La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

lunedì 10 luglio 2017

Amici antichi e recenti: epigrafia latina nel territorio di Capannori (amore e morte, fatiche e successi)



Per chi il 7 era altrove.

Il piccolo nucleo di iscrizioni recuperato nel corso di quattro secoli dal territorio di Capannori offre preziose testimonianze sulla società romana della Piana di Lucca, in particolare nel corso del I secolo d.C.

Il frammento di una stele con cornice architettonica, decorata dalle insegne delle magistrature municipali (il tipico sgabello, detto sella curilis, e i fasci littori), emersa nel 1696 a Capannori, venne immediatamente trasferito a Lucca nel Palazzo Pretorio, perché evidentemente ritenuto cimelio delle origini romane della città. Le caratteristiche del rilievo la fanno datare nella seconda metà del I secolo d.C.

Anche altre iscrizioni hanno avuto una storia non meno tormentata e spesso sono state salvate solo dal reimpiego. Questo è il caso del monumento funerario di cui sopravvive solo un frammento, murato in facciata della Chiesa di San Rocco a Capannori. Le poche parole leggibili lo fanno riferire ad un’iscrizione funeraria, databile entro gli ultimi decenni del I secolo a.C. in base ai caratteri grafici e alla rarissima particolarità dell’indicazione della vocale lunga (a) con una doppia a, in caaro.

Venne rimaneggiata per il reimpiego come mensa d’altare nella Badia di Cantignano l’iscrizione che i genitori Achelous e Heorte – probabilmente due schiavi, come indica la mancata indicazione della gens di appartenenza – posero sulla tomba della figlia Nymphe, con un testo poetico in cui la bambina si rivolge al viandante ricordando di essere morta quando ancora non aveva sei anni e la necessità di accettare al volere del Fato. L’iscrizione fu recuperata dal Ridolfi ed è oggi al Museo Nazionale di Villa Guinigi.

È invece affissa alla parete esterna della chiesa di Marlia la lastra apposta sul monumento funerario fatto costruire dal liberto Caius Vagilius Eros per sé e per altre cinque pesone con lo stesso gentilizio, forse colliberti della stessa persona, oppure membri della sua famiglia.
Anche queste due iscrizioni risalgono probabilmente al I secolo d.C.

Della fine dello stesso secolo è il monumento già conservato nella Badia di Sesto a Castelvecchio di Compito, decorato nella parte superiore da una corona pendente, e nel riquadro inferiore da una serie di oggetti resi a rilievo: le insegne delle magistrature municipali (come per l’iscrizione ritrovata nel Seicento); una serie di oggetti che potrebbero indicare l’attività ‘professionale’ della famiglia, come la navicella e l’ascia per la lavorazione del legno, oppure avere carattere simbolico, allusivo al mondo femminile (il dittico aperto; il pettine; il secchiello). Nella prima età romana, infatti, è pratica ampiamente conosciuta qualla di dichiarare la professione del defunto riproducendo sul monumento funerario gli strumenti del suo lavoro; nel caso di tombe femminili la figurazione di oggetti di ornamento personale è particolarmente attestata nella Versilia e nel territorio di Luni.
La presenza di oggetti peculiari del mondo femminile e di quello professionale è coerente con la dedica della stele. Il testo, infatti, dichiara che questa fu posta da una donna – Laronia Secunda – sulla tomba che accoglieva il fratello Lucius Laronius Rufus e il figlio Aulus Curius Sacerdos, e in cui sarebbe stata poi sepolta anche lei, assieme ai suoi discendenti. Il testo, infine, indica le dimensioni dello spazio sepolcrale contrassegnato dal monumento (quindici piedi, circa 4,5 metri), nel quale sarebbero stati deposti gli avanzi del rogo funebre; in quest’epoca, infatti, la pratica dell’incinerazione era esclusiva, come documenta le necropoli scavata al Frizzone, in cui le inumazioni non compaiono prima dell’avanzato II secolo d.C.
È dunque possibile che la figurazione della barca rammenti le attività di fabri navales (o comunque di carpentieri del legno) grazie alle quali i Laronii e i Curii avevano avuto la possibilità di raggiungere il livello economico indispensabile per conseguire la magistratura municipale – il sevirato, un collegio sacerdotale dedito al culto imperiale – celebrata dalla sella curulis e dai fasci littori. Il conseguimento delle magistrature cittadine, infatti, comportava notevoli esborsi finanziari, per opere pubbliche o per la celebrazione di giochi. In particolare, la carica di sevir era la sola raggiungibile dai liberti, che quindi si impegnavano allo spasimo per ottenerla, come segno tangibile del loro successo sociale.

L’iscrizione della Badia di Sesto potrebbe avere avuto una lunga storia. Emerse negli anni Cinquanta del Novecento nel parco della stessa Badia, e fu affissa alle pareti della fattoria, fino a che, nel 2004, nel quadro del Progetto delle Cento Fattorie, fu acquistata e trasferita a Porcari. È possibile, tuttavia, che fosse già stata vista nel Rinascimento. Lo studioso tedesco Wilhelm Kurze, infatti, ha ipotizzato che fra’ Benigno, che compilò nel Cinquecento una fantasiosa storia della fondazione dell’Abbazia di Sesto, abbia ricavato il nome di uno dei personaggi che compaiono in questa storia (Sesto Laboino) proprio da un fraintendimento o da una alterazione del nome del Laronio, malamente letto su questa iscrizione, che diveniva di conseguenza prova documentale della storia dell’Abbazia.

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