La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

sabato 16 agosto 2014

Villaggi e chiese, castelli e paladini. Medioevo in Garfagnana nei colori della terra e della pietra





Colori discreti, per le fatiche degli amici di Garfagnana (e non solo)
Giulio Ciampoltrini, Silvio Fioravanti, Paolo Notini, Andrea Saccocci



Villaggi e chiese, castelli e paladini. Materiali archeologici per la Garfagnana nel Medioevo


Attività di tutela e continuo impegno sul territorio hanno fatto dei primi anni del nuovo millennio una stagione felice per l’archeologia in Garfagnana.

Il complesso tombale ligure-apuano della Murata di Vagli Sopra – la ‘Fanciulla di Vagli’ – scoperto e scavato nel 2008 ha trovato nell’estate del 2013 una decorosa sistemazione a Vagli Sopra, nell’edificio dedicato all’eroico Domenico Marco Verdigi; la mostra che a Lucca, nel 2011, aveva reso conto delle acquisizioni scientifiche e dell’attività di restauro, ha conseguito dunque l’esito auspicato, grazie all’impegno del Comune di Vagli Sotto e al costante supporto della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, in particolare dell’allora vicepresidente dottor Alessandro Bianchini[1].

Ancora una mostra, a Lucca, nella cornice del Museo Nazionale di Villa Guinigi, ha reso disponibili al pubblico, nel marzo 2013, i risultati dello scavo condotto da Paolo Notini e Silvio Fioravanti alla Murella di Castelnuovo di Garfagnana fra 2010 e 2012, su un insediamento etrusco della fine del VI-inizi V secolo a.C.[2].

Lo stesso scavo della Murella, infine, ha offerto, con le stratificazioni del Bronzo Medio raggiunte sotto i livelli etruschi, la conferma agli stretti rapporti fra Garfagnana e area terramaricola padana – dal Modenese al Reggiano – che le ricerche al Muraccio di Pieve Fosciana avevano dimostrato per le fasi avanzate del Bronzo Medio, proiettandole al momento di passaggio fra Bronzo Antico e Bronzo Medio[3].

La premessa è indispensabile per introdurre l’argomento di questa comunicazione. Con la serie di contributi per la Garfagnana del II millennio a.C., d’età etrusca e ligure appena usciti, per rispondere all’invito degli amici della Deputazione e della Pro Loco non si poteva proporre come tema che i risultati di un decennio di ricerche sul Medioevo, sostanzialmente inedite, e che offrono l’occasione di ritornare su argomenti affrontati proprio in questa sede negli anni Novanta, in particolare nei due convegni dedicati alla Garfagnana altomedievale, fino all’età matildina, e a quella del Basso e Tardo Medioevo, fino all’avvento degli Estensi (1995 e 1997)[4].



Villaggi altomedievali e metallurgia del ferro: nuove evidenze



Le pionieristiche ricerche su complessi altomedievali della valle dell’Edron di cui si diede conto nel 1996[5] hanno trovato all’Aiaraccia, subito a monte dell’agglomerato della Villetta, in Comune di San Romano di Garfagnana, fra 2005 e 2006 (fig. 1, A), l’evidenza delle associazioni stratigrafiche, esplorate e documentate almeno in parte, dopo l’individuazione nei lavori per la costruzione della RSA, grazie alla disponibilità della ASL 2 di Lucca (fig. 1, B).

Le sedimentazioni con frequentazione antropica, blandamente annerite anche per la sporadica presenza di carboni, hanno matrice limoso-argillosa alla base, mentre sono formate nei livelli superiori da terriccio misto a pietrisco (fig. 1, C); la colorazione passa dal marrone al grigio-verde e infine al blu dell’argilla di base – raggiunta a 5,5 m dalla superficie attuale – per i noti fenomeni di ossidazione e riduzione del ferro in ambiente ricco di acque. Seppur limitati, i sondaggi e i rilevamenti stratigrafici hanno portato a concludere che una concavità morfologica naturale – una conca di sprofondamento con contropendenza verso monte – fu progressivamente livellata con detriti di falda e materiali di ruscellamento, in cui confluirono anche scarti d’uso ceramici, carboni, lastrine di arenaria – estranee alla litologia dell’area e quindi di apporto antropico – scagliette di ematite, rara fauna, provenienti da un contiguo insediamento.

Nella tradizione già tardoantica, e poi altomedievale, di Lucca e del territorio di pertinenza, dalla Valle del Serchio al Valdarno Inferiore[6], il repertorio morfologico delle ceramiche, omogeneo nell’intera sequenza stratigrafica, è limitato a due forme chiuse: l’‘orciolo’ – forma dotata di ansa, per versare liquidi – e l’‘olla’, la forma chiusa ‘da fuoco’[7]. Entrambe sono prodotte in un impasto bruno-chiaro, sabbioso, caratterizzato da una redazione omogenea e particolarmente accurata.

L’‘orciolo’ ha corpo globulare, breve collo, ed è provvisto di una larga ansa a nastro sistematicamente impostata su un sottile collarino che corre poco sotto il labbro, diritto e assottigliato (fig. 2, A, 1-5; 2, B, 1-2); l’ansa può essere dotata di stampigliature (fig. 2, B, 3), e colature o pennellate in rosso – raramente conservate – sono l’apparato decorativo che integra il tipico motivo altomedievale delle linee ondulate incise, singole o in fasce parallele (fig. 2, B, 3-4). L’olla ha corpo globulare, breve orlo obliquo, talora pressoché diritto (fig. 2, A, 6-11).

I contesti lucchesi ancorati dalle sequenze stratigrafiche o dalla correlazione con strutture – il primo è il caso degli inediti materiali dalla Loggia dei Mercanti di Via Fillungo, il secondo delle restituzioni dai livelli di Santa Giustina associati alle strutture altomedievali riferibili alla fondazione del dux Allone, nello scorcio finale del secolo VIII (fase Galli Tassi III)[8] – propongono soluzioni comparabili con quelli dell’Aiaraccia sia nel repertorio delle olle, sia nella morfologia del labbro dell’‘orciolo’, in particolare nel collarino che modula la base dell’orlo, e nel quale forse non è fuor di luogo riconoscere l’esito di una soluzione morfologica di matrice tardoantica ancora applicata nel VI e VII secolo, seppure di solito con anse a bastoncello e non a nastro. Si dovrà solo osservare che il repertorio lucchese si arricchisce – seppure in misura marginale – di una forma aperta, che conserva il ruolo degli alvei ceramici del sistema del VI secolo[9], ignota ai contesti dell’Alta Valle.

I materiali dell’Aiaraccia – che potranno essere riferiti ad uno degli insediamenti altomedievali noti nel territorio di San Romano, oggetto di una rinnovata ricognizione documentaria e toponomastica[10] – replicano puntualmente le tipologie osservate dai recuperi di superficie nella valle dell’Edron, all’altezza di Vagli-Bivio, negli anni Novanta (fig. 3, A), in associazione a cospicue testimonianze della metallurgia del ferro: scaglie e schegge di ematite apuana (fig. 3, B, 1-2); scorie di prima lavorazione, fra le quali spicca un esemplare con il caratteristico ‘fondo a calotta’ che si forma sul fondo della fossa di forgia (fig. 3, B, 3)[11].

Sia nel particolare trattamento del labbro dell’‘orciolo’ (fig. 3, A, 1), che nel sistema decorativo con fasce in rosso (fig. 3, A, 2-3), nell’applicazione di stampigliature sull’ansa (fig. 3, A, 4), infine nella morfologia delle olle, globulari, con labbro breve o pressoché diritto (fig. 3, A, 5), i tipi di Vagli-Bivio coincidono con quelli dell’Aiaraccia. Anche per la coerenza delle caratteristiche del corpo ceramico, con i tipici inclusi sabbiosi e la colorazione di regola bruno-chiara, paiono dunque suggerire l’attività di un vasaio – o di un gruppo di vasai – che applicano alle esigenze degli insediamenti altomedievali dell’Alta Valle, con proprie cifre, il sistema corrente nell’intera Toscana, e in particolare a Lucca, fra VIII e IX secolo. Per convenzione, potremmo definire questa produzione ‘tipo Vagli-Bivio’, e farne l’equivalente cronologico del ‘tipo Galli Tassi III’ di Lucca[12].

Come per questo ultimo, non si avvertono innovazioni prima del X secolo. In città lo testimonia la sequenza stratigrafica dell’area Galli Tassi, scavi 2002, suggellata da un ripostiglio interrato nel 964[13], mentre in Garfagnana, se sono sin qui assenti contesti che consentano di mettere a fuoco eventuali evoluzioni dei tipi ceramici prima dell’esplosione dell’incastellamento, al volgere fra IX e X secolo, le restituzioni della Capriola di Camporgiano paiono indicare che ancora nelle fasi iniziali dell’incastellamento, nei decenni intorno al Mille, non era avvertibile una cesura rispetto ai secoli precedenti, come indicano soprattutto le tipologie delle olle, e l’eccezionale esempio di anforetta, che trova a Vagli-Bivio un puntuale parallelo (fig. 3, A, 5)[14].

Un inedito contesto da Cima La Foce, che restituisce minuti frammenti di ceramiche ‘tipo Vagli-Bivio’ e un denaro pavese di Ottone II (fig. 4, A)[15] è un ulteriore indizio – seppure con l’obliqua evidenza dei materiali non recuperati in stratificazioni sigillate – dei tratti decisamente conservativi in questi aspetti della vita quotidiana della Garfagnana ancora alle soglie dell’XI secolo.

Benché dunque siano stringenti gli indizi che riferiscono all’avanzata età longobarda o al IX secolo l’abitato da cui si formarono i detriti finiti nelle concavità dell’Aiaraccia o furono attive le aree metallurgiche di Vagli-Bivio, non è da escludere una più lunga durata di questa tradizione ceramica, ancora fino alle soglie dell’anno Mille, e, di conseguenza la datazione dell’attività mineraria e di prima raffinazione del ferro cui questi insediamenti sono spesso associati.

Le dimensioni dello sfruttamento delle risorse ferrose delle Apuane – già scarsamente appetibili nell’Ottocento[16], ma del tutto soddisfacenti per le esigenze della società e dell’economia altomedievale – emergono in maniera impressionante dalle ricerche di superficie ancora in atto nell’area di Roggio e di Casatico, tra i Comuni diu Vagli Sotto e Camporgiano (fig. 1, A), e che sono integrate da una metodica ricognizione nella toponomastica[17]; è al momento è questa, in effetti, il più solido indice della continuità dell’insediamento tra età imperiale e Alto Medioevo.

Isolate restituzioni archeologiche, come un’armilla in bronzo da Rocca Alberti (fig. 4, B) – di incerta collocazione cronologica nella linea evolutiva del tipo che dalle redazioni tardoantiche cui sembra contigua per la distinzione del capo[18] giunge fino agli esemplari con estremità espanse peculiari del VI e VII secolo[19] – poco aggiungono ad uno scenario in cui si prospetta la solidità di un sistema di insediamenti assistito da una rete itineraria ugualmente ben documentata dalla toponomastica di matrice romana. Infine, ancora lo strato toponomastico propriamente longobardo, sul quale si sta gettando progressivamente luce per l’intera Garfagnana[20], conferma la continuità della rete di insediamenti sparsi fino ai secoli dell’Alto Medioevo finalmente testimoniati dalla diffusione delle ceramiche ‘tipo Vagli- Bivio’.

A Roggio (fig. 1, A; 4, C) pressoché tutti i terrazzi a coltura – e quindi accessibili alla ricerca di superficie – a est dell’attuale agglomerato restituiscono tracce di attività metallurgica, nella consueta forma di schegge di ematite e di resti della prima attività di raffinazione (fig. 4, E), in associazione a ceramiche ‘tipo Aiaraccia’: olle (fig. 4, D, 1); ‘orcioli’, con la caratteristica morfologia del labbro (fig. 4, D, 2). Un frammento di ansa a bastoncello, di schietta tradizione tardoantica (fig. 4, D, 3), parrebbe semmai un indizio a favore di una cronologia precoce, ancora nel secolo VII, della fase iniziale di frequentazione dell’area[21].

Anche tra Casatico e Vitoio (fig. 1, A; 5, A) le attività metallurgiche si distribuiscono sui ripiani che già avevano conosciuto l’insediamento d’età romana, accompagnando un rinnovato sfruttamento agricolo che potrebbe andare di pari passo con le attività di disboscamento; queste, d’altronde, mettevano a disposizione la materia prima per il primo trattamento del minerale, il legname da ridurre in carbone. Ovviamente rimane aperto – anche in relazione allo status delle risorse minerali e per l’assenza di documenti in merito – il contesto giuridico-ammistrativo in cui l’attività minerario-metallurgico si svolgeva; le memorabili pagine dedicate da Riccardo Francovich e  Roberto Farinelli a delineare una complessa strategia di ricerca sull’evidenza archeologica della metallurgia altomedievale[22] pongono domande alle quali si aggiungono ora anche quelle sollevate dagli insediamenti della Garfagnana che provvedevano alla trasformazione del minerale in semilavorato. Questo poteva alimentare sia le attività dei fabbri d’area urbana, che quelle collegate alle strutture delle curtes, ben documentate – anche per una struttura pertinente al vescovo di Lucca – alla cospicua serie di obblighi alla fornitura di manufatti in ferro che risalta dagli inventari altomedievali[23].



Villaggi e chiese nei secoli centrali del Medioevo: riflessioni sui capitelli del Sant’Agostino di Vagli



Pur con le riserve appena descritte, il dato archeologico permette comunque di integrare il quadro dell’economia e della società della Garfagnana altomedievale quale emerge dai documenti arcivescovili di Lucca con il ruolo non marginale che dovette avere la disponibilità del minerale apuano, capace di indurre un vero e proprio distretto produttivo nel bacino dell’Edron ma anche – come progressivamente emerge dalle ricerche in atto, in particolare nel territorio di San Romano – in vasti settori della valle.

Più volte si è segnalato, per Lucca, che ai tratti conservativi della produzione ceramica corrispondono, nei secoli dell’Alto Medioevo, dall’VIII all’XI, aspetti non meno legati al tenace rispetto delle tradizioni nelle tecniche costruttive, e una lentissima evoluzione anche nelle arti figurative[24].

I frammenti scultorei recentemente recuperati a Vitoio (fig. 5, B-C)[25], con la sequenza di crocette ancora eccellentemente leggibili, ripropongono il tema della lunga conservazione di formule iconografiche e cifre stilistiche proprie della scultura altomedievale, sino all’XI secolo, posto dalla recensione dei rilievi della Garfagnana dovuta ad Augusto Ambrosi[26], e dalle successive acquisizioni.

Non meno inquietanti dei rilievi di spoglio di Careggine (fig. 1, A), nella cui decorazione con cerchi allacciati (fig. 5, D) è ineludibile la suggestione di riconoscere un relitto del San Pietro fondato nel secolo VIII dalla famiglia del vescovo di Lucca Peredeo[27], sono i capitelli in opera in uno dei più suggestivi monumenti del romanico di Garfagnana, il Sant’Agostino di Vagli (fig. 1, A), nel cuore del distretto metallurgico in cui è forte la suggestione di cercare in testimonianze architettoniche e artistiche un’eco del complesso tessuto insediativo altomedievale ora tratteggiato dal dato archeologico (fig. 6)[28].

I due capitelli, segnati alla base da un collarino reso con un cordone plastico, e lisci su due facce, distribuiscono su due lati contigui, in distinte figurazioni, due soggetti zoomorfi spesso associati nell’iconografia altomedievale, come attesta anche nel territorio lucchese il rilievo dei decenni centrali del secolo VIII giunto da San Concordio a Villa Guinigi[29]: il leone e l’unicorno (fig. 6).

In questo caso, l’unicorno – divenuto già nella Tarda Antichità simbolo cristologico, come hanno ampiamente illustrato le ricerche del Bisconti e della De Maria sul bestiario altomedievale dell’area aquileiese e veneta[30] – si muove in una vigna, riconoscibile come tale per i poderosi grappoli che pendono da un tralcio filiforme posto sotto una sequenza di tre rosette; la foglia di vite e il kantharos del modello iconografico, compiutamente reso ancora ai primi del secolo IX nella base romana di Santa Prassede[31], sono invece divenuti meri riccioli (fig. 6, A). Nell’altro capitello un leone dalle fauci spalancate e dalla lingua pendente, caratterizzato dalla coda desinente in un complesso girale che va a campire la parte superiore del rilievo, è contrapposto ad una composizione geometrica che comprende al centro un motivo a volute identico a quello da cui sorge, nell’altra figurazione, il tralcio di vite; le rosette e il nastro che completano la decorazione sono a rilievo entro campo ribassato (fig. 6, B).

I soggetti zoomorfi sono resi dal marmorario attivo per Vagli con cifre stilistiche che sono eco non remota della pratica d’età longobarda e carolingia, sia nelle soluzioni del rilievo, piatto e parallelo al piano di fondo, che nei particolari – l’occhio o le scansioni anatomiche – resi con una linea incisa[32]. L’esplorazione della scultura d’ambito lucchese dei secoli centrali del Medioevo condotta da Annamaria Ducci per comporre la griglia stilistica ed iconografica cui riferire l’enigmatico monumento di Gello di Camaiore[33] ha potuto far conto anche sui capitelli di Vagli, inserendoli nella piccola serie che precede comunque le forma pienamente romaniche; i temi a rilievo su campo ribassato che si affacciano sul capitello con leone, in particolare, sono coerenti con la pratica del marmorario cui si deve questo enigmatico monumento.

Davanti alla continuità delle tradizioni scultoree o alla vera e propria operazione di recupero di temi iconografici e stilistici altomedievali che connota i decenni centrali del secolo XI anche a Lucca[34], occorrerà notevole prudenza per evitare di cedere alla suggestione di cogliere nei rilievi dei capitelli di Vagli un’immagine delle vivaci comunità di cercatori di minerali e di metallurghi attivi nel territorio nell’Alto Medioevo. Certo lo stile, ormai decisamente romanico, delle fiere che generano tralci sulla lunetta di Santa Maria di Brancoli, datata al 1095[35], offre un convicente terminus ante quem per le figurazioni del Sant’Agostino.

Nell’enigmatico quadro dell’insediamento altomedeievale nel territorio di Vagli proposto dalle scarne menzioni di Vallis nei documenti già del secolo IX[36] non è naturalmente possibile né attribuire i due elementi architettonici ad una prima redazione dell’edificio nel quale sono oggi in opera, né ipotizzarne il recupero da altri edifici ecclesiastici, come la perduta chiesa di Santa Maria, forse riferibile al castello di Vagli[37].



Il castello: il Castelvecchio di Piazza al Serchio tra indagini di scavo e fonti documentarie



Castelli e incastellamento, già al centro di due convegni, hanno di nuovo conosciuto l’attenzione degli incontri di Castelnuovo nel 2009[38]. Il completamento dell’attività sui materiali permette di sintetizzare in questa sede i dati delle attività diagnostiche condotte al Castelvecchio di Piazza al Serchio nel 2004, in relazione all’impegno – avviato proprio in quell’anno dal Comune di Piazza al Serchio e ormai prossimo alla conclusione – per il recupero e la valorizzazione delle strutture monumentali di questo punto-chiave della Garfagnana, alla confluenza dei due corsi d’acqua che generano il Serchio.

Le campagne di scavo che hanno assecondato i lavori di recupero dei ruderi del castello, condotti a partire dal 2003-2004 (figg. 7-8)[39], hanno infatti consentito di delineare una ‘storia archeologica’ dell’area, che per alcuni momenti storici – in particolare il XII e XIII secolo – può essere percorsa in dialettico parallelo con quella che propone la scarna, ma significativa documentazione conservata nell’Archivio Arcivescovile (oggi denominato Diocesano) di Lucca.

Con l’altro pinnacolo di basalto della Capriola di Camporgiano, e in sequenza con l’insediamento d’altura che a Pieve San Lorenzo di Minucciano si dispone quasi ai confini tra Lunigiana e Garfagnana, il Castelvecchio (fig. 1, A; 7) viene occupato in maniera stabile, per la prima volta, in un momento avanzato del Bronzo Finale, da un abitato che segna una tappa dell’itinerario transappenninico punteggiato anche da ripostigli di bronzi, in modo particolare dalla diffusione dell’armilla ‘tipo Zerba’[40]. Le sequenze cronologiche proposte per il Protogolasecca, in effetti, consentono di riferire i contesti di Pieve San Lorenzo, Castelvecchio, Camporgiano, alla fase conclusiva delle culture padano-occidentali del Bronzo Finale (Protogolasecca 3), in sostanziale contemporaneità con la rete di abitati di matrice ‘tirrenica’ che negli stessi frangenti si dispone nel Valdarno Inferiore, da Stagno a Pisa, e nella Piana dell’Auser, a Fossa Cinque di Bientina[41].

Di nuovo la rupe del Castelvecchio torna ad essere occupata fra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C., quando pare ‘guidare’ le fasi iniziali della formazione del sistema di insediamenti ligure-apuano nell’Alta Valle del Serchio[42], per essere infine trascurata a favore dei terrazzi che lungo l’Acqua Bianca, forse sulla via publica registrata nel tardoantico Itinerarium Antonini come via Luca Parmam[43], accolgono gli abitati d’età romana e altomedievale sui quali nascerà la plebs de Castello, esplorata nella sua estrema realizzazione bassomedievale nel 1983[44].

Il Castelvecchio appare già con questa denominazione nella documentazione del XII secolo, sottoposta ad una minuziosa revisione, con ampia edizione anche di carte inedite, dal Savigni nella sua indagine sui rapporti fra episcopato lucchese e Garfagnana in età comunale[45].

Se l’atto del 1110 è, come risolutivamente dimostrato dal Savigni stesso, un apocrifo prodotto nel Duecento per ricostruire la storia della famiglia dei ‘Nobili di San Michele’, le pattuizioni registrate nel 1179 a San Pietro a Vico (Vico Asulari), fra Guglielmo, vescovo di Lucca, Ugo conte di Lavagna, e Cunimundo e Superbo, detto de Castrovetere, dei Cunimondinghi, o filii Guidi, permettono di entrare non solo nelle forme giuridiche con cui l’episcopato lucchese gestiva i suoi diritti su un ampio tratto di Alta Valle che aveva il cuore dove oggi si distende l’agglomerato di Piazza al Serchio, e sul castello che ne tutelava il possesso, ma anche nella concreta articolazione degli spazi del pianoro che si distende, alla quota di 578 m s.l.m, sulla sua sommità (fig. 7, A)[46].

Il titolo esibito da Superbo, de Castrovetere, rammentava evidentemente i diritti sul sito già acquisiti nell’883 dal capostipite Cunimondo[47], ma ancora nel 1164, quando il sito è citato – per la prima volta nei documenti superstiti – come arx de Sala, Federico I riconosceva al vescovo di Lucca pienezza di diritti sul castello[48], costruito con l’impegno delle curtes di Sala, Castelvecchio, San Michele, San Donnino, (Monte) Croci («pro curte de Sala et in tota curte de Castrovetreri sive in curtibus illarum terarrum et castrorum ex quibus Castrum Vetus edificatum est, videlicet de Sancto Michaele et Sancto Donnino et de Cruci»).

Con l’atto del 1179, dunque, il vescovo ribadiva il suo ruolo di primazia nel rapporto con la consorteria dominante nel territorio, riservandosi i due terzi del dongione, castello e poggio di Castelvecchio – nel lato settentrionale, come esplicita l’atto – e concedendo al conte di Lavagna e ai signori di San Michele il rimanente terzo, ritagliato nel versante meridionale della rupe. A questi viene riconosciuto il diritto di edificare una torre, alta non più di quaranta braccia – dunque quasi 24 m, al braccio lucchese di circa 59 cm, decisamente rilevante per l’area e per l’epoca – e la possibilità di subentrare in una parte dell’area di competenza vescovile, se questa fosse rimasta non locata, di lì ai dodici anni successivi.

È probabilmente alla scadenza di questa pattuizione, o piuttosto di una successiva di ugual durata, che dopo venticinque anni, nel 1204, l’accordo viene riformulato, stavolta con il vescovo Roberto da una parte e la sola consorteria dei signori di San Michele dall’altra. Per il vescovo è prevista la possibilità di costruire non solo una torre – diritto confermato anche ai signori di San Michele – ma anche «domos habitabiles citra murum et extra dolionem», per «tot familias quot sunt apud Salam vel plus ad voluntatem episcopi»: all’esterno del castello è dunque possibile costruire un borgo, in cui insediare le famiglie dei fideles del vescovo[49].

L’esplorazione estensiva del pianoro sommitale del Castelvecchio, definito da un circuito murario che segue il ciglio tattico (fig. 7, B; 8, A) e si apre con una porta sul lato meridionale – visibile in uno stipite (fig. 9, A) ancora sulla fine del Novecento, e poi andata perduta – e una postierla in quello settentrionale (fig. 9, B-C)[50], ha messo in luce strutture e stratificazioni ben datate fra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo, sia grazie alle indicazioni ormai offerte dai tipi ceramici, sia per l’evidenza numismatica[51], che offrono la possibilità di valutare concretamente gli scenari suggeriti dai due documenti appena citati.

Il circuito castellano – ampiamente sviluppato in elevato nei lavori del passato decennio, sì da farne di nuovo un segno del paesaggio (fig. 8, B) – è riferibile nel suo perimetro all’impianto del XII secolo, ma già aveva ricevuto un primo restauro nel Quattrocento, quando per qualche tempo gli Estensi progettarono di fare della rupe del Castelvecchio un caposaldo della loro strategia di controllo con fortificazioni della Garfagnana appena acquisita. Come appare dalla lettera del marchese di Ferrara ancora affidata all’edizione del Pacchi[52], la strenua opposizione del vescovo di Lucca, che pur nella perdita del potere politico della città su gran parte della Garfagnana vigilava risolutamente alla salvaguardia dei propri antichi diritti signorili sul territorio di Piazza[53], impedì che il progetto estense procedesse. I lavori vennero dunque abbandonati quasi subito, e uno schizzo di Francesco Porta del 1558[54] permette di apprezzare lo stato di abbandono in cui la cinta muraria del Castelvecchio rimase, mentre Camporgiano e le Verrucole completavano, con Castelnuovo, capoluogo amministrativo del territorio, il ‘triangolo’ di rocche che – con strutture satelliti di minore impegno – entro la fine del secolo formò il ‘nocciolo’ della rete di fortificazioni, integrata nella seconda metà del Cinquecento da Montalfonso e sopravvissuta fino all’età napoleonica[55].

La tecnica muraria, nonostante la continuità nell’impiego del ciottolo fluviale per il paramento esterno del corpo cementizio che la sostanzia veli le distinzioni tecniche, permette di distinguere i ricorsi delle mura bassomedievali, caratterizzati dalla presenza prevalente di ciottoli sbozzati – regolarmente sulla faccia in vista nel paramento e spesso anche in quelle laterali – e dalla disposizione per filari tendenzialmente regolari e comunque orizzontali (fig. 10, A, 30: 1), da quelli che ad essi si sovrappongono, affidati a ciottoli regolarizzati per spacco solo sulla faccia esterna, di dimensioni eterogenee, integrati da schegge e tasselli per guidare l’orizzonte di posa dei ricorsi (fig. 10, A, 30: 2).  È immediato attribuire questa fase dell’apparato murario all’effimero ed incompiuto recupero quattrocentesco, a cui dovrebbero, di conseguenza, essere riferite anche le finestrelle e le feritoie – arciere o balestriere – ancora conservate nel tessuto murario (fig. 9, D-E) e infine ampiamente restaurate (fig. 8, A-B).

Il dato stratigrafico conferma invece la datazione bassomedievale della tecnica (1) fra XII e XIII secolo. L’ordito delle mura, infatti, pur senza ammorsarvisi, è coerente con quello con cui è realizzato nun ambiente (A: fig. 7, B; 10) che ad esse (30) si addossa, nel settore sud-occidentale dell’area castellana la cui esplorazione ha concesso preziose indicazioni.

Il vano, sub-trapezoidale, largo tra i 5 e i 5,5 m, lungo 7,2, è chiuso a settentrione da una struttura (40) realizzata a faccia vista all’interno, in trincea rispetto alla roccia di base sul lato opposto; a ovest dal muro 41, fondato e appoggiato sulla roccia di base; a sud dalla struttura 45, di spessore leggermente inferiore rispetto alla parete settentrionale (75 cm, contro gli 80 dell’altra), in cui è ben riconoscibile una superficie di decapitazione (44). L’ambiente era dunque depresso rispetto al piano di vita esterno, e vi si accedeva da un’apertura risparmiata nel settore occidentale del lato meridionale, presto tamponata (53).

Lo scavo ha messo in luce una complessa sequenza stratigrafica, alla cui base è un sottile sedimento (49) caratterizzato da pietrisco centimetrico di basalto e da terriccio fine, nerastro per la componente organica, forse di foglie o paglia, vista l’assenza di carboni (fig. 10, C), formatosi sulla superficie (50) di spianamento del pietrisco di base (51) e della stessa roccia viva (52), e da una successione di riporti (fig. 10, B-C).

È possibile distinguere nei livelli inferiori uno strato di scaglie eterogenee con qualche pietra (47); su questo, un riempimento sciolto (48), caotico, di pietre e pietrisco, con sabbia, calcinacci o sfatticci di mura, scaglie da spacco di pietre, terriccio, e alcune schegge di blocchi squadrati (46), probabilmente formato dalla demolizione di strutture murarie. Infine, un orizzonte di terreno marrone, sciolto, composto da pietrisco con terriccio, sabbia, ciottoli, malta sfatta, scaglie di pietra, suggella e livella l’edificio (43), andando a sovrapporsi anche alla parete meridionale (45), nettamente tagliata.

Un corposo letto di malta, che aggetta dal filo della parete (42), copre la sequenza dei livellamenti, e segna il limite dello zoccolo presistente a partire dal quale si provvide alla ricostruzione delle mura, con una tecnica sottilmente, ma manifestamente distinguibile da quella medievale. I sedimenti finiti all’interno dell’ambiente, e quelli esplorati immediatamente all’esterno (90-93) sono infatti omogeneamente caratterizzati da materiali ceramici e monete che ne pongono la formazione nel corso del XIII secolo.

L’olla d’impasto con minuti inclusi sabbiosi, con corpo ovoide e labbro modanato (fig. 12,  5; 13, 7), inglobata nel lato meridionale della struttura 45 è tipo conosciuto a Lucca, in Garfagnana e ancora nel Valdarno in contesti duecenteschi[56]. Poco aggiungono il bicchiere in vetro con fondo convesso (fig. 15, A, 1), dalla US 51; un contesto da Pieve Fosciana la cui datazione fra avanzato XII e inizi del XIII secolo ha il conforto delle associazioni numismatiche, testimonia l’ampia diffusione del vetro nella Garfagnana del Basso Medioevo[57]. Fra le restituzioni ceramiche dallo strato 90 spicca un frammento di forma aperta d’importazione magrebina (fig. 15, A, 2), verosimilmente tunisina, con decorazione in blu di cobalto e manganese, classe diffusa – sia pure in misura marginale – anche a Lucca e nel territorio nel corso del Duecento[58].

Una sola altra struttura (B) è stata individuata ed esplorata all’interno del perimetro castellano, ancora leggermente spostata verso la metà meridionale (fig. 7, B; 11). L’ambiente, scavato nella roccia di base per una profondità di poco superiore al metro, con pianta subrettangolare (lati maggiori di 4,4/4,2 m, minori di 3,2/3,1), ha pareti con un paramento di ciottoli e schegge, la cui irregolarità – tanto nell’allestimento della materia prima che nella disposizione dei ricorsi – avrebbe dovuto essere celata dall’intonaco di malta idraulica, la cui stesura tuttavia fu solo iniziata. Il tritume di laterizi che è parte dei livelli di riempimento indicherebbe infatti che nelle adiacenze si iniziò almeno a preparare un ‘cocciopesto’ di rivestimento, che tuttavia non fu mai messo in opera.

La struttura deve essere ragionevolmente interpretata come cisterna, forse mai completata, ma che poteva comunque essere utilizzata grazie alla impermeabilità della roccia in cui era stata scavata. Una congettura suggestiva, ma assolutamente priva del conforto di dati di scavo, è che la cisterna fosse stata predisposta in funzione della successiva costruzione di un edificio (una torre?) che avrebbe potuto inglobarla al suo interno, garantendo alla struttura l’indispensabile autonomia idrica.

Nelle pareti è riconoscibile una superficie di spoglio (3) che potrebbe essere riferita ad epoca rinascimentale dai frammenti di ingobbiata e graffita cinquecentesca presenti nello strato che la copre (2), suggellando il completo riempimento della struttura. Questo (fig. 11, B) è stato asportato per tagli successivi, che hanno permesso di distinguere – dall’alto verso il basso –  terriccio con pietrisco (4a), che associa materiali medievali e rinascimentali, e copre il paramento della parete settentrionale e di quella orientale; pietrisco di basalto (4b) con abbondanti ciottoli e schegge di lastre di arenaria; terriccio sabbioso con pietrisco minuto (4c); infine, alla base (4d), un livello eterogeneo, di corpi lenticolari spesso intrecciantisi.

La distribuzione dei frammenti ceramici pertinenti agli stessi capi nei vari tagli e la morfologia dei successivi apporti dichiarano la sostanziale omogeneità dell’opera di livellamento della struttura B, conseguita attingendo a stratificazioni formatesi all’esterno dell’area castellana, sbancate per colmarla, dopo che sul suo pavimento, a contatto con lo zoccolo di roccia su cui si fondano le pareti, si erano già sedimentati due sottili livelli (5-6) di terriccio e pietrisco.

I materiali ceramici restituiti dallo strato 4 sono coerenti con le sequenze tipologiche oggi disponibili per la Garfagnana e il territorio lucchese, fra XII e XIII secolo, come attesta in maniera esemplare il boccale d’argilla fine con minuti inclusi sabbiosi restituito da frammenti distribuiti nei vari tagli (fig. 12, 1; 13, 3). Con corpo ovoide, fondo piano, collo appena distinto, ansa a nastro impostata poco sotto il labbro e sul punto di massima espansione del corpo, aderisce al tipo egemone nel citato contesto di Pieve Fosciana, ma ricorre negli stessi decenni anche a Lucca e nel Valdarno[59].

Se si esclude la modesta presenza di residui riferibili ad un orizzonte altomedievale ‘tipo Vagli-Bivio’, anche il complesso dei materiali restituiti dai due saggi – come sottolineano le non episodiche presenze di monete – è coerente con le tipologie duecentesche già note nella Garfagnana della prima metà del Duecento.

Boccali e olle quasi esauriscono il repertorio ceramico, i primi nella redazione esemplificata dal tipo dello stato 4 (fig. 12, 2), le seconde prodotte in un impasto ‘vacuolato’ per dissoluzione di inclusi calcitici, nelle versioni con corpo ovoide, labbro estroflesso, talora semplicemente arrotondato (fig. 12, 3; 13, A, 5) o con l’orlo tagliato a spigolo vivo (fig. 12, 4: 13, A, 6) che prelude all’evoluzione morfologica che porta alle versioni modanate ‘a becco di civetta’ (fig. 12, 5; 13, A, 7), o con labbro diritto ingrossato (fig. 12, 7) che connotano gli orizzonti della prima metà del Duecento[60]. Da segnalare la redazione miniaturistica, dallo strato 4 (fig. 12, 8), e la presenza del tegame, forma non rara nei contesti duecenteschi della Toscana nord-occidentale, ma inconsueta in Garfagnana[61].

Alcuni aspetti della vita quotidiana, legati in modo particolare all’attività di guaita del castello, emergono da altre restituzioni.

La presenza di punte in ferro, di varie dimensioni, per frecce da arco o dardi da balestra (fig. 14, 1), in un caso forse deformate dall’urto con una superficie solida (fig. 14, 2), è usuale nei castelli duecenteschi del territorio[62]; la lama di piccolo coltello appartiene a un manufatto di uso corrente, anche nella pratica della mensa[63].

La presenza di arredi o attrezzature in legno è indicata dai chiodi per ferratura, nella versione di piccolo formato con testa schiacciata ‘a chiave di violino’ (fig. 14, 4)[64], e in quelli di formato decisamente maggiore, con capocchia subquadrangolare o circolare, stelo a sezione quadrata (fig. 14, 5); la chiave bernarda con presa anulare (fig. 14, 6) è probabilmente pertinente ad una serratura da porta, piuttosto che da cassetta[65].

L’uso di cavalcature lascia traccia nei frammenti di ferri equini (fig. 14, 7) e probabilmente anche negli anelli per bardatura, subcircolari (fig. 15, 9) o semicircolari (fig. 14, 8)[66].

L’abbigliamento personale è testimoniato dallo spillone in bronzo con capocchia poliedrica campita da occhi di dado prodondamente impressi (fig. 15, 1) e dalle fibbie – per cintura o per calzatura – in bronzo, con ardiglione mobile in ferro, o in ferro con ardiglione in bronzo (fig. 15, 2)[67]; un pendente in bronzo (fig. 14, 9; 15, 3) potrebbe essere un terminale di cintura[68].

Le lamine in verga di bronzo con doratura provviste di espansione circolare pervia (fig. 14, 10; 15, 5), stando ad una brillante ipotesi[69] potrebbero essere interpretate come elemento metallico di chiusura di scarselle. Ad attività che richiedevano la protezione delle dita – non necessariamente alla cucitura, come nell’uso moderno – erano infine funzionali i ditali in lamina di bronzo ripiegata, campiti da picchiettature (fig. 15, 8)[70].

Alcuni manufatti restano di interpretazione dubbia, come un elemento in ferro con dente di ritegno (fig. 14, 6), o generica, come le lamine in bronzo funzionali al rivestimento di oggetti in altro materiale (fig. 14, 12; 15, 6-7).

Come le fuseruole fittili (fig. 13, 4; 14, 14), le lastre d’arenaria opportunamente ritagliate sì da acquisire una morfologia tendenzialmente subcircolare, di varie dimensioni (fig. 12, 10), sono una presenza usuale – ancorché di interpretazione incerta – nei contesti medievali della Garfagnana[71].

Il gioco – fondamentale diversivo nei lunghi periodi della guardia – lascia traccia nel dado d’osso finito proprio a contatto con la roccia di base nell’edificio A (fig. 13, C)[72] e nella pedina cilindrica con faccia superiore semisferica in cui è immediato riconoscere un pedone per gioco degli scacchi, nella redazione aniconica che connota i tipi fino al XIII secolo[73]. Gioco ‘d’azzardo’ e gioco ‘di sapienza’, come nella prassi affidata all’iconografia del mosaico di San Savino a Piacenza[74] si alternavano dunque nella vita delle guaite, forse talora integrandosi, se questi sono gli anni in cui l’impiego dei dadi per disciplinare le mosse sulla scacchiera è pratica diffusa. Proprio nel gioco potrebbero essere andate perdute le monete che – come si è detto – sono un tratto distintivo e risolutivo, anche per la cronologia, dei contesti del Castelvecchio.

 Dall’indicatore archeologico sembra dunque evidente che negli anni in cui il vescovo e i suoi interlocutori registravano le pattuizioni per il Castelvecchio, la arx o rocha de Sala – denominazioni alternative per la struttura castellana, in riferimento alla sottostante Sala, ‘cuore’ della gestione economica della curtis – era un semplice circuito murario che definiva la sommità della rupe, con strutture adatte ad un ruolo ‘di rappresentanza’, non certo poliorcetico. Le torri previste dai documenti del 1179 e del 1204 rimasero una potenzialità giuridica mai concretata, si direbbe neppure necessaria in un contesto in cui il castello era poco più di una muraglia che incorniciando una vetta ben visibile da larga parte dell’Alta Valle ne faceva il segno del potere signorile, il luogo fisico in cui ‘rappresentare’, agli attori e agli spettatori (i fideles), la consociazione di interessi di consorterie locali e di un potere relativamente remoto, quale quello del vescovo di Lucca, nel gioco di equilibri che le pagine del Savigni delineano con ricchezza di particolari nel Duecento della Garfagnana.

Se si dovesse prendere alla lettera il documento del 1179, le due sole strutture che occupavano la vetta del Castelvecchio – il dongione – parrebbero disposte nel settore di pertinenza dei beneficiari del vescovo, meridionale, quasi che a loro competesse l’effettiva cura delle pur esigue potenzialità ‘militari’ della rocca, o fossero i soli interessati a completare la rete di strutture castellane di loro competenza, da San Michele a San Donnino, sfruttando la facoltà riconosciuta dal patto del 1179. La cisterna, pur nella sua realizzazione come semplice vasca, è indispensabile ad assicurare una pur modesta autonomia alle guaite che potevano trovare ricetto nell’ambiente addossato al lato sud-orientale della cerchia, un edificio le cui pareti hanno uno spessore certamente inadatto a farne una torre, ma sufficiente a farlo comunque spiccare oltre le mura castellane, sì da imporsi – integrato eventualmente da un apparato ligneo – a chi veniva da Lucca, risalendo sulla sinistra del fiume, e a San Donnino – al limite meridionale della curia controllata dai ‘nobili di San Michele’[75], i filii Guidi – poteva immediatamente riconoscere il centro di potere del territorio in cui stava entrando.

Come emerge dagli atti per Sala e Borsigliana del 1255, voluti dal vescovo Guercio, con i quali gli uomini dei due villaggi ‘rimodularono’ i loro obblighi verso l’episcopato, mantendendo quelli ‘militari’, ancora dopo la metà del Duecento i fideles della curia erano tenuti all’obbligo delle guaite, la cui immagine archeologica è evidente nelle restituzioni delle stratigrafie[76].

Si potrà semmai valutare se anche in questi anni, mentre lo stato territoriale lucchese si stava consolidando anche in Garfagnana, ridimensionando progressivamente i relitti delle strutture signorili, la guardia al castello che sembra ormai tornato nel controllo esclusivo del vescovo fosse un’ipotesi teorica, da conservare negli atti giuridici, piuttosto che una concreta esigenza; sullo scorcio finale del secolo comunque il dato archeologico certifica che le strutture sono abbandonate e livellate di macerie.

Concludendo, alla straordinaria varietà dei tipi di castelli, minuziosamente analizzati per la Garfagnana dalla Giovannetti[77], i documenti e di dati di scavo del Castelvecchio/rocha de Sala aggiungono il concreto caso di un castello nato e vissuto, forse per pochi decenni, come testimone di pietra dell’intreccio di ruoli fra vescovo e famiglie ‘egemoni’ nell’Alta Valle, per eclissarsi infine con l’affermazione definitiva del Comune di Lucca nella Garfagnana.

Ancora al ruolo minore di ‘segno del potere’ vescovile in questo lembo di Garfagnana si deve, verosimilmente, l’assenza del Castelvecchio, seppure ancora citato come rocha de Sala nei documenti della metà del Trecento[78], nella struttura militare della Garfagnana lucchese del Tardo Medioevo, perfettamente ricostruibile con la documentazione d’archivio più ancora che con l’evidenza monumentale[79].

Da questa sua connotazione scaturì forse l’impegno con cui, nell’ottobre del 1445, gli abitanti della contrada, dissoltosi il potere lucchese, si diedero a demolirlo[80], per poi doverlo di nuovo ricostruire, sia pur senza giungere ad alcun risultato per l’effetto dei reclami del vescovo di Lucca e per l’intervento del Pontefice, qualche anno dopo[81].



I paladini: divagazioni e suggestioni per il rilievo di Careggine



Come per l’Alto Medioevo si è tentato di ricercare nei rilievi di Vitoio o di Vagli immagini da affiancare a quella proposta dal dato degli insediamenti metallurgici, così non si può sfuggire alla suggestione di giustapporre al dato di scavo dei castelli una delle più enigmatiche testimonianze figurative della Garfagnana medievale: il rilievo ancora inserito nel campanile della chiesa di Careggine, oggetto di ripetuto interesse (fig. 16, A-B)[82].

I dati d’archivio della Soprintendenza per i Beni Archeologici per la Toscana[83] confermano che la lastra fu ritrovata nel maggio del 1923, e salvata – appunto – con il reimpiego già osservato l’anno successivo dal Soprintendente Edoardo Galli, quando poté finalmente procedere al sopralluogo di controllo della segnalazione, dovuta all’Ispettore Onorario di Castelnuovo.

La nota da Castelnuovo Garfagnana del 28 giugno 1923, con cui l’Ispettore Onorario per i Monumenti, Giovanni Giorgi, comunica il ritrovamento, è sintetica ed esauriente: «Mi viene riferito che nel paese di Careggine, comune di Garfagnana, nelle adiacenze del campanile, è stato scoperto un sarcofago antico scolpito. Ne ignoro l’importanza artistica e l’epoca, ma perché non debba andare perduto o rimosso, anche ciò che può contenere, l’avverto subito acciocché Ella possa prendere i provvedimenti del caso. Io a buon conto ho scritto al Sindaco del paese pregandolo di occuparsene e sentiremo che cosa risponderà.

Si deve attendere non poco perché il Soprintendente Galli possa provvedere al sopralluogo. Il 4 agosto 1924 infine – pochi giorni dopo il viaggio a Careggine – dà conto del suo sopralluogo in una missiva indirizzata, per competenza, al «R. Soprintendente per l’Arte (Galleria degli Uffizi)». Dopo aver fatto cenno alla segnalazione del Giorgi, il Galli si addentra nell’analisi delle circostanze del ritrovamento e della figurazione:

«Il monumento in questione, per sottrarlo alle ingiurie dei ragazzi del paese, era stato intanto murato dietro il campanile, dalla parte della strada; ma non trattasi di sarcofago, sibbene di una lastra rettangolare, che potrebbe aver costituito il fronte di un sarcofago.

Per verificare la cosa occorrerebbe però togliere dal muro la lastra, ed esaminarla a tergo.

Il lastrone in parola non è di marmo, ma di un calacre molto compatto, di color giallognolo, e misura m. 1,55 di lunghezza; m. 0,68 in altezza; e circa 7 centimetri di spessore[84]: lo spigolo destro superiore è perduto.

Il lastrone fu scoperto nel Maggio del 1923 a ridosso della chiesa, e copriva in senso normale, cioè con la parte rilevata volta all’esterno, una specie di loculo, ad una certa altezza da terra e nascosto da una scala, il quale conteneva uno scheletro benissimo conservato.

L’interesse principale di questo monumento è costituito però dalla strana ed oscura figurazione che porta scolpita a bassorilievo.

Come mostra la fotografia da me eseguita e che allego [= fig. 16, A], la scena consiste di due sommarie figure di prospetto, rese con concezione e tecnica del tutto infantile, con una prospettiva rudimentale ed errata, con caratteri e particolari insomma che pur non trovando riscontri nella scultura dell’età classica, suscitano vivo interesse, perchè denotano un’arte decadente con ritorno a concezioni ed a schemi primitivi.

È probabile quindi che si abbia in questa scultura un tentativo artistico del periodo barbarico o dell’età romanica[85].

Nell’intenzione dell’artista i due personaggi sono differenziati per il sesso: quello a destra, evidentemente maschile, è nudo, e nella mano sinistra alzata stringe una lancia; mentre l’altro – femminile – veste una specie di camicia aperta sul petto e fra le anche, e con la destra pure alzata impugna una spada, ora quasi del tutto perduta ma avente la caratteristica guardia ad S, ignota nelle armature greco - etrusche e romane.

Le teste di entrambi i personaggi sono tondeggianti e piatte senza i particolari dei capelli; quella della donna mostra, ad un piano inferiore, le orecchie grandi e deformi; gli occhi sono circolari ed infossati; il naso quasi rettangolare; il taglio orizzontale della bocca pure infossato. Queste due strane figure hanno i piedi divergenti sulla medesima linea prospettica, e portano grosse scarpe contadinesche di tipo non classico.

Sebbene i due personaggi, evidentemente antitetici per le armi che impugnano e per il sesso, si tengano per mano (la mano sinistra alzata della donna stringe infatti quella dell’uomo), è certo tuttavia che essi esprimano una reciproca minaccia e stiano per azzuffarsi.

Quale possa essere il recondito significato di tale lotta non resta agevole capire: è probabile che si tratti di una rappresentazione allegorica, però concepita e resa in schema ben definito.

Nessuna traccia infatti notai sul lastrone che potesse far pensare ad altri elementi concomitanti e poi abrasi.

Tanto ho creduto opportuno e doveroso di riferire alla S.V. per i provvedimenti che crederà di adottare al riguardo, aggiungendo – per norma di codesto Ufficio – che il parroco della schiesa di S.Pietro in Careggine è il rev. Don Domenico Bertolini».

A parte il fascino del tormento esegetico che il rilievo di Careggine indusse nel Galli, la relazione poco aggiunge a quanto sin qui noto, ma conferma che il rilievo non ha subito perdite – se si esclude qualche incisione – nel novantennio trascorso dal ritrovamento. È altrettanto evidente che la lastra, seppure ritrovata in opera in una sepoltura, non era parte di un ‘sarcofago’, a meno che questo non fosse formato da più lastre indipendenti; d’altronde, non è da escludere che la collocazione in cui fu ritrovata nel 1923 non fosse originaria, mentre la perfetta conservazione del rilievo, e la posizione stessa della lancia esibita dal personaggio di destra, che segue esattemente la linea obliqua dell’angolo superiore destro del rilievo, inducono a sospettare che questo fosse destinato ad una collocazione in cui la morfologia non perfettamente rettangolare della lastra non induceva particolari problemi.

La massa dei materiali oggi disponibili sulle produzioni artistiche della Valle del Serchio del XII secolo, con i rilievi che traducono le innovazioni della plastica romanica in un linguaggio spiccatamente popolare – ‘plebeo’, per ripetere la lucida definizione di Ranuccio Bianchi Bandinelli per l’età romana – caratterizzato dalla tradizione altomedievale del rilievo piatto integrato da particolari incisi, assurgendo peraltro a collocazioni ‘di prestigio’, come nella facciata di San Cassiano di Controne[86], permette oggi un comodo inquadramento cronologico del rilievo di Careggine.

Per la tormentata esegesi della figurazione, chiaramente formata da due immagini di guerrieri, uno nudo, l’altro abbigliato, si potrà segnalare che gli esametri dedicati da Raoul di Caen (Radulphus Cadomensis), attivo entro il 1118, alle imprese eroiche di Ugo di Vermandois e di Roberto conte delle Fiandre a Dorileo, nel 1097



Rollandum dicas Olliveriumque renatos,

si comitum spectes hunc hasta, hunc ense furentem,



riprendendo dalla Chanson de Roland l’invito di Orlando a Oliviero, per l’ultima battaglia[87]



fier de la lance et jo de Durendal



parrebbero una vera e propria didascalia del rilievo di Careggine, con i due guerrieri che tenendosi per mano, in segno iconografico del compagnonnage cavalleresco, si gettano nella mischia, uno con la spada, l’altro con la lancia.

Rimane enigmatica la nudità del guerriero di destra – il possibile Oliviero, data la connotazione dell’arma.

In effetti, una delle rare figurazioni di nudo maschile del XII secolo del Romanico di Toscana, il San Nicola del Primo Lavacro firmato da Biduino, poco dopo il 1180, per l’architrave del San Salvatore di Lucca (fig. 16, C) non lascia dubbi sull’esegesi della figura nuda, ed è plausibilmente la fonte ‘colta’ cui lo scultore attivo per Careggine attinse anche lo schema iconografico, fin nella scansione della mano e dell’avambraccio ottenuta con una linea incisa, e nel minuzioso trattamento dei genitali. Si annoterà, inoltre, che la nudità della figura di destra è integrale, giacché anche i piedi non sono calzati: il profilo continuo della gamba, infatti, è un tratto iconografico nettamente distinto dal risalto delle calzature del guerriero armato di spada.

Se dunque la suggestione di Biduino invita a collocare il rilievo di Careggine sul finire del XII secolo, quando del resto i temi iconografici propagati dalle opere cavalleresche compaiono con qualche frequenza anche nella scultura, è il cavaliere nudo con olifante del mosaico della cattedrale di Otranto, voluto vent’anni prima dal presbitero Pantaleone[88] ad aprire una possibile chiave di lettura. La nudità del paladino potrebbe infatti essere intesa come segno della purificazione ritrovata, quasi che l’ultima mischia fosse una sorta di nuovo battesimo.

La proposta esegetica è ovviamente da verificare e valutare, ma sembra indubbio che il rilievo di Careggine, fosse o meno destinato ad un monumento funerario che nella fronte figurata richiamava i sarcofagi romani – come quello allestito per il pievano Lieto, a Lammari, da Biduino, o dalla sua scuola – aderisce alle tematiche cavalleresche in cui i domini dei castelli di Garfagnana del XII e XIII secolo potevano riconoscere e proiettare i loro ideali. (G.C. – P.N. – S.F.)



Appendice: le monete del Castelvecchio



Nel corso degli scavi del Castelvecchio sono stati rinvenuti nove esemplari, appartenenti alle zecche di Lucca (4), Bologna (1), Parma (2) e Pisa (2), databili tra la II metà del XII e la prima metà del XIII secolo. Nonostante il loro numero sia piuttosto esiguo, rispetto ad altri complessi monetali attestati nella stessa Garfagnana od in zone limitrofe[89], essi appaiono comunque in grado di fornire interessanti indicazioni riguardo alla circolazione nell’area ed anche alla natura stessa del sito di indagine, come vedremo. I pezzi più antichi sono forse alcuni enriciani della zecca di Lucca, e potrebbero risultare non troppo distanti dalle prime citazioni del Castelvecchio nella documentazione archivistica (anni ’60 del XII secolo)[90]. Purtroppo la conservazione di tali pezzi, nonché le difficoltà di classificazione proprie di questa serie lucchese, rendono difficile avere certezze in proposito, ma gli esemplari nn. 1 e forse 2 sembrano appartenere al tipo H5a della classificazione di Matzke, che porterebbe la loro cronologia al 1181/2-1200[91]. Solo poco più tarde le altre monete lucchesi (nn. 3-4), la cui datazione non dovrebbe spingersi oltre il 1216/7[92]. Al XII secolo appartiene anche il denaro di Bologna, il famoso ‘bolognino’ (n. 5). Tradizionalmente questa serie monetale viene datata molto genericamente dal 1191 al 1337 (così nel Corpus, ad esempio), perché non offre elementi certi di seriazione cronologica, ma recentemente è stata meglio definita, sulla base di elementi stilistici nel complesso validi. L’esemplare qui attestato dovrebbe appartenere alla prima serie, caratterizzata dalla lettera A del dritto sormontata da un apice a forma di ‘capriolo’ (o ‘scaglione’: una specie di V molto larga) rovesciato, serie che è stata datata dall’apertura della zecca di Bologna all’introduzione del grosso (1191-1236)[93]. Ai primi decenni del XIII secolo appartengono certamente anche i due denari di Parma, visto che portano il nome dell’autorità emittente, nel caso in esame Filippo di Svevia (1198-1208) ed Ottone di Brunswick (1198-1218, imperatore dal 1209) (nn. 6-7). L’analisi delle fonti e dei rinvenimenti ha consentito una datazione ancora più stretta, riportata nelle schede, riguardo alla quale permangono però ancora delle piccole incertezze[94]. Leggermente più tarde risultano le due monete pisane (nn. 8-9), denari piccoli di una serie caratterizzata da un cerchietto centrale al rovescio che solo recentemente è stata oggetto di approfondite analisi, che ne hanno fissato la cronologia complessiva dagli inizi agli anni ’60 del XIII secolo[95]. Le condizioni di conservazione non sono tali da consentire per il primo esemplare un’attribuzione ai sottogruppi individuati dalla bibliografia precedente, mentre il n. 9, con un bisante tra le braccia della F al dritto, appartiene ad una rara variante individuata recentemente, per la quale è stata ipotizzata una cronologia successiva al 1252, sia pure con qualche dubbio[96]. Questa data dovrebbe quindi costituire anche il tpq per la possibile cessazione di un’attività monetaria nel sito.

Come abbiamo accennato, per quanto poco numerosi, gli esemplari rinvenuti possono dare comunque qualche informazione riguardo alla natura del contesto. Qualche anno fa abbiamo approfondito il tema della circolazione monetaria nelle regioni alpine ed appenniniche settentrionali, per giungere alla conclusione che questa si presenta molto più varia e ricca che nelle apparentemente ben più floride regioni di pianura. Una possibile spiegazione appare quella che l’economia delle regioni montuose fosse piuttosto povera, e quindi al notevole afflusso di moneta, dovuto al continuo passaggio di uomini, non facesse riscontro una pari disponibilità di beni nei mercati locali. Di conseguenza le monete lì affluite avrebbero teso a svalutarsi per eccesso di “offerta”, al punto da essere poi utilizzate nei piccoli scambi e quindi perse con maggiore facilità che altrove[97]. In effetti questa varietà appare testimoniata anche nelle vicinanze di Piazza al Serchio, sia nella stessa Garfagnana come a Pieve Fosciana[98] ed al Castello di Verrucchio[99], ad esempio, sia sull’altro versante a Vairo[100]. Quindi la presenza di ben quattro diverse zecche su nove monete potrebbe imputarsi, anche nel sito del Castelvecchio, al passaggio di uomini e merci. Tuttavia le monete qui rappresentate, alcune della quali assai rare in altri siti di questo versante appenninico meridionale, come i denari parmensi, appaiono legate dall’avere lo stesso valore di conto pari un terzo dell’imperiale, valore di conto che all’epoca probabilmente cominciava ad essere registrato in queste aree lucchesi periferiche con il nome anche di ‘bolognino’, non più solo di ‘lucchese’, come è ben attestato nella documentazione relativa alla vicina località di Soraggio[101]. Si potrebbe quindi ritenere che questi pochi spiccioli, più che frutto di traffici di lungo percorso, fossero parte del peculio conteggiato in denari lucchesi e poi bolognini degli addetti al castello, ai quali sicuramente non dovevano mancare occasioni di scambiarlo e di perderlo, nella lunghe giornate, possiamo immaginare piuttosto monotone, vissute entro «un semplice circuito murario che definiva la sommità della rupe, con strutture adatte ad un ruolo ‘di rappresentanza’, non certo poliorcetico»[102]. (A.S.)



Schede (fig. 13, C)





1)         US 4b (area edificio B, ‘cisterna’)

         Lucca, a nome di Enrico imperatore

         denaro, 1181/2-1200

                  D/ [IM]PER[ATOR] nel campo, monogramma di Otto in forma di H

                  R/ [ENRIC]V[S] nel campo, [LV]C[A] disposto a croce attorno a bisante

         MI, g 0,64, mm 1,64; Matzke 1993, gruppo H 5a.



2)         Sporadico, terra di discarica area C numero 3        

         Lucca, a nome di Enrico imperatore

         denaro, 1181/2-1200?

                  D/ [IMPERATOR] nel campo, monogramma di Otto in forma di H

                  R/ [ENRICVS] nel campo, [LVCA] disposto a croce attorno a bisante

         MI, g 0,55 (rotta), mm 1,60; Matzke 1993, gruppo H 5a.



3)         Sporadico, terra di discarica area C, numero 2

         Lucca, a nome di Enrico imperatore

         denaro, 1200?-1216/7

                  D/ [IMPERA]TOR nel campo, monogramma di Otto in forma di H

                  R/ EN[RICVS] nel campo, LVCA disposto a croce attorno a bisante

         MI, g 0,44, mm 1,59; Matzke 1993, gruppo H 5b.



4)         Area C US 47

         Lucca, a nome di Enrico imperatore

         denaro, 1200?-1216/7

                  D/ [IM]PERA[TOR] nel campo, monogramma di Otto in forma di H

                  R/ EN[RICVS] nel campo, LVCA disposto a croce attorno a bisante

         MI, g 0,68, mm 1,63; Matzke 1993, gruppo H 5b.



5)          US 93 (area edificio A)

         Bologna, a nome di Enrico VI imperatore

         Denaro bolognino, 1191-1236

                  D/ + ENRICVS nel campo, IPTR disposto a croce tra bisanti

                  R/ + •BO•NO•NI•. nel campo, A

         MI, g 0,49, mm 1,52; Chimienti 2009, n. 1.



6)         US 4 a (area edificio B, ‘cisterna’)

         Parma, a nome di Filippo di Svevia re

         denaro 1207-1208 (?) oppure 1211-1220 (?)

                  D/ + FILIPVS porta urbica tra bisanti

                  R/ + •P•A•R•M•A nel campo, RE / X tra bisanti

         MI, g 0,49, mm 1,54; CNI IX, p. 396, n. 2; per la cronologia v. Bazzini 2006, cit. nota 37, p. 266, n. 192.



7)         Sporadico, a fianco muro a nord area A

         Parma, a nome di Ottone IV di Brunswick re

         denaro 1206-1207 (?) oppure 1209-1210 (?)

                  D/ + OTTVS porta urbica tra bisanti

                  R/ + •P•A•R•M•A• nel campo, RE / X tra bisanti

         MI, g 0,49, mm 1,49; CNI IX, p. 397, n. 2; per la cronologia v. Bazzini 2006, p. 266, n. 192.



8)          Mucchi di terra di discarica area C, numero 1

         Pisa, a nome di Federico imperatore

         denaro, 1216/7-1260 c.

                  D/ [IMPERATOR] nel campo, F

                  R/ [FREDERICVS] nel campo, [PISA] disposto a croce attorno a cerchietto

         MI, g 0,57, mm 1,50; Baldassarri 2010, gruppo F IV.



9)          Sporadica, esterno cinta muraria

         Pisa, a nome di Federico imperatore

         denaro, 1252 (?) -1260 c.

                  D/ IMPERATOR nel campo, F, bisante tra le due braccia

                  R/ [FREDERICVS] nel campo [PISA] disposto a croce attorno a cerchietto

         MI, g 0,57, mm 1,50; Baldassarri, gruppo F IV; per la cronologia, v. Saccocci 2012, p. 74. (A.S.)





Abbreviazioni bibliografiche



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Willemsen 1980: C.A. Willemsen, L’enigma di Otranto. Il mosaico pavimentale del presbietro Pantaleone nella cattedrale, Lecce 1980.





Didascalie alle figure



Fig. 1. A. siti menzionati nel testo, riferiti alla Carta Mirandoli del Ducato di Lucca (1846, per gentile disponibilità della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca); B: veduta dell’area della Villetta-Aiaraccia, durante i lavori di costruzione della RSA (la freccia indica l’area di scavo); C: sequenza con stratificazioni altomedievali.

Fig. 2. Materiali dallo scavo della Villetta-Aiaraccia: restituzione grafica (A: Silvio Fioravanti) e vedute (B).

Fig. 3. Materiali da Vagli-Bivio: ceramiche (A); scaglie di ematite, scorie di lavorazione del ferro (B):

Fig. 4. A: denaro pavese di Ottone II da Cima La Foce; B: armilla in bronzo da Roccalberti; C: siti con affioramenti di resti di attività metallurgiche e ceramiche altomedievali a Roggio; D: ceramiche altomedievali da Roggio: D: scaglie di ematite e scorie di lavorazione del ferro da Roggio (E).

Fig. 5. A: siti con affioramenti di resti di attività metallurgiche e ceramiche altomedievali a Vitoio; rilievi con decorazioni geometriche da Vitoio (B-C) e Careggine (D).

Fig. 6. Capitelli figurati nel Sant’Agostino di Vagli.

Fig. 7. Il rilievo del Castelvecchio di Piazza al Serchio nella veduta aerea successiva al completamento dei lavori di restauro, riferita alla Carta Mirandoli del Ducato di Lucca (A); planimetria complessiva dell’area castellana e dei saggi di scavo (B):

Fig. 8. La cinta muraria del Castelvecchio prima (A) e dopo (B) i lavori di sreaturo; il saggio dell’area B nell’estate 2004 (C).

Fig. 9. La porta meridionale del Castelvecchio negli anni Novanta del secolo scorso (A); la postierla settentrionale, vista dall’interno (B) e dall’esterno (C); particolare dell’elevato murario, con feritoia arciera, prima dei lavori di restauro (D-E).

Fig. 10. Il saggio dell’Area A: vedute.

Fig. 11. Il saggio dell’area B: vedute.

Fig. 12. Materiali ceramici e litici dai saggi del Castelvecchio. Restituzione grafica  di S. Fioravanti.

Fig. 13. Materiali ceramici e vetro (A); dado in osso (B); monete (C), dai saggi del Castelvecchio.

Fig. 14. Reperti in metallo, osso e fuseruole dai saggi del Castelvecchio. Restituzione grafica  di S. Fioravanti.

Fig. 15. Reperti in metallo dai saggi del Castelvecchio.

Fig. 16. Rilievo con figurazione di armati inserito nel campanile del San Pietro di Careggine: lastra fotografica dell’Archivio della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, 1924 (A); stato attuale (B); Biduino, architrave con Primo Lavacro di San Nicola, Lucca, chiesa di San Salvatore (particolare, C).




[1] Si veda l’edizione in Ciampoltrini – Notini 2011.
[2] Ciampoltrini – Notini – Fioravanti – Spataro 2012, in particolare pp. 15 ss.
[3] Sintesi in Ciampoltrini – Notini – Fioravanti 2013.
[4] Rispettivamente Notini – Raggi – Rossi – Vangi 1998; Ciampoltrini – Notini – Rossi 1996; Ciampoltrini – Notini – Rossi 1998.
[5] Notini – Raggi – Rossi – Vangi 1998.
[6] Per Lucca ancora Ciampoltrini 2003, pp. 149 ss.; per l’area lucchese del Valdarno, si veda Ciampoltrini – Manfredini – Spataro 2007, in particolare pp. 33 ss., con altri riferimenti bibliografici.
[7] La terminologia è quella di Ciampoltrini 1998.
[8] Ciampoltrini 2003, pp. 153 ss.; p. 157 per un’anticipazione sui materiali della Loggia dei Mercanti.
[9] Per questi Ciampoltrini 2011, pp. 42 ss., con riferimento a Ciampoltrini 1998, pp. 293 ss.
[10] Si veda a tal proposito, dopo Notini – Raggi – Rossi – Vangi 1994, il contributo di Notini 2009.
[11] Notini – Raggi – Rossi – Vangi 1998, pp. 329 ss.
[12] Si veda già Ciampoltrini 2003, p. 158.
[13] CiampoltriniAbela – Bianchini – Zecchini 2003, pp. 286 ss.
[14] Ciampoltrini – Notini – Rossi 1998, pp. 278 ss., fig. 21; Notini – Raggi – Rossi – Vangi 1998, pp. 329 s.
[15] Per la cronologia si veda Saccocci 2001-2002, pp. 173 s.
[16] Per le risorse minerarie delle Apuane, si rinvia al classico lavoro di Carobbi – Rodolico 1976, con le aggiunte bibliografiche di Francovich – Farinelli 1994.
[17] Se ne vedano le anticipazioni puntualmente proposte da Paolo Notini sul Corriere di Garfagnana, in particolare nelle annate 2012-2013.
[18] Possibile affinità con i tipi d’area nord-italica che dalla media età imperiale giungono sino alla Tarda Antichità, caratterizzati dalla decorazione incisa che modella l’estremità ‘a testa di serpente’: si rinvia, ad esempio, a Bolla 1996, in particolare pp. 62 ss., fig. 14.
[19] Per l’ambito della Toscana nord-occidentale, si rinvia da ultimo a Alberigi – Ciampoltrini 2012, pp. 25 s.
[20] Supra, nota 17.
[21] Si rinvia a Ciampoltrini 1998, pp. 42 ss., passim.
[22] FrancovichFarinelli 1994.
[23] Inventari 1979, passim.
[24] Ciampoltrini 2003, p. 158.
[25] Il loro recupero si deve alla sensibilità dei sigg. Battista e Fabio Corrieri, proprietari dell’immobile in cui sono messi in opera, che si ringrazianop per la segnalazione e l’invito alla loro valutazione; anticipazioni in Notini 2009, anche per le valutazioni sull’evidenza documentaria altomedievale per Vitoio.
[26] Ambrosi 1960.
[27] Ambrosi 1960, pp. 170 ss.
[28] Per il Sant’Agostino di Vagli, dopo le pagine di Conti 1960, si veda la silloge di Verdigi 1991.
[29] Edizione in Belli Barsali 1959, pp. 37 s.; per la cronologia, si veda la proposta di Ciampoltrini 1991, p. 47, nota 66.
[30] Bisconti – De Maria 1988, pp. 454 ss.
[31] Per questa si veda ad esempio Longobardi 1991, p. 303, VII.1 (C. Ghisalberti).
[32] Per questa si rinvia ancora a Ciampoltrini 1991 a; Ciampoltrini 1991 b.
[33] Ducci 2010, p. 180 ss., in particolare p. 182.
[34] Si vedano le valutazioni di Ciampoltrini 1992, p. 721, figg. 29-30, a proposito dei rilievi emersi dagli scavi in Santa Giustina di Lucca.
[35] Baracchini 1992, passim.
[36] MD 1838, p. 273, doc. 457 (823); p. 277, doc. 463 (824); p. 430, doc. 715 (855), ecc.
[37] Per questa si rinvia a Giovannetti – Romiti 2010, p. 89, n. 39.
[38] Garfagnana 2010, in particolare con i contributi di Savigni 2010; Giovannetti – Romiti 2010; Angelini 2010.
[39] La documentazione è stata affidata a Paolo Notini, con la collaborazione di Silvio Fioravanti, e la direzione scientifica della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Preziosa è stata, oltre alla disponibilità continuamente assicurata dall’Amministrazione Comunale di Piazza al Serchio, la collaborazione di Guido Rossi, Nicola Salotti, Massimo Gaddini.
[40] Si veda ad esempio Pearce 1995, pp. 195 ss.
[41] Per la presentazione dei materiali del Bronzo Finale di Castelvecchio si veda Ciampoltrini – Notini 2008, pp. 565 ss.; da ultimo Ciampoltrini 2010, pp. 81 s.
[42] Ciampoltrini – Notini 2005, pp. 67 ss.
[43] Per questa nella Garfagnana, e per la sua possibile costruzione in età augustea, si rinvia a CiampoltriniNotini – Spataro 2006, in particolare pp. 61 ss.
[44] Ciampoltrini 1984, pp. 297 ss.
[45] Savigni 1998, pp. 74 ss.
[46] Il documento è in Archivio Arcivescovile di Lucca (oggi Archivio Diocesano di Lucca, in seguito AAL), ++Q 6, 1179 novembre 14; per le edizioni Savigni 1998, pp. 75 ss., nota 118.
[47] Giovannetti 1998, p. 293, nota 16; ancora utile De Stefani 1925, pp. 95 s.
[48] Giovannetti 1998, p. 293, nota 16.
[49] Savigni 1998, pp. 76 ss., con riferimento ad AAL, +P 39, 1204 giugno 25.
[50] Per la planimetria dei ruderi della cerchia, sostanzialmente non modificata dai lavori degli anni Duemila, si veda già Giovannetti 1998, fig. 6.
[51] Saccocci, Appendice.
[52] Ciampoltrini – Notini – Rossi 2000, p. 284, nota 3, con riferimento a Pacchi 1785, p. LXIII.
[53] Una sintetica rassegna in Seghieri 1980; per l’esaurimento dei diritti feudali del vescovo di Lucca nel territorio di Piazza, del 1787, si veda De Stefani 1925, p. 200. Da ultimo recensione delle fonti e dell’evidenza monumentale in Angelini 2010.
[54] Bertuzzi – Vaccari 1993, fig. 1, ripreso da Giovannetti 1998, fig. 4.
[55] Si veda Ciampoltrini – Notini – Rossi 2000, pp. 283 s.
[56] Ciampoltrini – Notini – Rossi 1996, pp. 302 ss., figg. 5-6; Ciampoltrini – Notini – Rossi 1998, pp. 249 ss., figg. 7-8; Alberigi – Ciampoltrini 2012, p. 40, fig. 65.
[57] Ciampoltrini – Notini – Rossi 1996, pp. 307 ss., figg. 8-9.
[58] Si rinvia da ultimo a Ciampoltrini 2012, p. 19.
[59] Ciampoltrini – Notini – Rossi 1996, in particolare figg. 5-6; in generale, si veda da ultimo Alberigi – Ciampoltrini 2012, p. 36, fig. 63, 1.
[60] Alberigi – Ciampoltrini 2012, p. 40, fig. 65.
[61] Alberigi – Ciampoltrini 2012, p. 40, fig. 64; per la presenza in Garfagnana, si rinvia a Ciampoltrini – Notini – Rossi 1998, p. 253, fig. 8, 4.
[62] Per la Garfagnana, da ultimo Ciampoltrini – Notini 2007, pp. 25 s., figg. 17 e 20, con altri riferimenti al territorio e tipologici; in generale, si veda la tipologia di Campiglia  2003, pp. 395 ss. (D. De Luca).
[63] Si veda la redazione di formato maggiore dall’area della Pieve, nella stessa Piazza: Ciampoltrini 1984, p. 306. Per gli esemplari di Pieve Fosciana, Ciampoltrini – Notini – Rossi 1996, p. 297. Altri riferimenti in Campiglia 2003, pp. 424 s. (M. Belli).
[64] Per la Garfagnana Ciampoltrini – Notini 2007, p. 25, fig. 17, 14-15; in generale Campiglia 2003, p. 430 (M. Belli).
[65] Campiglia 2003, p. 429 (M. Belli)
[66] Per i ferri da cavallo medievali nel territorio, riferimenti in Alberigi – Ciampoltrini 2012, p. 45, fig. 71, con altri riferimenti; per gli elementi di bardatura Ciampoltrini – Notini – Rossi 1998, p. 281, fig. 24.
[67] Per la Garfagnana, ad esempio Ciampoltrini 1984, pp. 304 ss., e, in generale, la tipologia proposta in Campiglia 2003, pp. 425 ss. (M. Belli).
[68] Si veda l’analogo esemplare dalle Verrucole: Ciampoltrini – Notini 2007, p. 25, fig. 17, 13, con ulteriori riferimenti.
[69] Poggio Imperiale 1996,  pp. 332 ss. (C. Cicali – C. Felici).
[70] Campiglia 2003, pp. 427 s. (M. Belli).
[71] Da ultimo Ciampoltrini – Notini 2007, p. 26, fig. 22, con altri riferimenti
[72] Per il tipo, peraltro di lunghissima durata, si rinvia a Campiglia 2003, pp. 456 s. (G. Bianchi).
[73] Comoda sintesi in Cassavoy 2004, in particolare pp. 333 s., GP 6,
[74] Classico Tronzo 1977.
[75] Per la perimetrazione di questi ambiti ancora utile De Stefani 1925, pp. 95 s.
[76] Savigni 1998, p. 79, nota 127: è prevista la «custodiam et chiusuram Roche de Sala».
[77] Giovannetti 1998, in particolare pp. 300 ss., con le osservazioni di Savigni 2010 e Giovannetti – Romiti 2010.
[78] Savigni 1998, pp. 80 s.
[79] Ciampoltrini - Notini - Rossi 2000, pp. 283 s.; da ultimo Savigni 2010.
[80] De Stefani 1925, p. 197, nota 197.
[81] De Stefani 1925, pp. 199 s.; Angelini 2010.
[82] Si veda Ambrosi 1960, pp. 172 ss.; Lera 1985, pp. 9 ss.
[83] Archivio SBAT, Anno 1920-1925, pos. 9, fascicolo Massa Carrara 34.
[84] Misure attuali, reali: lunghezza 144 cm, altezza 68.
[85] «dell’età romanica» aggiunto, manoscritto.
[86] Per questa Taddei 2004.
[87] Rispettivamente Radulphus Cadomensis, Gesta Tancredi in expeditione Hierosolymitana, cap. XXIX; Chanson de Roland, v. 1120.
[88] Willemsen 1980.
[89] Ci riferiamo ad esempio ai siti della Chiesa di San Giovanni a Pieve Fosciana in Garfagnana (CiampoltriniNotini – Rossi 1996, pp. 299 e 322 ss.) e di Vairo in Val d’Enza nel Parmense (Bacchini 2000). Il numero di esemplari di Castelvecchio, comunque, appare in sintonia con quello di gran parte dei rinvenimenti da siti della Garfagnana; si veda Rossi 1998.
[90] V. sopra, testo corrispondente alle note 46-49.
[91] Matzke 1993, p. 191, nn. 53-55.
[92] Perché da quella data dovrebbe iniziare la serie successiva secondo le ricerche più recenti; cfr. Saccocci 2012, pp. 75 s., e bibliografia ivi citata.
[93] Chimienti 2009, p. 91.
[94] Bazzini 2006, pp. 266 s., nn. 192-193.
[95] Si veda Baldassarri 2010, pp. 92 ss., e 193 ss., nn. F.IV.1-5; l’inizio di queste emissioni è stato ipotizzato al 1216/7 da Matzke 1993, p. 178 e successivamente Saccocci 2012, p. 74.
[96] Saccocci 2012, pp. 74 s. e 79, nn. 125-127.
[97] Saccocci 2005; un tema simile, ma con maggior attenzione agli scambi di lungo percorso, anziché alla circolazione in ambito locale, è stato quasi contemporaneamente affrontato da Coativy 2003.
[98] Cfr. sopra, nota 89.
[99] Rossi 1998, pp. 368 ss.
[100] Cfr. sopra, nota 89.
[101] Ciampoltrini – Notini – Rossi 1998, pp. 254 ss..
[102] Ciampoltrini – Notini – Fioravanti, supra.

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