


Non erano come quelle di Francesco del Cossa le Madonne del pittore delle montagne, il Pietro dei colori resuscitato dal Quattrocento garfagnino quando il Maestro di Borsigliana trovò nome e respiro, e la grazia rustica e lieve delle sue Madonne, la freschezza dei suoi Bambini e dei loro alfabetari, il goticheggiare dei suoi santi proposero il fascino di una marginalità che traduceva per la società di montagna del Quattrocento i linguaggi nuovi nelle vecchie formule; o innovava le vecchie formule con i nuovi linguaggi. Artista e committenza, modelli che si impongono e tradizioni che devono essere rispettate: come ben sa l'archeologo, temi che nelle 'età di transizione' (e tutte le età sono di transizione) divengono particolarmente interessanti. Ma mentre confeziona tavole a colori destinate a finire in bianco e nero in una sobria pubblicazione che nessuno leggerà, l'archeologo maturo che distilla il pensiero dell'archeologo di montagna si deve domandare se i maestri lombardi che tiravan su alla maniera dei padri loro la rocca di Camporgiano non si ponevano nei confronti delle lezioni del Martini e della Romagna come Pietro da Talada verso i maestri di Ferrara e di Firenze. E se i castellani di Camporgiano, e le lor dame, mentre leggevano le ultime canzoni di gesta e se ne facevano approntar di nuove non cercavano di rammentare le immagini di Schifanoia con i piatti di graffita: dame e coniglie e unicorni, pillole di un mondo di cortesia muliebre che nella rocca di (mezza) fa da spechio agli spazi ampi degli affreschi del palazzo. E sugli uni e sulle altre i rustici a far da sfondo a corteggi e giostre, alle guerre feroci in cui i villici ancora non avevano appreso dagli Svizzeri la forza della democrazie e delle picche solidali.
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