La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

giovedì 3 agosto 2017

Le Onde e i Fiori per l'ultimo scomparto del Polittico di San Francesco di Lucca

Cinque scomparti per il Polittico del San Francesco di Lucca, dalla fondazione alla fine. E il quinto, nel quinto anno dal primo, con le Onde e i Fiori.

Le onde e i fiori sono il filo d’Arianna che guida l’archeologo nel secolo neoclassico – un secolo ‘breve’, dal 1750 al 1830 circa – di Lucca: le onde in nero dei piatti, delle scodelle e dei tegami di Albisola detti a ‘macchie nere’ (tâches noires) – macchie che sono onde – e le onde in blu puntinate di nero delle maioliche di Empoli e Doccia; i fiori policromi, tardobarocchi, delle maioliche di Montelupo, i fiori rococò delle maioliche settecentesche e quelli neoclassici delle composizioni elaborate dai Ginori per un mercato più ampio di quello che poteva accedere alle loro porcellane; infine gli apparati floreali sulle terraglie inglesi a decalcomania, transferware, dal sentore quasi romantico.
Il viaggio nella città degli ultimi decenni della Repubblica – della sua aristocrazia e dei ceti popolari – e poi ducale, termina alle soglie del Risorgimento, che per Lucca quasi coincide con l’esaurimento di una storia secolare di autonomia o di indipendenza, ormai priva di senso nell’Europa degli stati nazionali. Anche l’archeologo percepisce nelle associazioni stratigrafiche il mutare dei tempi, con il primo impulso alla ‘globalizzazione’ che si avverte alla metà del Settecento per l’inopinato successo della triste produzione a tâches noires, con colori cupi e decorazioni sciatte che sconfiggono la vivace policromia – quasi informale – dell’ultima tradizione delle graffite di Toscana, e infine si coglie progressivamente, dopo la Restaurazione, nell’affermazione delle manifatture inglesi e di quelle italiane che le emulano. La terraglia decorata a transferware porta sulle mense la Rivoluzione Industriale, trionfando poco dopo la metà dell’Ottocento.
Modelli culturali propagati con forza – quasi imposti – dalla potenza della comunicazione, nuove reti commerciali, competizione crescente sui mercati: anche le ceramiche dei contesti lucchesi del Settecento e dei primi dell’Ottocento aggiungono voci, seppur flebili, dal sottosuolo, a questi temi di ricerca, perché forse per i vasai di Albisola la chiave del successo non era solo nel prezzo, ma anche nel rendere accessibili a tutte le tavole le forme della maiolica e della terraglia – a loro volta emule di quelle d’argento o di porcellana – altrimenti esclusive delle fasce sociali superiori; oltre che, naturalmente, nell’efficacia crescente di una rete commerciale e di trasporti che – come dimostra con la vivacità dei relitti il carico del Grand Congloué 4, naufragato sulle coste di Provenza – riusciva a dare respiro anche alle estreme produzioni di maiolica di Montelupo. In questi orizzonti ormai ‘internazionali’ pentole, tegami, scaldini tuttavia raccontano storie di una tradizione di ‘piccole imprese’ che resiste al mercato globale in formazione: i vasai ‘locali’ cercano spazio – in qualche caso con successo – in produzioni come i fioriti di coppini, gli scaldini prodotti a Lucca intorno al 1815, decorati di applicazioni plastiche – ovviamente fiori. Anche in questa ‘nicchia di mercato’ è possibile cogliere i segni dell’apertura al nuovo: al volgere del secolo appaiono, accanto alle pentole e ai tegami della tradizione tardorinascimentale, le marmitte e le casseruole che domineranno con la produzione industriale della seconda metà del secolo.
Dal San Francesco partì il viaggio archeologico nella città neoclassica, con le prime indagini sui contesti dallo scavo degli Orti, fra 2004 e 2005 (Ciampoltrini, Spataro 2005). Qui, e nelle volte della Casa del Boia – la ‘Casa del Maestro di Giustizia’ – livellate anche con frammenti ceramici che trovano nella data di rifacimento dell’edificio (1826) un prezioso terminus ante quem in cronologia assoluta, si chiude. Il conforto che la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca ha dato alla ricerca archeologica in questi due monumenti, mentre li portava a nuova vita e rigenerava un quartiere della città, è stato risolutivo per condurre le ricerche con serenità; dapprima sul cantiere, grazie alla disponibilità di Franco Mungai e dei suoi collaboratori dell’Ufficio Tecnico – in primo luogo Marco Lucchesi e Angelo Paladini – poi nelle esigenze dello studio, per discernere le trame degli strati nei colori dei materiali che vi erano finiti. Il sostegno finanziario assicurato con continuità dal Presidente Arturo Lattanzi e dall’intero Consiglio di Amministrazione ha permesso che Consuelo Spataro potesse rendere disponibili allo studio e alla presentazione scientifica e museale la massa dei reperti accumulati, operando a Porcari nel laboratorio che l’impegno congiunto dell’Amministrazione Comunale, con il Sindaco Alberto Baccini e il Consigliere Delegato Angelo Fornaciari, e della Soprintendenza, ha trasformato per anni in polmone della ricerca archeologica nella città e nella Piana.
Per ritornare al San Francesco e definire i contorni dell’ombra che proiettano nella terra le sue tormentate vicende in questo secolo, breve di anni ma concitato, con la soppressione baciocchiana, la trasformazione in ospizio degl’invalidi, il ritorno dei frati con la Restaurazione, la nuova soppressione con il Regno d’Italia, è sembrato indispensabile girovagare per la città, rileggendo storie dell’archeologia di questi anni talora già edite, come per l’anfiteatro per le corse dei cavalli sul Prato del Marchese (Abela et alii 2013), talora edite solo in parte, come per le genesi di Piazza Napoleone (Abela, Bianchini 2001). Soprattutto, si sono rivisitati gli scavi di trent’anni di archeologia di tutela, per recuperare sistematicamente stratificazioni di questi decenni, note sole da qualche anticipazione (Ciampoltrini 2008 a; Ciampoltrini, Spataro 2015 b). La massa dei materiali scaricata nelle cantine fra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento è stata così scandita in una griglia cronologica che consente di seguire decennio per decennio l’evolversi di tipologie e di reti produttive e commerciali.
Come già accaduto per il Medioevo (Passo di Gentucca 2014) e per gli anni dell’Autunno del Medioevo (Ciampoltrini 2017), la ‘storia archeologica’ del San Francesco fra Sette- ed Ottocento viene dunque letta in contrappunto a quella della città, di cui spesso è stata specchio fedele – così come, ci si augura, nella storia a lieto fine dei restauri voluti dalla Fondazione.
Con questo capitolo si conclude una ricerca che – presentata in libri e quaderni (Passo di Gentucca 2014; Ciampoltrini 2017; Bianco conventuale 2013; Ciampoltrini, Spataro 2016) – ha impegnato chi scrive per cinque anni, nei quali le riflessioni sull’archeologia del San Francesco (e sulla storia della comunità che vi viveva) sono state come lama di luce in un tramonto cupo e nuvoloso, perché all’inevitabile stanchezza si è aggiunta l’amara sensazione di progressivo inaridimento dell’interesse dell’opinione pubblica per la ricerca archeologica in tutti i suoi aspetti – nonostante le celebrazioni della public archaeology – cui certo ha contribuito il disorientamento generato dal susseguirsi di riforme imposte dall’alto; non necessariamente con spirito illuministico.
Tuttavia, per rispondere alla fiducia della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, per rispetto delle fatiche sullo scavo di Elisabetta Abela, Sara Alberigi, Bianca Balducci, Susanna Bianchini, Serena Cenni, Maila Franceschini, Elena Genovesi, Alessandro Giannoni, Irene Monacci, Silvia Nutini, Kizzy Rovella, delle maestranze dell’impresa Giunta Sauro, e in laboratorio di Consuelo Spataro, era ineludibile l’impegno a stendere queste pagine.
Più che in altre, vi si avvertirà la stanchezza. Ma sono tempi di stanchezza.


Giulio Ciampoltrini

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