Antichità, in siti che saranno poi frequentati – spesso con modesti dislocamenti – fino almeno all’XI-XII secolo, in una sostanziale continuità che è ancor più solidamente documentata sul versante delle colline delle Cerbaie che giunge a lambire la destra del fiume[48].
Lo schema proposto da questo tratto del dosso dell’Arme/Usciana, reso accessibile all’indagine soprattutto dalle serie di opere di bonifica condotte fra 1999 e 2002, può essere applicato anche alla riva destra dell’Arno proprio per la parallela continuità nell’insediamento sparso altomedievale: se l’evidenza archeologica pone fra IV e V secolo la genesi dei villaggi sull’Arme e al piede delle Cerbaie, di norma caratterizzati dalla conservazione del toponimo prediale dell’abitato della prima età imperiale su cui si formarono, altrettanto si dovrà sospettare per l’ancor più fitta sequenza di abitati lungo l’Arno ricomponibile nel territorio che sarà di Sant’Ippolito grazie all’evidenza documentaria del secoli VIII-X[49].
Lungo la via che seguiva il fiume, e sul fiume stesso – i catalizzatori dell’insediamento – il monumento funerario eretto nei pressi dell’abitato di Anniano potrebbe dunque essere divenuto punto di riferimento di tal rilievo, da vedere confermato ed esaltato il suo ruolo, verso il 360-370, dalla costruzione di un edificio di culto cristiano che ne faceva il motore della diffusione della nuova religione ufficiale nel territorio.
Ovviamente, l’indicatore archeologico non permette né di ipotizzare chi ne promosse la costruzione, né di valutare quale ruolo abbiano avuto le contrastanti scelte religiose delle grandi famiglie di proprietari terrieri che talora emergono nell’evidenza epigrafica – come il Praetextatus di una mutila iscrizione da Castellina di Limite sull’Arno[50] – nel promuovere la cristianizzazione delle campagne. Rutilio poteva, qualche decennio più tardi, esaltare lo spirito conservatore della Tuscia[51], ma si dovrà ammettere che anche la nuova religione di stato avesse fra i domini del territorio sostenitori intenti a promuoverne la diffusione.
Purtroppo rimane indatabile, a Sant’Ippolito, il momento in cui l’edificio basilicale (Sant’Ippolito II) viene ampliato in una grande ecclesia baptismalis, a tre navate, forse provvista di portico in facciata, e aperta, sul fianco meridionale, in un battistero completamente perduto (fig. 19) se non per l’estrema traccia del fonte, cruciforme, offerta dal piano pavimentale in un signino rosato (fig. 20) che segna il passaggio all’architettura cristiana di tecniche costruttive ancora ben attestate nel territorio nella media età imperiale per i lacus degli impianti di vinificazione[52]. La sottile evidenza stratigrafica orienta genericamente ad un periodo nel corso del V secolo; nel VI i pochi contesti sepolcrali datati segnano ormai perfettamente strutturato l’edificio, con cui la plebs baptismalis svolgerà in un ampio distretto fra Arno e Cerbaie il ruolo testimoniato dai documenti dell’VIII e IX secolo.
La plebe baptismale … sita loco et finibus ubi dicitur Campora: San Pietro in Campo I
La ‘storia’ archeologica di Sant’Ippolito di Anniano può oggi essere letta in parallelo con quella narrata dallo scavo di San Pietro in Campo, la plebe baptismale – come suonano i documenti del IX e X secolo – sita in loco et finibus ubi dicitur Campora inter fluvio Piscia majore et minore (fig. 18)[53].
Le divagazioni dei due fiumi che scendono dal Pesciatino fino a confluire con la Nievole nell’area oggi del padule di Fucecchio, da cui uscivano nel corso meandriforme e tormentato dell’Arme, per raggiungere l’Arno con un tracciato che ha imposto continui interventi di regimazione e di bonifica, e che possono motivare le oscillazioni con cui è indicato il locus della pieve tra IX e X secolo, ora detta sulla Pescia Maggiore (di Pescia), ora sulla Minore (di Collodi), ora fra le due, possono aver cancellato le tracce della centuriazione della pertica di Lucca che nella Valdinievole ha lasciato orme appena percepibili fra Pieve a Nievole e Monsummano[54]. I frammenti ceramici recuperati dal Gruppo Archeologico di Pescia negli anni Ottanta del secolo scorso circa 200 m a nord della pieve sono solo il segno della frequentazione d’età romana di questi terrazzi fluviali, propaggine di un sistema di insediamenti appena meglio definito nei rilievi che orlano Pescia[55].
Anche l’area su cui sorge la pieve doveva essere stata frequentata a partire dalla prima età imperiale, come attestano i pochissimi frammenti ceramici e laterizi finiti nei livellamenti che assecondano la costruzione dell’edificio di culto cristiano, su cui sono ancora fondate le strutture della pieve romanica che spiccava un tempo nella solitudine dei Campi attraversati dalle due Pescie, e oggi è quasi assediata – soprattutto nel finitimo territorio pesciatino – da un’urbanizzazione impressionante.
Non un progressivo adeguamento di strutture, ma l’organica fondazione di una ecclesia baptismalis: questa è la conclusione imposta dai dati dello scavo 2006 (tav. I-II), che hanno portato a ricomporre il primo impianto (fig. 21) dalla giustapposizione di due aule: a settentrione l’aula di culto vera e propria, canonicamente orientata est-ovest, absidata (tav. II-III), a sud il battistero, ugualmente affidato ad un’aula absidata (tav. IV)[56].
La lettura incrociata degli elevati e delle stratificazioni ha permesso di riconoscere le fondazioni della parete settentrionale sotto quelle dell’edificio romanico (tav. V A), e di cogliere in negativo la parete meridionale, che la separava dal battistero, in una trincea di spoliazione cui sopravvissero solo le lesene che vi si innestavano (tav. II; VII-VIII), per divenire pilastri isolati del nuovo edificio; l’abside è invece ampiamente conservata.
Simmetrica è la situazione dell’aula battesimale, di cui sono conservate l’abside (tav. VI) e la parete meridionale, su cui è cresciuto il perimetrale meridionale della pieve romanica (tav. V B), e a cui si addossava la vasca battesimale, pressoché quadrata, anche in questo caso conservata solo nella pavimentazione (tav. IX).
La coerenza del tessuto murario del complesso è assicurata dal materiale messo in opera – ciottoli fluviali di piccola e media pezzatura, raramente adattati con lavoro di sbozzatura – e dal legante – una malta grigiastra, ottenuta anche con ghiaino e minuti frammenti laterizi, alla cui generosa stesura si deve la regolarizzazione dei ricorsi – ma che raramente, dato anche il carattere di mera fondazione delle strutture sopravvissute, si estende a coprire i giunti.
Giacché con questa tecnica sembrano costruiti anche i ricorsi inferiori della fondazione della facciata della pieve di seconda fase (179: tav. XII C), si potrà ragionevolmente accettare l’ipotesi che questa chiudesse anche il primo edificio, che avrebbe dunque avuto una lunghezza complessiva superiore ai m 21 e una larghezza complessiva di m 14,5, di cui i 2/3 riservati all’aula di culto (includendovi la parete comune), 1/3 al battistero. La larghezza complessiva raggiunge quella assicurata a Sant’Ippolito III da tre navate[57].
La ricostruzione proposta, almeno per l’aula di culto, trova conforto nella rispondenza della lunghezza al modulo costituito dal diametro dell’abside, di m 7 circa, verosimilmente equivalenti a 24 piedi romani di cm 29,56 (= m 7,09): i m 21 circa equivarrebero dunque ad una lunghezza di progetto di 72 piedi. In rapporto modulare sono anche le absidi dell’aula di culto e di quella battesimale, con un diametro progettuale, per la seconda, di m 5,3 circa, corrispondenti a 18 piedi (= m 5,32), con un rapporto quindi di 4:3 (fig. 22). Risalta dunque la coerenza del progetto, fondato sull’applicazione dei moduli elementari (rapporti 2:3 e 4:3) riconosciuti a Sant’Ippolito II, ma un’integrazione dell’aula battesimale che ne postulasse – ad esempio – una lunghezza tripla del diametro dell’abside, di circa m 15,6, non trova alcun conforto nelle indicazioni dello scavo.
Alla coerenza dell’impianto progettuale e della tecnica muraria si associa una sequenza stratigrafica che segna la fondazione dell’edificio sul suolo di base (129: un terreno limo-argilloso giallo, sterile), appena inciso in qualche caso da una trincea per l’alloggiamento delle strutture. Queste dunque furono costruite in elevato, per essere poi livellate nella fondazione con un terreno limo-sabbioso marrone depuratissimo, se non per la presenza di rarissimi frammenti ceramici d’età romana e di laterizi, ancora romani (104=126=138).
Questi possono solo concedere un generico terminus post quem per la costruzione del complesso, la cui organica progettazione come ecclesia baptismalis è evidente.
Altrettanto generiche sono le indicazioni offerte dalla tecnica costruttiva, ovviamente condizionata dalla disponibilità della materia prima offerta dai vicini letti fluviali, anche se la composizione della malta è analoga a quella riconoscibile negli edifici lucchesi, pubblici e privati, databili fra IV e – al più tardi – inizi del V secolo[58], tanto che le suggestioni offerte dalla tecnica impiegata in edifici ambrosiani di Milano[59] sono inquietanti.
Queste potrebbero trovare una consonanza nella crescente attestazione, fra la Gallia meridionale e l’Italia settentrionale, di battisteri affidati ad un’aula absidata. Particolarmente stringenti appaiono le affinità dell’aula battesimale di San Pietro in Campo I con il San Giovanni di Mergozzo (fig. 22), cui è accomunato dalla presenza di un altare (119) eretto nell’area absidale, che è distinta dall’aula da una recinzione; a San Pietro questa è affidata alla struttura 124[60].
Se a San Pietro non sembra che, come accade a Mergozzo, l’altare potesse accogliere reliquie, la coerenza degli apprestamenti liturgici dell’aula battesimale trova conferma, oltre che nel dato stratigrafico, nell’evidente allineamento del lato meridionale dell’altare con il settentrionale della vasca, imposto dall’esigenza di rendere accessibile il battistero anche anche alle pratiche di culto previste per gli oratori.
L’elasticità delle valutazioni cronologiche sin qui acquisite per queste soluzioni architettoniche e liturgiche, oscillanti nel corso del V secolo, può essere estesa dunque a San Pietro, in cui l’eco di modelli padani pare echeggiata anche nelle consonanze con il battistero di San Giovanni sull’Isola Comacina[61], la cui seconda fase, riferita al V secolo, con il fonte ottagono posto non lungo l’asse di simmetria dell’aula (fig. 23), ma avvicinato alla parete, sembra tradire un’organizzazione del culto sovrapponibile a quella prevista per San Pietro.
La molteplicità dei modelli planimetrici – di edifici battesimali e di fonti – che risalta dalle recentissime rassegne disponibili su questo tema dell’architettura cristana nell’Italia tardoantica e altomedievale[62] e che viene ripetuta nello stesso territorio lucchese (sin qui il più fortunato in Toscana nell’attestare questo tipo architettonico) dall’eterogenità degli schemi applicati a Sant’Ippolito e a San Pietro, dissuade tuttavia da cercare stringenti indicazioni cronologiche nelle varianti icnografiche.
Si dovrebbe dunque concludere agguagliando la fondazione di San Pietro in Campo (San Pietro I) al Sant’Ippolito III, con una genesi completamente diversa: nel secondo caso l’ecclesia baptismalis corona e completa un secolare processo di adeguamento di edifici alle esigenze del culto e dell’organizzazione cristiana dell’insediamento sparso; a San Pietro è una costruzione progettata e messa in opera da maestranze qualificate da una tecnica particolarmente coerente, in un momento in cui è ormai acquisita la tipologia dell’edificio di culto ‘organico’ alla diffusione e all’affermazione nelle campagne. Per il momento, alla genericità della datazione del Sant’Ippolito III anche il San Pietro I non aggiunge che i vaghi riferimenti proposti da tecniche e schemi planimetrici oscillanti fra lo scorcio finale del IV e gran parte del V secolo.
Il fattore comune fra i due complessi sembra offerto dalla via. Sarebbe arduo immaginare l’impegno comunque profuso nella costruzione di San Pietro I se non si accettasse che la via Luca Florentiam, che attraversava in rettifilo la piana di Lucca fino al settimo miliario, conservato dalla toponomastica all’altezza di Porcari[63], valicava il sistema collinare di Montecarlo fra Porcari e San Martino in Colle, per poi affacciarsi nella piana delle due Pescie e della Nievole proprio all’altezza di San Pietro e qui, di nuovo, tagliare in rettifilo la pianura fino all’altezza del passaggio fra Montalbano e piede dell’Appennino (fig. 18). Nei Campi di San Pietro – la pianura fra le due Pescie – poteva concludersi forse anche il percorso fluviale che dall’Arno risaliva attraverso l’Arme e il sistema fluviale della Nievole sin quasi alle pendici degli Appennini.
Anche le antiche pievi della piana di Lucca – Pieve San Paolo, Lunata, Lammari – si dispongono lungo l’Auser/Ozzeri, tracciando un itinerario fluviale che doveva conservare nella Tarda Antichità l’integrazione fra vie terrestri e assi fluviali segnalata dall’evidenza archeologica nella piana di Lucca della prima età imperiale[64].
Senza indulgere alla faticosa e comunque non verificabile ricerca di corrispondenze fra i punti di sosta salvati dalle fonti itinerarie antiche e la scarna evidenza archeologica[65], si potrà solo suggerire la possibilità che nell’età di Teodosio o dei suoi figli, fra la fine del IV e i primi decenni del V secolo, una strada vitale per il sistema militare non solo della Tuscia, ma anche dell’intera Italia, vedesse il suo ruolo sottolineato dalla costruzione di edifici del nuovo culto di stato, che potevano aggiungersi e affiancarsi alle vecchie mansiones. In questo modo l’organizzazione cristiana del territorio avrebbe potuto contare su assi itinerari mantenuti in efficienza anche per esigenze strategiche, e, a sua volta, la rete di edifici di culto poteva dimostrarsi efficace anche per garantire la vitalità e del sistema stradale.
Esaltando il ruolo svolto dalle viae publicae per la diffusione e l’affermazione, anche organizzativa, del cristianesimo in campagne fortemente condizionate dalle tradizioni religiose ‘pagane’[66], grazie anche al radicamento dei culti connessi alle attività agricole straordinariamente documentati dalla statuetta di Abundantia finita ngli strati teodosiani di Volcascio, presso Castelnuovo di Garfagnana, quasi commento archeologico ai riti ‘pagani’ descritti con commozione da Rutilio (fig. 24)[67], la fondazione, apparentemente ex novo, di San Pietro in Campo potrebbe dunque essere attribuita ad un intervento ‘pubblico’ – ovviamente non meglio definibile – in una crescente integrazione fra amministrazione civile e organizzazione cristiana delle campagne.
I Longobardi a Lucca e nel territorio (VI-VIII secolo): la vitalità delle strutture tardoantiche
Nell’evidenza archeologica, la vita pubblica lucchese fra V e VI secolo non sembra lasciar tracce se non nel possibile restauro del tratto settentrionale del lato occidentale delle mura (fig. 1, 21; 25), che si è proposto recentemente di collegare all’assedio del 553[68].
La stessa opera del santo vescovo Frygianus/Frediano, probabilmente attivo negli anni intorno alla metà del VI secolo, a cui la tradizione agiografica – oltre alla miracolosa deviazione del Serchio – attribuisce un’imponente attività edilizia in città e nel territorio, ha concreta testimonianza solo nel perduto rilievo della cattedrale, e in frammenti scultorei riferibili al pieno e tardo VI secolo[69].
La vivace e strutturata società lucchese che traspare dalle pagine che Agathias dedica alla narrazione dell’assedio del 553[70] emerge semmai nel continuo pulsare dei nuclei di insediamento urbano all’interno delle mura. Caso esemplare sembra quello dell’area Galli Tassi (fig. 1, 6), in cui un sepolcreto infantile va a investire l’area dell’impianto metallurgico tardoantico (fig. 5)[71]; il nucleo insediativo cui attribuire la necropoli potrebbe essere lo stesso che, poco più a settentrione (fig. 1, 22), scarica i suoi rifiuti – che ne fissano la vita al volgere fra V e VI secolo – sui ruderi di un edificio residenziale della prima età imperiale[72].
Ugualmente fluida, in un intreccio fra aree di vita e necropoli, è l’area insediativa incontrata nei saggi del Cortile Carrara, nel Palazzo Ducale (fig. 1, 23), che agli inizi del VI secolo si dispiega sui resti di edifici della prima età imperiale[73].
Sarebbe suggestivo collegare dissoluzione, o ridimensionamento, della fabrica di spathae, e progressiva diaspora delle attività metallurgiche nell’intero tessuto urbano: al VI secolo risale la prima fucina esplorata sotto la Loggia dei Mercanti, a ridosso dell’antico cardo maximus della città (fig. 1, 24)[74]. Pressoché coevo è l’impianto lungo il tratto orientale del decumanus maximus, in Via Santa Croce 62 (fig. 1, 25)[75].
In questo tessuto urbano apparentemente formato da una caotica sequenza di poli insediativi dai contorni fluidi, in cui l’asse portante della solidità urbana è affidato alle mura, che salvano il ruolo strategico della città come terminale di un itinerario transappenninico efficiente, e – forse – alla consistenza della tradizione metallurgica, non sembra avere conseguenze particolarmente sensibili l’arrivo dei Longobardi, che nel trentennio finale del VI secolo fanno di Lucca il caposaldo a sud degli Appennini, da cui muovere infine, negli anni di Agilulfo, alla conquista definitiva di quel tratto di Tuscia che diverrà la Toscana[76]. Paradossalmente, sono infatti più cospicue le tracce lasciate – seppure solo nella toponomastica e in qualche testimonianza archeologica, come il sepolcreto di Marlia – nelle campagne che circondano la città, in cui l’insediamento longobardo si concentra in vici – apparentemente di nuova fondazione – disposti a raggiera, sui principali assi itinerari verso il nord e verso il sud[77]. In effetti, se Lucca conserva il suo ruolo ‘strategico’ sulle vie transappenniniche, sono profondamente mutati gli itinerari che si snodano nella città.
La concentrazione dei vici con antroponimo longobardo allo sbocco in pianura del Serchio ribadisce la fortuna della via di valico transappenninica che segue il corso del Serchio: il sepolcreto longobardo emerso nell’area di Piazza al Serchio e la tomba, ancora di Longobardo, scavata nel XIX secolo a Castelnuovo di Garfagnana sono l’eloquente testimonianza, assieme ai materiali ceramici di VI-VII secolo recuperati sulla vetta di Monte Croci, alla confluenza dei due rami del Serchio[78], del ruolo svolto ancora in età longobarda dall’antica via Luca Parmam, in particolare finché Luni rimase in mani bizantine.
Per contro la via per Firenze sembra condannata ad un ruolo minore, ‘regionale’, mentre acquistano un rilievo cruciale gli itinerari verso il sud – il cui terminale è ovviamente Roma – seguiti negli anni della conquista longobarda, e che portano all’acquisizione al territorio cittadino di un’ampia fascia del Valdarno a sud del fiume, oltre che del distretto della Val di Cornia, e alla proprietà delle grandi famiglie dell’aristocrazia longobarda di Lucca di beni sterminati lungo l’Aurelia, sin oltre l’Ombrone, e nella Valdera.
La dotazione di beni disposta da Pertuald, esponente di una di queste famiglie, per la fondazione ospitaliera di San Michele in Cipriano, nel 720, traccia con precisione l’itinerario che recupera l’antica Aurelia, raggiunta all’altezza di Rosignano dopo aver traversato Valdarno e Valdera[79]. Il vicus Asalfi, da cercare alla confluenza fra Arno e Arme/Usciana[80], il vicus Wallari, collegato alla pieve di San Ginesio, il castellum Faolfi – attuale Castelfalfi – cui ha recentemente offerto un ‘gemello’ archeologico l’insediamento vissuto nel VI secolo sulla vetta di Santa Mustiola di Ghezzano di Peccioli intorno ai ruderi di una villa della prima età imperiale[81], si dispongono invece su un fascio di percorsi ‘interni’, verso Siena e Chiusi, che prepara la genesi della via Francigena.
La sottile trasformazione degli assi itinerari che attraversano l’ampliato distretto di Lucca, ormai città ducale, per ricorrere alla terminologia di Schwarzmaier[82], non sembra mutare – se non appunto per vici e castelli qualificati da un antroponimo longobardo – il sistema degli insediamenti, che di norma ripete quello tardoantico.
L’indicatore offerto dalle necropoli segnala una solida linea di continuità nella definizione degli spazi urbani: la tomba di un aristocratico scavata nel 1859 davanti alla chiesa di Santa Giulia, della prima metà del VII secolo (fig. 1, 26)[83], potrebbe essere l’esito di un nucleo insediativo attestatosi in edifici tardoantichi come quello di Palazzo Fatinelli, frequentato ancora fra VII e VIII secolo con il recupero come fondazione di strutture tardoantiche per un elevato in ciottoli di fiume (fig. 12-13)[84].
Il sepolcreto extramuraneo di Via Fillungo 140 (fig. 1, 27; 25-26)[85] dovrebbe confermare la continuità dell’insediamento a cavaliere delle porte urbiche.
Fra le poche tombe databili è quella di Via Buia 37, con un inumato sepolto con un abbigliamento di cui resta, nell’evidenza, la cintura con guarnizioni in bronzo che consente di porla fra la fine del VI e i primi del VII secolo (fig. 1, 28)[86]. L’area sepolcrale è contigua all’insediamento metallurgico della Loggia dei Mercanti, che viene progressivamente ristrutturato fino all’organicità dell’impianto di VIII secolo[87], e potrebbe dunque dimostrare che i nuclei insediativi urbani si dotavano di propri spazi sepolcrali, posti a ridosso degli edifici residenziali.
L’indicatore archeologico converge con quello proposto dalle fonti documentarie: la collocazione della curtis regia e di altri centri pubblici, come la zecca, nell’area subito ad ovest dell’antica cattedrale di Santa Reparata[88], il cui ruolo migra in San Martino in circostanze e per motivi indefinibili, potrebbe convalidare le ipotesi sull’ubicazione del centro amministrativo tardoantico che si sono formulate con la tenue evidenza delle dediche di IV secolo.
A questo possibile elemento di continuità si contrappone un nuovo centro amministrativo, la cui autonomia è esaltata dalla collocazione topografica: la curtis ducalis, attestata in documenti solo dal secolo IX, per poi divenire palazzo marchionale e imperiale fra X e XI secolo[89], costruita subito fuori la porta occidentale, di San Donato (fig. 1, 29), parrebbe fondata su un’area in precedenza non occupata, almeno nel VII secolo, anche se le strutture superstiti devono essere assegnate piuttosto al palazzo marchionale del X secolo[90].
Documenti e evidenza archeologica collimano anche nel tracciare la progressiva integrazione delle aristocrazie longobarde nelle strutture cattoliche, a partire dal regno di Cuniperto.
I relitti di arredo scultoreo reimpiegati nel San Frediano romanico, assegnabili ad un’officina di marmorari lucchesi databile sul finire del secolo VII[91], e le tracce di un’attività di restauro evidenti nell’abside del San Vincenzo tardoantico, tanto nel tessuto murario (fig. 16), che nella rimodulazione dei volumi interni (fig. 15) erano da tempo stati chiamati a confortare l’impresa di recupero del monastero di San Vincenzo promossa dal maior domus Faulo, intorno al 685[92].
Al nucleo superstite di rilievi dalla città e dal territorio, che attestano la vivacità della bottega lucchese della fine del VII e dei primi decenni del secolo VIII, si sono aggiunte di recente due testimonianze, salvate dai disegni ottocenteschi del Ridolfi[93], della produzione di una scuola di marmorari che associa – forse progressivamente – ai motivi tardoantichi di tradizione regionale, evidenti in particolare nei plutei in San Frediano, temi irradiati dalle officine di corte pavesi negli anni di Liutprando[94].
La vivacità dell’edilizia religiosa lucchese del secolo VIII era sin qui documentata essenzialmente da questi resti scultorei. Lo scavo della chiesa di San Ponziano, al limite orientale dell’attuale area intramuranea di Lucca (fig. 1, 30), ha permesso di cogliere gli aspetti essenziali di una chiesa attribuibile, grazie all’evidenza stratigrafica ma più ancora ai dati documentari – con la sequenza di atti testamentari che fra 832 e 834 che conferirono il complesso dapprima al San Michele fondato da Pertuald nel 722, e poi all’episcopato[95] – all’eminente famiglia dei suburbio orientale di Lucca, Cipriano, da cui uscì il vescovo Pietro: San Bartolomeo prope Silice[96].
Proprio come nell’area Galli Tassi il sepolcreto in tombe costruite con materiale di spoglio segna l’estrema occupazione dell’area prima della fondazione del monastero eretto sul finire del secolo VIII dal duca Allone, al nome del San Salvatore (fig. 1, 22)[97], così nell’area di San Bartolomeo prope Silice la formazione di un sepolcreto familiare sembra decisiva perché un tratto della glareata della via da Lucca a Firenze divenga sede di una fondazione ecclesiastica, nel momento in cui – l’VIII secolo – Lucca vede l’apogeo della pratica delle fondazioni ecclesiastiche.
La chiesa si presenta come aula dotata di abside semicircolare, con un impianto rigorosamente funzionale affidato ad una redazione paradigmatica della tecnica fondata sul ciottolo di fiume e su una malta solida e coerente usata come legante, completato sull’esterno dell’abside dal raffinato paramento lapideo, di blocchi parallelepipedi inseriti in un ordito nobilitato dalla sequenza di lesene[98].
Il linguaggio tecnico sembra particolarmente idoneo ad assecondare l’esplosione delle fondazioni ecclesiastiche del secolo VIII, che hanno certamente un ruolo significativo nella gestione dei patrimoni familiari, con le cospicue dotazioni che le corredano, ma sembrano svolgere un ruolo essenziale anche nel consolidamento del tessuto urbano e degli insediamenti rurali.
In conclusione, la città del secolo VIII proposta nella cartografia della Belli Barsali sulla scorta dei documenti d’età longobarda[99] non sembra sostanzialmente dissimile dalla città tardoantica che emerge dai dati archeologici, se non per il crescente sorgere di fondazioni ecclesiastiche nelle aree di maggior consistenza dell’insediamento. Le loro alterne vicende, nei secoli IX e X, caratterizzati da una crisi dell’attività edilizia lucchese rispecchiata puntualmente dalla scomparsa pressoché totale, dopo gli anni di Carlo, delle produzioni scultoree[100], portano alla formazione dei nuclei insediativi destinati ad espandersi vorticosamente fin dai primi dell’XI secolo[101] per generare la città romanica, che è sostanzialmente quella che ancora possiamo percorrere.
La pieve e il vescovo: ipotesi per San Pietro in Campo II
In questi scenari le antiche pievi sembrano cristallizzate in un ruolo di amministrazione del culto e di gestione delle grandi proprietà che hanno progressivamente accumulato, sostanzialmente estranee al pulsare della società che si manifesta nelle fondazioni ecclesiastiche del secolo VIII. La continuità delle vesti architettoniche di San Pietro in Campo II e di Sant’Ippolito III per gran parte dell’Alto Medioevo sembra particolarmente indicativa, al proposito.
Le vicende dei due complessi, a lungo parallele, divergono decisamente negli scenari che segnano, agli albori del X secolo, una cesura nel sistema degli insediamenti del territorio lucchese, con l’esplosione dell’incastellamento.
Sulle due pievi, ai primi del X secolo, si concentra, in modo del tutto asimmetrico, l’attività e l’interesse del vescovo Pietro II, per più di un trentennio impegnato a recuperare autorità e patrimonio del vescovato di Lucca, in un momento in cui la città svolge un ruolo cruciale nelle vicende del Regno Italico; come è inevitabile, anche gli interessi familiari e gentilizi, del resto intrecciati con quelli del vescovato, dovettero avere un ruolo non secondario in molte delle iniziative di Pietro[102]. Fra i suoi primi atti sono l’acquisizione all’amministrazione diretta dell’episcopato della pieve di Sant’Ippolito, e la costruzione di un castello intorno alla chiesa di Santa Maria posta loco Monte, sulla collina che domina Sant’Ippolito; la sua fortuna – a spese della vecchia pieve di Sant’Ippolito – è dunque segnata[103]. Schwarzmaier sottolinea anche l’immediato radicamento degli interessi ‘privati’ della famiglia di Pietro in questo territorio[104].
Nella vicenda archeologica la fine della pieve sul fiume si manifesta con il progressivo abbandono e ridimensionamento, in un paesaggio che nel X secolo vede la punta estrema di una crisi ambientale palese anche nell’espansione del bosco e nel diradamento dell’insediamento sparso, fino alla demolizione e alla spoliazione di Sant’Ippolito III, sostituita da un oratorio di cui rimane, nell’evidenza dello scavo, solo la modesta abside andata ad inciderne la pavimentazione (Sant’Ippolito IV)[105].
Contrapposta è la vicenda di San Pietro in Campo nei secoli dell’Alto Medioevo.
Il complesso tardoantico viene sistematicamente demolito negli elevati ormai fatiscenti, con un impegnativo cantiere le cui attività sono riconoscibili in focolari e fucine (tav. XV) che si spinge fino ad aprire fosse di spoliazione che raggiungono i tratti più solidi delle fondazioni, ripresi poi con un ordito murario che il ricorso al ciottolo di fiume rende apparentemente simile a quello delle strutture del primo impianto (tav. XII), ma che è ben distinguibile per la malta biancastra, priva o povera di inerte ghiaioso e laterizio, e per la tendenza delle assise di ciottoli ad assumere un aspetto a spinapesce; gli elevati, superstiti in tratti delle absidi, sono ottenuti da ciottoli sistematicamente regolarizzati da sbozzatura o spacco, disposti in filari omogeneizzati anche dalla stesura della malta, che copre di regola i giunti (tav. XIII B): è la tecnica consolidata già nel secolo VIII, in una redazione contigua a quella distinta nel San Bartolomeo prope Silice.
Il nuovo edificio (San Pietro in Campo II: fig. 27) ripete dunque il perimetro del precedente, fondendo però i due ambienti del culto in un unico complesso, a due navate[106], scandite dalla sequenza di pilastri ricavati dalla demolizione del setto murario fra aula di culto e battistero (tavola II), e dall’adeguamento delle fondazioni dei pilastri che vi si innestavano; cinque potenti arcate ne modellano i volumi, mentre la navata minore continua a svolgere, adeguando la prima vasca battesimale, il ruolo di battistero. La facciata dell’aula di culto (179) viene ovviamente prolungata, verso sud, in modo da garantire l’omogeneità esterna del complesso, la cui solidità è confermata dalla torre costruita al suo interno (173), allo spigolo nord-occidentale (tav. XIV).
Il livellamento che conclude il recupero delle fondazioni è coerente in tutta l’area della chiesa, derivando dal reinterro dell’opera di spoliazione e demolizione con un inerte che fonde i livellamenti di San Pietro I (126) e il suolo di base: è un terreno prevalentemente limoso, marrone, ma con inequivocabili grumi di argilla gialla (148, 103, ecc., nei vari saggi).
I pochissimi materiali ceramici restituiti da questi strati sono riconducibili alle tipologie lucchesi dei secoli centrali del Medioevo raccolte nella ‘fase Galli Tassi III’[107] e dunque, in sostanziale coerenza con le tecniche murarie, che applicano nel territorio i modi ben documentati a Lucca dal secolo VIII fino all’XI[108], lascerebbero ampio margine all’arco di tempo in cui collocare l’impresa con cui si volle recuperare un edificio evidentemente in precarie condizioni e consolidarne il ruolo, se la sequenza degli atti del vescovo Pietro II non offrisse una singolare possibilità di raccordare evidenza archeologica e fonti documentarie.
In un contesto storico che vede, di norma, l’autorità episcopale impegnata a concedere a chierici o privati le strutture ecclesiastiche ottenendone adeguate prestazioni[109], è in effetti pressoché un unicum l’atto del 1° novembre 913 con cui il vescovo Pietro liquida al prete Alchisi ben 20 soldi, in cambio dell’impegno a non abbandonare la pieve di San Pietro in Campo[110]. Ma se si osserva che il 12 gennaio dell’anno successivo lo stesso vescovo Pietro fa redigere in questa pieve gli atti con cui promuove la costruzione del castello di Petra Bovula[111], lo scenario proposto da San Pietro in Campo II si anima improvvisamente, e quasi impone di ipotizzare che la ricostruzione della pieve in cui aveva stancamente operato, nel secolo precedente, il pievano Rachimundo[112], sia dovuta all’energico intervento del vescovo ‘ricostruttore’, in una strategia di recupero dell’autorità episcopale nel territorio fra le due Pescie che doveva essere completata, come in altri distretti lucchesi, dalla costruzione del castello.
Si potrebbe anzi sospettare che il fallimento dell’impresa di Petra Bovula poteva essere sostanzialmente indifferente alla strategia di Pietro II, giacché San Pietro in Campo era esso stesso un ‘castello’, con la torre campanaria al suo spigolo nordoccidentale (tav. XIV) che doveva svolgere un ruolo non molto dissimile dalla sala et solario che nel 915 aveva da poco completato, inserendovisi a mo’ di torre angolare all’interno di uno spigolo, il circuito murario (il tonimen) del castello di Santa Maria a Monte, a sua volta formato da poco più di qualche casa addossata alla chiesa[113].
Nella collocazione della torre campanaria – in uno schema planimetrico di lunga fortuna nel territorio lucchese, come attestano nei primi decenni del secolo XI la chiesa cittadina di Santa Giustina[114] e nel secolo successivo San Cassiano di Controne[115] – si potrà dunque cogliere non tanto un’estenuata eco del Westwerk carolingio, comparabile con quella adottata nella stessa Lucca per Santa Reparata[116], quanto un accorgimento che faceva dell’edificio pievano anche una solida struttura turrita nella pianura fra le due Pescie.
Il tipo di edificio ‘pieve-castello’ che viene tratteggiato dall’incrocio di evidenza di scavo a Pieve a Nievole, nel secolo XI[117], e a San Genesio[118], troverebbe dunque una convincente anticipazione a San Pietro in Campo agli albori del X secolo, nell’opera del vescovo Pietro.
Lo scenario proposto per San Pietro rimane naturalmente ipotetico, non contraddetto – ma neppure confortato – dalle modestissime indicazioni dei contesti stratigrafici: ripercorerre l’impegno del vescovo Pietro nella riorganizzazione del territorio, con le clausole per la costruzione o ricostruzione di edifici sia in aree rurali[119] che in città[120], e segnalare proprio sotto il suo episcopato la pur timida ripresa della pratica delle fondazioni ecclesiatiche, dopo un lungo silenzio, con due fondazioni itinerarie, a Sant’Andrea di Compito[121], su un asse viario verso Roma segnalato anche dalla fondazione di San Pietro a Balconevisi, in Valdegola[122], apporta solo indizi supplementari, ma non risolutivi, a sostegno della proposta di porre San Pietro in Campo II nei primi anni del X secolo.
Tuttavia, proprio una ricostruzione nel secolo X potrebbe motivare la particolare vitalità del San Pietro che, nonostante il suo isolamento in una pianura assolutamente priva di protezioni naturali, potrà conservare il suo ruolo anche quando il consolidamento del polo urbano di Pescia[123], e il progressivo slittamento verso l’area pesciatina e il pedemonte dell’antica via da Lucca a Firenze – ora divenuta la strata lucense vel pistorese[124] – trasformeranno profondamente i paesaggi fra XI e XII secolo, per dotarsi infine della splendida veste romanica con cui spicca ancora sulla Pescia di Collodi.
Bibliografia
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[1] Si rinvia per un’analisi delle fonti antiquarie lucchesi del Seicento, tutte ancora manoscritte, a Ciampoltrini 1991 a, pp. 255 ss.
[2] I dati sono presentati in Ciampoltrini et alii 2003, pp. 281 ss.
[3] Minto 1925, pp. 209 ss.; da ultimo Ciampoltrini 1995, pp. 9 ss.
[4] Attività della SBAT, con la direzione scientifica dello scrivente, inedita.
[5] MD, IV, 3, p. 24, n. 16, anno 815: un appezzamento da destinare a sepolcreto per i poveri, subito fuori Porta San Donato, e aderente alle mura («recta murum …») ha il caput in «in turre hujus civitatis», e un lato «in murum istius civitatis»: la torre dunque aggetta rispetto al filo del muro, mentre la clavaca che traccia l’altro lato è verosimilmente un fossato esterno alle mura; MD, V, 2, pp. 438 s., n. 729, anno 856: un appezzamento, posto «prope Eccl. S. Petri», quindi immediatamente al di fuori della porta meridionale, ha un caput «in turrem».
[6] I dati dei lavori 1998-2006 confermano in sostanza le conclusioni di Ciampoltrini 1998 a, pp. 79 ss.; si veda anche Ciampoltrini – Rendini 2003, pp. 225 ss.
[7] Per Lucca ‘città frammentata’, si rinvia a Ciampoltrini 1994, pp. 615 ss.
[8] Ciampoltrini 1998 a, pp. 86 s.
[9] Si veda in merito Calzolari 2003, pp. 413 ss.; Ciampoltrini – Notini – Spataro 2006, pp. 227 ss.
[10] Per la fonte, Notitia Dignitatum, Oc., IX, 29; sul ruolo della fabrica per il rinnovamento di Lucca nella Tarda Antichità, si veda Ciampoltrini – Notini 1990, pp. 590 s. Ampia disamina sulle fonti in Cosentino 1995, pp. 39 ss.; per una cartografia: Milano 1990, p. 56, 1e.4 (M. Sannazaro), figura a p. 447.
[11] Ciampoltrini et alii 2006, pp. 94 s.
[12] Si veda Abela – Bianchini 2006, pp. 47 ss.
[13] Ciampoltrini 2007, pp. 69 ss., anche con il rinvio a Domergue 2004, in particolare pp. 137 ss. e pp. 144 ss.; Chiarantini – Benvenuti – Guideri 2004-2005, in particolare pp. 175 ss.
[14] Attività della SBAT, con la direzione scientifica dello scrivente, inedita.
[15] Ciampoltrini 1993, pp. 427 ss.
[16] Krautheimer 1987, pp. 30 ss.
[17] Krautheimer 1987, p. 23; Brandenburg 2004, pp. 20 ss.
[18] Si veda in generale, da ultimo, Brandenburg 2004, pp. 92 ss.; Brandenburg 2005-2006, pp. 237 ss.
[19] Si rinvia a Ciampoltrini 2005 a, pp. 109 ss.
[20] Ciampoltrini 2001 c, pp. 931 ss.
[21] Ciampoltrini et alii 2005, pp. 320 ss.
[22] Ciampoltrini 1994, pp. 615 ss.
[23] Rispettivamente attività (2005-2006) della SBAT, con la direzione scientifica dello scrivente, inedita; Ciampoltrini – Notini 1990, pp. 561 ss.
[24] Si rinvia in merito a Belli Barsali 1973, in particolare pp. 464 ss.; 484 ss.
[25] Ciampoltrini – Notini 1990, pp. 574 ss.
[26] Ciampoltrini – Manfredini 2005, riedizione con ampliamenti e integrazioni di Ciampoltrini – Manfredini, 2001, pp. 163 ss.
[27] Ciampoltrini 1998 a, pp. 83 s.
[28] Ciampoltrini – Notini 1990, p. 578.
[29] Ciampoltrini – Notini 1990, pp. 567 ss.
[30] Ciampoltrini – Notini 1990, pp. 578 ss.
[31] Ciampoltrini – Notini 1990, p. 571 (Palazzo Lippi: fig. 1, 16); Ciampoltrini et alii 1994, pp. 606 ss. (Via Burlamacchi: fig. 1, 13).
[32] Ciampoltrini et alii 2005, pp. 326 s.
[33] Ciampoltrini et alii 1994, pp. 608 ss.
[34] Ciampoltrini 1991 a, p. 258.
[35] Per questo Zaccagnini 1989, pp. 13 ss.
[36] Millemaci 2004, pp. 45 ss.
[37] Ciampoltrini 1998 b, pp. 298 ss.
[38] Ciampoltrini – Andreotti 2004, pp. 56 ss.
[39] Ciampoltrini 1995 b, pp. 555 ss.; per le fonti documentarie, Cosentino 1995, pp. 39 ss.
[40] Ciampoltrini 1995 b.
[41] Ciampoltrini et alii 1999, pp. 305 ss. (E. Pieri).
[42] Ciampoltrini – Pieri 2003.
[43] Ciampoltrini – Manfredini 2005.
[44] Per queste si rinvia ai contributi di Fabio Redi e di Federico Cantini, in Chiese e insediamenti 2006 Chiese e insediamenti nei secoli di formazione dei paesaggi medievali. Il rapporto fra le chiese e gli insediamenti tra V e X secolo, Atti del Convegno San Giovanni d’Asso novembre 2006.
[45] Ciampoltrini – Manfredini 2005, pp. 11 ss.
[46] Si rinvia per la bibliografia a Ciampoltrini – Manfredini 2005, pp. 30 ss.
[47] Si rinvia per questa ricostruzione a Ciampoltrini 2004 a, pp. 57 ss.
[48] Ciampoltrini 2004 b, pp. 321 ss.; Ciampoltrini – Andreotti 2004, pp. 54 ss.: Ciampoltrini – Manfredini – Spataro 2007, pp. 15 ss.
[49] Ciampoltrini 2004 b, pp. 321 ss.
[50] Berti – Cecconi 1997, pp. 11 ss.
[51] Ciampoltrini 2001 a, pp. 51 ss. cui si rinvia anche per i riferimenti rutiliani (in particolare Rut. Nam., De reditu, 597: «grata bonis priscos retinet provincia mores»).
[52] Si veda il calcatorium del Tosso di Capannori, nell’agro centuriato lucchese: Millemaci 2004, pp. 56 ss.; in generale Ciampoltrini 2005 b, pp. 64 ss.
[53] MD, V, 3, p. 74, doc. 1148, anno 913; la pieve è detta «plebe batismali sita in Piscia minore» (MD, V, 2, p. 377, doc. 634, anno 847); «in loco Piscia magiore quot est pleve batismale» (MD, V, 2, p. 445, doc. 740, anno 857); «plebe babtismali sita loco Piscia minore» (MD, V, 2, p. 494, doc. 814, anno 872).
[54] Ciampoltrini et alii 1999, pp. 264 ss.
[55] Patera 1997, pp. 81 ss; Gambaro 1997, pp. 51; ampia bibliografia in Quirós Castillo 1999, pp. 21 ss.
[56] Le presentazioni analitiche dei dati di scavo e dei materiali sono rispettivamente affidate ai contributi di Alessandro Giannoni e dello scrivente.
[57] Ciampoltrini – Manfredini 2005, pp. 50 ss.
[58] Si veda da ultimo Ciampoltrini et alii 2003, pp. 290 ss.; Ciampoltrini et alii 2005, pp. 320 ss.
[59] Krautheimer 1987, pp. 168 s.
[60] Pejrani Baricco 2001, pp. 558 ss.; per le valutazioni liturgiche, Falla Castelfranchi 2001, pp. 294 s.
[61] Fiocchi Nicolai – Gelichi 2001, p. 330, fig. 10, con bibliografia precedente.
[62] Fiocchi Nicolai – Gelichi 2001, e, in generale, L’edificio battesimale 2001.
[63] Per questa da ultimo Ciampoltrini 2006 b, pp. 64 ss.
[64] Ciampoltrini 2006 a, pp. 63 ss.
[65] In effetti la distanza da Lucca di San Pietro in Campo non è molto lontana dalle XII miglia che nella Tabula Peutingeriana distinguono la città da ad Martis, ma le VIII miglia fra questa e Pistoia dissuadono dall’avventurarsi in forzati adeguamenti del testo delle tormentatissime fonti itinerarie all’esigenza di dare comunque nome a siti noti dalla testimonianza archeologica.
[66] Classico è il lavoro di Maroni 1973.
[67] Ciampoltrini 2001 a, pp. 51 ss.
[68] Ciampoltrini et alii 2005, pp. 317 ss.
[69] Ciampoltrini 1992 b, pp. 44 ss., cui si rinvia anche per le propposte di datazione su base archeologica dell’attività di Frygianus/Frediano.
[70] Agathias I, 16-17.
[71] Abela – Bianchini 2006, pp. 51 ss.
[72] Ciampoltrini et alii 1994, pp. 615 ss.
[73] Primi cenni in Ciampoltrini 2006 c; Città nascosta 2002, pp. 19 s., fig. 29.
[74] Città nascosta 2002, p. 19.
[75] Giannoni 2003-2004.
[76] Per una lettura archeologica, ancora Ciampoltrini 1994, pp. 615 ss.; Ciampoltrini 1988, pp. 50 ss.
[77] Si rinvia a Ciampoltrini 1990, pp. 689 ss.; Ciampoltrini 2001 b, pp. 457 ss.
[78] Ciampoltrini 1995 b, pp. 555 ss.
[79] Ciampoltrini 2004 c, pp. 87 ss.
[80] Ciampoltrini 2001 b, pp. 459 ss.
[81] Per Castelfalfi Ciampoltrini 1990, pp. 689 ss.; per Santa Mustiola, si rimanda agli atti della giornata di studio Valdera romana 2006.
[82] Herzogstadt: Schwarzmaier 1972.
[83] Il riesame dei dati è in Ciampoltrini 1983, 1983, pp. 511 ss.
[84] Ciampoltrini et alii 2003, pp. 325 s.
[85] Ciampoltrini – Notini 1990, pp. 581 ss.
[86] Ciampoltrini – Notini 1990, pp. 569 ss.
[87] Città nascosta 2002, pp. 22 s.
[88] In merito Belli Barsali 1973, pp. 506 ss.
[89] Schneider 1914, pp. 225 s.
[90] Attività (2005-2006) della SBAT, con la direzione scientifica dello scrivente, inedita; cenni in Ciampoltrini 2006 b, p. 67 ss.
[91] Ciampoltrini 1991 b, pp. 42 ss.
[92] CDL III/1, a cura di C. Bruhl, Roma 1973, p. 26, n. 7; Ciampoltrini 1991 b, pp. 42 ss.
[93] Basiliche medievali 2002, pp. 76 ss., in particolare figg. a p. 77 e 98.
[94] Ciampoltrini 1991 b, pp. 42 ss.
[95] Per la famiglia di Pietro e di Fratello, e per una valutazione dei rapporti con la famiglia di Pertuald, Schwarzmaier 1972, pp. 91 s.; p. 273; Ciampoltrini 2006 b, pp. 37 s.
[96] In Silice 2006, passim.
[97] Ciampoltrini et alii 2003, pp. 597 ss.; Ciampoltrini 2003 a, pp. 149 ss.
[98] Dopo le asciutte notazioni di Ciampoltrini 1992 a, pp. 701 ss., si veda la disamina di Quirós CastilloCiampoltrini 2006 b, pp. 41 ss. 2002, a sua volta assai integrata dal moltiplicarsi dell’evidenza archeologica; da ultimo
[99] Belli Barsali 1973, tavv. I-II.
[100] Ciampoltrini 1991 c, p. 59, nota 7.
[101] Ciampoltrini 1992 a, pp. 725 ss.
[102] Si veda Schwarzmaier 1972, pp. 100 ss.; Spicciani, in questa sede.
[103] Ciampoltrini – Manfredini 2005, pp. 58 ss.; per la possibilità che l’incastellamento di Santa Maria a Monte sia il semplice ‘adeguamento’ di un complesso ‘protetto’ già promosso dagli ultimi pievani di Sant’Ippolito, Ciampoltrini 2001 b, p. 460.
[104] Schwarzmaier 1972, pp. 102 ss.
[105] Ciampoltrini – Manfredini 2005, pp. 54 ss.
[106] Per l’eterogenesi delle chiese a due navate, o biabsidate, e, in generale, sul tipo architettonico, si vedano l’esauriente rassegna e le convincenti valutazioni di Belcari 2004, pp. 81 ss.
[107] Ciampoltrini 1992 a, pp. 156 ss.
[108] Supra, nota 98.
[109] Spicciani, in questa sede.
[110] MD, V, 3, p. 74, doc. 1148.
[111] Per l’incastellamento di Petra Bovula, e il suo esito effimero – se non addirittura mancato del tutto – Quirós Castillo 1999, pp. 165 ss.; gli atti (MD, V, 3, pp. 74 ss., nn. 1149-1150), hanno «actum loco Piscia ad Eccl. S. Petri plebe batismale».
[112] Supra, nota 53.
[113] Ciampoltrini 2001 b, p. 460, nota 15.
[114] Ciampoltrini 1992 a, pp. 714 ss.
[115] Mucci Colò 2004, in particolare pp. 52 ss.
[116] Pani Ermini 1992, pp. 66 ss.
[117] Ciampoltrini – Pieri 2003, pp. 55 ss.
[118] Si rinvia a Cantini, art. cit. a nota 44.
[119] Per esempio MD, V, 2, p. 617, n. 999, anno 896 (beni in Ripule, con obbligo di costruire una casa); V, 3, n. 1099, pp. 38 s., anno 907 (terre in Vallivo, con obbligo di costruire una casa di piedi 20 x 15); V, 3, pp. 126 ss., n. 1218, anno 928 (beni in Ripoli, presso la pieve, con obbligo di costruire una casa).
[120] MD, V, 3, p. 55, n. 1124, anno 910 (terra in San Martino, con obbligo di costruire una casa di piedi 16 x 15); V, 3, pp. 95 s., n. 1176, anno 917 (allivellamento della chiesa di San Simeone, con obbligo di ricostruirne la metà); V, 3, pp. 123 s., n. 1215, anno 928 (allivellamento di terra che confina con il porticale del San Martino, con obbligo di erigervi una casa).
[121] MD, V, 3, n. 1186, pp. 102 ss., anno 919.
[122] MD, V, 3, pp. 88 s., n. 1167, anno 916; per la Valdegola sull’itinerario da Lucca verso il sud e Roma, Ciampoltrini 2001 b, pp. 457 ss.
[123] Quirós Castillo 1999, pp. 151 ss.
[124] Si rinvia in merito a Ciampoltrini – Pieri 2003, pp. 39 ss.
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