Bianco
conventuale
Nel tondo di Andrea Della Robbia
per l’Ospedale di San Paolo dei Convalescenti di Firenze la tensione spirituale
che corruga il volto di San Bernardino da Siena, con le labbra serrate che ne
fanno spiccare l’asciuttezza nel movimento degli zigomi e del mento, si
stempera appena nella serenità dello sguardo (fig. 1): splendida immagine di un
francescano degli ultimi anni del Quattrocento, con la data 1495 del ciclo dei
tondi, nella quale Andrea riesce ad esprimere con straordinaria efficacia,
davanti alla facciata di Santa Maria Novella, la sua adesione alle tematiche
savonaroliane e la sensibilità allo spirito francescano maturata in un
ventennio di commissioni osservantine[1].
Si potrebbe dunque facilmente
cedere al fascino dei colori robbiani e al realismo dei particolari
ritrattistici, esaltato dall’azzurro del fondo, per recuperare qualche immagine
degli Osservanti che a Lucca in quel tempo stavano riorganizzando – ormai da qualche
decennio – il convento duecentesco, adeguandolo al ruolo che la società
cittadina si era proposta di ritrovare ottenendo infine, nel 1454, che venisse
conferito al ramo dell’ordine che si richiamava ai valori fondanti
dell’istituzione[2].
La suggestione non è fuori luogo, tanto più che la predicazione di San
Bernardino a Lucca, nel 1430, dovette avere parte non secondaria nel confortare
l’impegno degli Anziani della Repubblica per rinnovare la presenza francescana
in città[3].
La nuova veste dell’istituzione,
adeguata alla profonda rigenerazione spirituale, viene affidata ad una vivace
attività architettonica, il cui momento più vistoso, almeno oggi, è nel ciclo
di affreschi con Storie della vita della
Vergine voluto per la cappella Pagnini dal mercante Antonio di Antonio
Baldini, opera di Baldassarre di Biagio completata entro gli anni Settanta del
Quattrocento[4].
Anche l’indagine archeologica, che
dal 2009 ha assecondato sistematicamente l’attività di restauro e recupero
funzionale del complesso conventuale, collegandosi pressoché senza soluzione di
continuità agli scavi nella cosiddetta Stecca
– in realtà il cellarium del
convento medievale[5]
– e negli Orti, esplorati fra 2005 e 2007 per la costruzione del Parcheggio
Mazzini[6],
ha fatto emergere segni imponenti dell’impegno osservantino nell’adeguamento
delle strutture medievali al ruolo che l’istituzione francescana si stava dando
nell’agitata società lucchese della fine del Quattrocento, per culminare nel
corso del secolo successivo nelle drammatiche giornate del Tumulto degli
Straccioni. La stessa trasformazione del cellarium
in foresteria del convento, ottenuta nei primi del Cinquecento scandendo il
grande volume unitario dell’impianto medievale in navate, con una duplice serie
di pilastri che permetteva di ricavare al piano superiore gli ambienti per
l’accoglienza indispensabili alla rete di relazioni coltivata dagli Osservanti
di Lucca, mentre la destinazione di ‘canova o cantina’ era riservata al piano
terreno[7],
ricade in questo ciclo di lavori, che negli Orti si manifesta per contro nella
drastica ristrutturazione degli spazi e delle colture, impiantate con un
reticolo di fosse riconosciuto dall’indagine archeologica grazie allo
straordinario ‘filo d’Arianna’ offerto dagli scarti d’uso ceramici finiti nei
drenaggi[8].
Anche il refettorio viene
rimodulato e portato alle dimensioni che oggi mantiene sullo scorcio finale del
Quattrocento, stando alle indicazioni stratigrafiche che segnano proprio in
questi decenni la conclusione dell’incessante attività edilizia che questo
settore del convento aveva subito per tutto il corso del Tardo Medioevo.
L’indagine archeologica ha offerto risolutive indicazioni, e ha permesso di
collocare il refettorio in un paesaggio conventuale assai diverso dall’attuale,
scandito da porticati il cui ruolo è indiziato dai dati presentati
analiticamente da Alessandro Giannoni.
L’immagine certamente più nitida,
nell’indicatore archeologico, dell’arrivo degli Osservanti, è tuttavia
disegnata dai livellamenti delle fosse aperte del chiostro occidentale
dell’attuale complesso (Chiostro 1, nella classificazione di Giannoni) in cui
vennero scaricati a più riprese gli scarti d’uso formati nei decenni a cavallo
fra Quattrocento e Cinquecento con le ceramiche finite in frammenti nella
pratica della mensa: piatti di medie o grandi dimensioni con decorazione
graffita o in maiolica, e, soprattutto una massa di piattelli e di scodelle in
rigorosa monocromia bianca, per le dotazioni individuali della tavola. Il
rigore della monocromia è appena interrotto, dall’improvvisazione del vasaio,
con il monogramma bernardiniano – il ‘Gesù’, nella terminologia del tempo[9]
– tracciato in lettere corsiveggianti da veloci pennellate in nero di manganese
(fig. 2) che trasferiscono sulla tavola il richiamo affidato al rilievo che
ancora severamente spicca sull’architrave della porta d’accesso al refettorio
(fig. 3).
‘Bianco conventuale’ è il termine
che si è voluto usare per designare questa peculiare scelta, che esalta la
sobrietà e il rigore osservantino, prima che il convento attivasse, agli inizi
del Cinquecento, commissioni di servizi ceramici da mensa che appena ne
stemperano l’austerità con le sigle tracciate a punta sull’ingobbio della
graffita, o in blu sul candido sfondo della maiolica di Montelupo: S F, o S F L, San Francesco di Lucca.
Lo scavo del San Francesco, durato
quasi otto anni, con rare interruzioni, iniziato negli Orti per la
realizzazione del parcheggio interrato e infine entrato nelle architetture
conventuali e della stessa chiesa accompagnando e trasformando anche in
occasione di conoscenza il recupero funzionale che sta dando a questo quadrante
della città il ruolo perso dai primi dell’Ottocento con l’eclissi della
presenza francescana, richiederà, per un’adeguata edizione, i lunghi tempi
imposti dalla massa dei dati e dei materiali raccolti dagli archeologi che si
sono succeduti nel cantiere. Grazie alla straordinaria disponibilità
manifestata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, essi hanno avuto modo
di mettere a punto una metodica capace di coniugare le esigenze scientifiche e
della tutela con le esigenze del cantiere e che si è concretata in un’ingente
massa di materiale documentario, la cui elaborazione scientifica, anche per
l’inevitabile confronto con le fonti documentarie, pretende tempi non brevi[10].
Tuttavia, fin dal momento dello
scavo, è apparso evidente il carattere paradigmatico del complesso di ceramiche
osservantine, tangibile testimonianza ‘archeologica’ di un periodo cruciale
nella storia della città.
Si è dunque ritenuto doveroso
offrire un’anteprima di questo contesto, concentrando nella sua ricomposizione
le risorse che, in aggiunta a quelle impegnate nello scavo, la Fondazione ha
messo a disposizione per preparare i materiali che trasformeranno gli ambienti
addossati all’abside del San Francesco, recuperati nell’intelligente progetto
di Stefano Dini, in un percorso nella ‘storia archeologica’ del complesso
conventuale. Questa si dipanerà dagli anni della fondazione, nel secondo quarto
del Duecento, con la progressiva costruzione della chiesa e degli spazi
conventuali, la straordinaria storia della chiesa di Santa Lucia – la
cosiddetta ‘cappella Guinigi’ – con le sepolture della famiglia titolare della
chiesa, i Guinigi, e le tre enigmatiche deposizioni femminili dei primi del
Quattrocento, forse delle mogli di Paolo Guinigi[11], per
affrontare infine le metamorfosi osservantine e i riflessi nella modulazione
architettonica delle esigenze funzionali tra Seicento e Settecento, fino alla
vita della caserma nell’Italia unitaria.
Saranno però i ‘servizi
conventuali’, dopo le testimonianze della quotidianità medievale che sono anche
prezioso indicatore cronologico per scandire la storia di un cantiere secolare,
a consentire di entrare nella vita conventuale, in un piano-sequenza che potrà
iniziare appunto con gli Osservanti per concludersi con le maioliche con sigla
conventuale della metà avanzata del Settecento.
Giacché la lettura del dato
archeologico deve necessariamente fondarsi sulla valutazione contestuale dei
materiali, è parso opportuno di presentare il contesto osservantino sullo
sfondo delle suppellettili ceramiche da tavola in uso a Lucca fra Quattrocento
e Cinquecento, fortunatamente documentate da una serie sempre più fitta di
ritrovamenti, e, soprattutto, di altre testimonianze dello stesso convento, che
permettono di mettere a fuoco le peculiarità ‘ideologiche’ della scelta dei
servizi da tavola francescani. Il convento, ovviamente, non disponeva solo, per
le sue molteplici esigenze, dei servizi da mensa; la cucina o la cantina erano
provviste di dotazioni che non necessariamente dovevano essere improntate
all’omogeneità della suppellettile da mensa.
Infatti, nulla più del confronto
fra il ‘Gesù’ tracciato sul bianco del cavetto di un piatto e quello che con
calligrafica soluzione copre il tondo policromo di un sontuoso boccale di
produzione montelupina con ‘fiori di brionia’ (fig. 4), finito – assieme ad
altri esemplari con splendide decorazioni policrome – nel pozzo che fu a
servizio degli anni del rinnovamento degli Orti, sul finire del Quattrocento,
può far apprezzare la sobrietà della tavola, il ‘bianco conventuale’ degli
Osservanti di Lucca. (G.C.)
[1]
Si veda gentilini 1992, pp. 175
ss., per «Andrea interprete dell’Osservanza»; pp. 224 ss., e figure a p. 236,
per i tondi dell’‘Ospedale dei Pinzocheri di San Paolo dei Convalescenti’.
[2]
Si rinvia in merito alla sintesi di donati
2009, pp. 92 ss.
[3]
donati 2009, p. 92.
[4]
Sintesi e puntualizzazione dei dati in donati
2009, pp. 93 ss.
[5]
ciampoltrini 2009, pp. 137 ss.
[6]
Si vedano in merito le anticipazioni di Giardini
sepolti 2005; Ad limitem 2007.
[7]
ciampoltrini 2009, pp. 147 ss.
[8]
abela – bianchini 2005, pp. 17 ss.
[9]
Per l’impiego sulle ceramiche e il termine si rinvia a spallanzani 2006, p.135; p. 484, documento 344: «col Giexù».
[10]
Senza l’impegno di Franco Mungai e del personale dell’Ufficio Tecnico della
Fondazione, confortati dai presidenti succedutisi in questi anni – dapprima
Gian Carlo Giurlani, poi Giovanni Cattani, infine Arturo Lattanzi – tutto ciò
non sarebbe stato possibile. Lo scavo degli Orti ha visto succedersi, con il
coordinamento di Elisabetta Abela e di Susanna Bianchini, la partecipazione di
Sara Alberigi, Bianca Balducci, Serena Cenni, Maila Franceschini, Alessandro
Giannoni, Irene Monacci; nel San Francesco Elisabetta Abela e le sue
collaboratrici (Serena Cenni, Maila Franceschini, Irene Monacci, Silvia Nutini,
Kizzy Rovella) e infine Alessandro Giannoni, con la collaborazione di Elena
Genovesi. La competenza dell’impresa Giunta Sauro è stata fondamentale
nell’assicurare agli archeologi il supporto di maestranze di eccellente livello
e duttilmente pronte ad assecondare le peculiari esigenze dello scavo. Una
prima presentazione in ciampoltrini
2012.
[11]
Si veda per il momento fornaciari
2012.
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