La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

domenica 4 maggio 2014

San Miniato, Fonte Vivo, 4 maggio 1934 - 4 maggio 2014. Introducendo il ricordo con i silenzi della Rocca ...






Silenzi infiniti sulla Rocca di San Miniato, nei giorni dell’ultimo autunno del 2007 e dell’inverno, e poi nelle luci di primavera, 2008, quando lo scavo nella Cattedrale dava i segni degli Etruschi e l’orizzonte illuminato dalla neve degli Appennini e delle Apuane, il profilo tagliato dal sole del tramonto e le ombre profonde delle colline che in serie infinita vanno verso Volterra e il mare facevano capire la storia.
Una comunità apparsa nella terra di Fonte Vivo il 4 maggio 1934, per mano del colono Giuseppe Baldini, nello scasso in proprietà Poggetti, e prima ancora, il giorno di carnevale 1748, quando una ‘contadina’ del Samminiati, Maria Domenica Fontanelli, vide apparire a Scoccolino qualche denaro d’argento, e poi si mise a scavare, e a ritrovare il ‘tesoro di San Miniato’. Ma occorreva anche la passione di una ricerca infinita sulle colline fra l’Era e l’Elsa, per trovare segni di Etruschi, Romani, villaggi medievali e dell’Età del Bronzo, perché i profili incisi dai lavori del De Agostino su Fonte Vivo, e del Gamurrini sul ‘tesoro’, si arricchissero di colori e di ombre: dal gennaio del ’77, a Cerreto di Palaia, al ’79, quando a Casa al Vento di Pieve a Ripoli apparve la chiave di lettura che allora sembrò risolutiva, il gemello sull’opposta sponda dell’Arno dell’abitato che aveva sepolto per due secoli i suoi morti a Fonte Vivo, dove dalla via che segue il piede delle colline si poteva salire – come oggi – all’acropoli che dominava Valdelsa, Valdarno Inferiore, Valdinievole.
Terre che sarebbero state amministrate nel XII secolo dal Vicario Imperiale e – in parte minore – dal potente Comune nel secolo successivo.

L’ottantesimo anniversario del ritrovamento di Fonte Vivo è parso occasione, in una società cui occorrono stimoli esterni e coazioni di date per riflettere sul suo passato, remoto e vicino – un’utile ossessione – per ricomporre le storie di Fonte Vivo e degli Etruschi di San Miniato in una silloge che desse conto dei giorni del ritrovamento del 1934, della divisione di complessi tombali già smembrati dalla concitazione dello scavo, delle ricerche degli anni Settanta, sul terreno e nella sede del Comune di San Miniato, ospitale per il giovane aspirante archeologo che si presentò con una lettera del maestro di Normale, Salvatore Settis, e si vide aprire la vetrina che accoglieva da quaranta anni le memorie di quel ritrovamento.
Ma l’archeologia – almeno per chi si è formato nel secolo passato – non è solo alchimia informatica, è anche emozione, come quella che chi scrive provò quando l’amico Giuliano De Marinis, che pur tanto amava le terre di Valdelsa, volle passargli la responsabilità di San Miniato, nella struttura della Soprintendenza Archeologica; ancor più forte quando nei traslochi degli anni Ottanta, come non di rado accade, si manifestò ciò che sembrava perso, ed era solo un po’ più in là rispetto a dove lo si era a lungo cercato: il lotto del ritrovamento 1934 che era stato acquisito dalla Soprintendenza. Qualche perdita, nel frattempo, ma ancora sostanzialmente superstite, e presto restaurato, pronto per tornare a San Miniato, a ricostruire almeno l’immagine lacerata di due secoli di storia di una comunità.
Un’impresa apparentemente semplice, se le migrazioni della collezione archeologica del Comune di San Miniato non avessero suggerito di differirla alla sede finale del Museo.

Dunque gli ottanta anni, per riunire almeno in una sequenza di pagine le forme chiuse e le forme aperte che compongono i servizi per bere il vino che gli Etruschi di San Miniato affidavano alla loro terra per le olle con le ceneri dei morti; gli unguentari; le dotazioni delle donne che trovano ancora un’immagine vivida e inquietante nell’acefala statua marmorea giunta sul finire dell’Ottocento da Montappio al Museo Archeologico di Firenze, che per tanti anni salutò chi saliva le scale della Soprintendenza, per poi migrare anch’essa, infine, in depositi. E l’occasione dello scavo nella Cattedrale, mesi di impegni condivisi su coacervi di deposizioni, dal Medioevo al Settecento, per raggiungere infine, in pochi metri quadrati di terra, le tracce – o le ombre delle tracce – dell’abitato sull’acropoli che dominava, almeno con lo sguardo, la parte più vivace della Toscana settentrionale, quando questa era ai confini di un’Etruria aperta agli scambi con i Liguri-Apuani e i popoli dell’Appennino, prima di divenire un teatro di guerra al mutare di equilibri esterni alle comunità del Valdarno (si direbbe). Fino alle ultime, crude vicende delle guerre civili, pur queste rilette in un fascicolo apparso per caso nei fondi dell’Archivio di Stato di Firenze, un memoriale giuridico-amministrativo che dieci anni fa era pur riuscito a far rivivere una ‘commedia’ sanminiatese del Settecento e una tragedia dell’80 a.C.

Sono queste le riflessioni e le immagini che si affidano a pagine in cui, tanti anni dopo i primi viaggi nelle argille sull’Elsa, quando delusioni s’intrecciano con curiosità risolte, il curatore si augura qualcosa appaia degli ‘Etruschi di San Miniato’.

Giulio Ciampoltrini
I silenzi di San Miniato
Introduzione a

Gli Etruschi di San Miniato. Gli scavi nell'area della cattedrale e il sepolcreto di Fonte Vivo a ottanta anni dalla scoperta (1934-2014)
e-book per l''80° anniversario del ritrovamento

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