Le onde e i fiori sono il filo d’Arianna
che guida l’archeologo nel secolo neoclassico – un secolo ‘breve’, dal 1750 al
1830 circa – di Lucca: le onde in nero dei piatti, delle scodelle e dei tegami
di Albisola detti a ‘macchie nere’ (tâches noires) – macchie che sono
onde – e le onde in blu puntinate di nero delle maioliche di Empoli e Doccia; i
fiori policromi, tardobarocchi, delle maioliche di Montelupo, i fiori rococò
delle maioliche settecentesche e quelli neoclassici delle composizioni
elaborate dai Ginori per un mercato più ampio di quello che poteva accedere
alle loro porcellane; infine gli apparati floreali sulle terraglie inglesi a
decalcomania, transferware, dal sentore quasi romantico.
Il viaggio nella città degli ultimi
decenni della Repubblica – della sua aristocrazia e dei ceti popolari – e poi ducale,
termina alle soglie del Risorgimento, che per Lucca quasi coincide con l’esaurimento
di una storia secolare di autonomia o di indipendenza, ormai priva di senso
nell’Europa degli stati nazionali. Anche l’archeologo percepisce nelle
associazioni stratigrafiche il mutare dei tempi, con il primo impulso alla ‘globalizzazione’
che si avverte alla metà del Settecento per l’inopinato successo della triste
produzione a tâches noires, con colori cupi e decorazioni sciatte che
sconfiggono la vivace policromia – quasi informale – dell’ultima tradizione
delle graffite di Toscana, e infine si coglie progressivamente, dopo la
Restaurazione, nell’affermazione delle manifatture inglesi e di quelle italiane
che le emulano. La terraglia decorata a transferware porta sulle mense
la Rivoluzione Industriale, trionfando poco dopo la metà dell’Ottocento.
Modelli culturali propagati con forza –
quasi imposti – dalla potenza della comunicazione, nuove reti commerciali,
competizione crescente sui mercati: anche le ceramiche dei contesti lucchesi
del Settecento e dei primi dell’Ottocento aggiungono voci, seppur flebili, dal
sottosuolo, a questi temi di ricerca, perché forse per i vasai di Albisola la
chiave del successo non era solo nel prezzo, ma anche nel rendere accessibili a
tutte le tavole le forme della maiolica e della terraglia – a loro volta emule
di quelle d’argento o di porcellana – altrimenti esclusive delle fasce sociali
superiori; oltre che, naturalmente, nell’efficacia crescente di una rete
commerciale e di trasporti che – come dimostra con la vivacità dei relitti il
carico del Grand Congloué 4, naufragato sulle coste di Provenza – riusciva a
dare respiro anche alle estreme produzioni di maiolica di Montelupo. In questi
orizzonti ormai ‘internazionali’ pentole, tegami, scaldini tuttavia raccontano
storie di una tradizione di ‘piccole imprese’ che resiste al mercato globale in
formazione: i vasai ‘locali’ cercano spazio – in qualche caso con successo – in
produzioni come i fioriti di coppini, gli scaldini prodotti a Lucca
intorno al 1815, decorati di applicazioni plastiche – ovviamente fiori. Anche
in questa ‘nicchia di mercato’ è possibile cogliere i segni dell’apertura al
nuovo: al volgere del secolo appaiono, accanto alle pentole e ai tegami della
tradizione tardorinascimentale, le marmitte e le casseruole che domineranno con
la produzione industriale della seconda metà del secolo.
Dal San Francesco partì il viaggio
archeologico nella città neoclassica, con le prime indagini sui contesti dallo
scavo degli Orti, fra 2004 e 2005 (Ciampoltrini, Spataro 2005). Qui, e nelle
volte della Casa del Boia – la ‘Casa del Maestro di Giustizia’ – livellate
anche con frammenti ceramici che trovano nella data di rifacimento dell’edificio
(1826) un prezioso terminus ante quem in cronologia assoluta, si chiude.
Il conforto che la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca ha dato alla ricerca
archeologica in questi due monumenti, mentre li portava a nuova vita e
rigenerava un quartiere della città, è stato risolutivo per condurre le ricerche
con serenità; dapprima sul cantiere, grazie alla disponibilità di Franco Mungai
e dei suoi collaboratori dell’Ufficio Tecnico – in primo luogo Marco Lucchesi e
Angelo Paladini – poi nelle esigenze dello studio, per discernere le trame
degli strati nei colori dei materiali che vi erano finiti. Il sostegno
finanziario assicurato con continuità dal Presidente Arturo Lattanzi e dall’intero
Consiglio di Amministrazione ha permesso che Consuelo Spataro potesse rendere
disponibili allo studio e alla presentazione scientifica e museale la massa dei
reperti accumulati, operando a Porcari nel laboratorio che l’impegno congiunto
dell’Amministrazione Comunale, con il Sindaco Alberto Baccini e il Consigliere
Delegato Angelo Fornaciari, e della Soprintendenza, ha trasformato per anni in
polmone della ricerca archeologica nella città e nella Piana.
Per ritornare al San Francesco e
definire i contorni dell’ombra che proiettano nella terra le sue tormentate
vicende in questo secolo, breve di anni ma concitato, con la soppressione
baciocchiana, la trasformazione in ospizio degl’invalidi, il ritorno dei
frati con la Restaurazione, la nuova soppressione con il Regno d’Italia, è
sembrato indispensabile girovagare per la città, rileggendo storie dell’archeologia
di questi anni talora già edite, come per l’anfiteatro per le corse dei cavalli
sul Prato del Marchese (Abela et alii 2013), talora edite solo in parte,
come per le genesi di Piazza Napoleone (Abela, Bianchini 2001). Soprattutto, si
sono rivisitati gli scavi di trent’anni di archeologia di tutela, per
recuperare sistematicamente stratificazioni di questi decenni, note sole da
qualche anticipazione (Ciampoltrini 2008 a; Ciampoltrini, Spataro 2015 b). La
massa dei materiali scaricata nelle cantine fra la fine del Settecento e i
primi dell’Ottocento è stata così scandita in una griglia cronologica che
consente di seguire decennio per decennio l’evolversi di tipologie e di reti
produttive e commerciali.
Come già accaduto per il Medioevo (Passo
di Gentucca 2014) e per gli anni dell’Autunno del Medioevo (Ciampoltrini
2017), la ‘storia archeologica’ del San Francesco fra Sette- ed Ottocento viene
dunque letta in contrappunto a quella della città, di cui spesso è stata
specchio fedele – così come, ci si augura, nella storia a lieto fine dei
restauri voluti dalla Fondazione.
Con questo capitolo si conclude una
ricerca che – presentata in libri e quaderni (Passo di Gentucca 2014;
Ciampoltrini 2017; Bianco conventuale 2013; Ciampoltrini, Spataro 2016) –
ha impegnato chi scrive per cinque anni, nei quali le riflessioni sull’archeologia
del San Francesco (e sulla storia della comunità che vi viveva) sono state come
lama di luce in un tramonto cupo e nuvoloso, perché all’inevitabile stanchezza
si è aggiunta l’amara sensazione di progressivo inaridimento dell’interesse
dell’opinione pubblica per la ricerca archeologica in tutti i suoi aspetti –
nonostante le celebrazioni della public archaeology – cui certo ha
contribuito il disorientamento generato dal susseguirsi di riforme imposte dall’alto;
non necessariamente con spirito illuministico.
Tuttavia, per rispondere alla fiducia
della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, per rispetto delle fatiche sullo
scavo di Elisabetta Abela, Sara Alberigi, Bianca Balducci, Susanna Bianchini,
Serena Cenni, Maila Franceschini, Elena Genovesi, Alessandro Giannoni, Irene
Monacci, Silvia Nutini, Kizzy Rovella, delle maestranze dell’impresa Giunta
Sauro, e in laboratorio di Consuelo Spataro, era ineludibile l’impegno a
stendere queste pagine.
Più che in altre, vi si avvertirà la
stanchezza. Ma sono tempi di stanchezza.
Giulio Ciampoltrini
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