La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico
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mercoledì 31 dicembre 2014
L'anno del ponte
Più di qualsiasi ricostruzione virtuale, il tocco barocco di Bernardo Strozzi per dar vita alle sublicae del Botronchio, riemerse dalla terra e ritornate all'acqua, ponte sul fiume sepolto e talora rinato.
Anno del ponte, vagheggiato e appena intravvisto sotto l'acqua dell'Anno dell'Acqua, il ponte che si taglia e si rigenera, il ponte dei pontefici, immaginato nelle immagini dell'aereo e del satellite, visto per un attimo nella terra.
E i miti indoeuropei rinati nelle storie di Tito Livio, grandi metafore nell'incrocio di metafore dei gelidi giorni del solstizio.
sabato 27 dicembre 2014
Anamorfosi urbane e ceramiche a colori
Per il resto c'è il Notiziario della Soprintendenza, per vedere a colori le ceramiche delle Anamorfosi urbane di Lucca (perché se non sono a colori che gusto c'è ...)
Contesti
stratigrafici e cronologie assolute fra Seicento e Ottocento: contributi dai
saggi di Piazzale Verdi
I contesti di Piazzale
Verdi offrono un significativo contributo alla definizione della cronologia
assoluta dei tipi ceramici in uso a Lucca fra Seicento e Ottocento, grazie alla
possibilità, appena esaminata, di raccordare livellamenti e discariche ad
episodi – di demolizione o di costruzioni – ben databili.
La us 177, messa in opera dopo la demolizione delle mura
medievali, conferma la datazione nel corso dei primi decenni del XVII secolo
dei tipi di graffita caratterizzati dalla decorazione araldica stilizzata o da
motivi vegetali entro cornici con motivi resi a punta o a fondo ribassato, già
riferiti a questo periodo sulla scorta delle associazioni – in particolare con
maiolica di produzione montelupina – nei contesti degli Orti del San Francesco
e del Cortile Carrara[1].
In questo caso, per
contro, è il contesto a consentire la datazione entro il 1640-1650 del grande
piatto ascrivibile per caratteristiche tecniche della pasta e morfologia alle
botteghe di Montelupo, che esibisce su un campo in cui si affollano tratti in
blu e stilizzate “foglie” in arancio un grande fiore in boccio, disegnato da
pennellate in manganese e campito in giallo (fig. 27, 1), in cui la suggestione della coeva “Flora” di Cecco Bravo[2] invita a riconoscere il fiore prediletto in questi
anni del Seicento, il tulipano, reso con i modi speditivi dei ceramografi
montelupini dell’avanzato XVII secolo[3]. Il variegato livello qualitativo delle produzioni
di maiolica disponibili sul mercato lucchese del Seicento è emblematicamente
suggerito dall’eccezionale presenza di un frammento ascrivibile ad una forma
aperta decorata con i motivi del “calligrafico naturalistico” seicentesco delle
manifatture liguri, forse albissolesi (fig.
27, 2)[4].
L’incrocio dell’evidenza
documentaria e iconografica con quella stratigrafica sembra confermare che l’impianto
dell’anfiteatro per le corse dei cavalli – almeno in forme solidamente
strutturate – non è anteriore alla metà del Settecento. La stampa che lo
presenta nello stato del settembre 1759, poco dopo il progetto promosso da una
società nel 1756, e prima dei rinnovamenti certificati nel 1785[5], coincide sostanzialmente con l’evidenza
archeologica; i materiali provenienti dai livellamenti che assecondano la
formazione del nuovo edificio sono compatibili con il terminus ante quem che la stampa fornisce.
A dimostrazione dell’eterogeneità
e casualità degli inerti accumulati e impiegati nelle opere di livellamento,
sono vistose le distinzioni fra i vari contesti, in particolare la us 552 e la 176. Le “catinelle” montelupine con “spirali verdi”, fortunate anche a
Lucca nei decenni centrali del Settecento[6], attestano la “chiusura” contemporanea dei due
sedimenti, ma nella us 552 (fig. 27, 3-4) sono associate soprattutto
a residui, che si scaglionano – per rimanere ai capi meglio databili – dai
primi del Cinquecento, con il frammento che salva sul fondo bianco la sigla S D
(fig. 27, 5) in cui parrebbe arduo
non riconoscere le mode certificate dall’analoga sigla su un ‘bianco’ del San
Francesco[7], applicata al San Donato lucchese, o con il tondo –
ugualmente di bottega montelupina – con cane latrante (fig. 27, 6)[8].
Dal Cinquecento fino ai
primi dell’Ottocento le botteghe toscane subiscono a Lucca la concorrenza di
quelle liguri, decisamente meno “popolari”. Il successo delle manifatture
liguri in questi secoli trova nell’evidenza documentaria, grazie ai dati
registrati da Sergio Nelli[9], testimonianze assai più consistenti di quelle
offerte dai contesti archeologici, a riprova di un’eccellenza qualitativa che
ne esaltava il valore e quindi ne imponeva la registrazione negli inventari
domestici; emerge tuttavia anche nelle restituzioni della discarica 552, con
minuti frammenti a smalto berrettino (fig.
27, 7) o in “calligrafico naturalistico” (fig.
27, 8-9), uno dei quali salva nel tondo chiuso da una cornice “a quartieri”
parte un apparato architettonico (fig.
27, 9) sovrapponibile a quello integralmente conservato da un esemplare
albissolese in collezione privata[10].
L’omogeneità con i
contesti esplorati negli Orti di San Francesco attesta invece che nella us 176 finì una vera e propria discarica
di ceramiche in uso intorno al 1750, con la “catinella” con “spirali verdi” (fig. 28, 1) e la massa di forme aperte
di manifattura toscano-settentrionale invetriate su un ingobbio speditivamente
decorato da soggetti vegetali e floreali resi con veloci pennellate di verde o
di giallo (fig. 28, 2-4), e un
ricorso del tutto marginale alla pratica della graffitura[11].
Le unità stratigrafiche
che segnano i progressivi adeguamenti e i rifacimenti dell’anfiteatro fra
Sette- e Ottocento restituiscono quasi senza eccezione frustuli misti a
residui, di regola in proporzione preponderante (fig. 29), talora di più antichi di secoli, come il frammento con
fregio che dispiega sulla tesa le cornucopie che compaiono nei “girali fioriti”
montelupini della metà del Cinquecento (fig.
29, 12)[12]. Tuttavia, anche in questa veduta “anamorfica” del
vivace mercato lucchese d’età neoclassica, che merita una definizione più
accurata di quella sin qui ancora essenzialmente affidata alle valutazioni
formulate sui dati dagli Orti del San Francesco[13], traspaiono le acquisizioni di tono “medio” (più
che medio-alto) dalla bottega empolese del Levantino, da cui giungono i capi in
monocromia bianca impreziositi dall’“orlo cinese” in azzurro (fig. 29, 1-2)[14], dai “fiorellini diversi” (fig. 29, 3; 6-7)[15], e forse anche le redazioni di forme aperte
decorate sulla tesa con “onde blu e punti neri” (fig. 29, 13), conosciute peraltro anche nella manifattura di Doccia[16]; al Levantino si deve probabilmente ascrivere
anche la forma in monocromia con tesa increspata (fig. 29, 9)[17].
La grande forma aperta con
“mazzetto fiorito verde” (fig. 29, 4)
certifica la perdurante vitalità delle manifatture di Montelupo, che devono
ormai competere piuttosto con le produzioni invetriate su ingobbio, provviste
di una decorazione altrettanto schematica, resa da frettolose pennellate gialle
e verdi che appena fanno intuire il soggetto floreale che intendono presentare
(fig. 29, 5)[18]. Soprattutto, le botteghe di tradizione “artigianale”
della Toscana settentrionale, attive per maioliche o per ingobbiate, devono
ormai affrontare la presenza sul mercato di una produzione dagli aspetti “industriali”
come quella albissolese che “firma” con le pennellate in nero – le tâches noires – i capi invetriati di
marrone, restituzioni a buon mercato delle forme sin qui proprie delle manifatture
di maiolica (fig. 29, 10-11)[19]. Nuovi orizzonti – non solo mercantili, ma anche
delle strutture produttive – culturali, indiziati anche dalle produzioni in
vetro fuso su stampo (fig. 29, 8) che
cominciano ad apparire in questi contesti. (G.C.)
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[1]
Ciampoltrini, Spataro 2005, pp. 69
ss.; si veda in seguito Ciampoltrini,
Spataro 2009, pp. 200 ss.
[2]
Barsanti 2003, p. 577, fig. 684.
[3]
Si vedano le parentele con il “Genere 59. Foglia con frutta policroma” di Berti 1998, p. 196.
[4]
Si veda da ultimo, con la revisione terminologica in “orientalizzante
naturalistico”, Pessa 2011, pp. 63
ss.
[5]
Rispettivamente Lucca iconografia della
città 1998, n. 184, p. 118; n. 189, pp. 119 s. (G. Bedini).
[6]
Ciampoltrini, Spataro 2005, p. 82;
per il tipo Berti 1998, pp. 215
s., “Genere 72”.
[7]
Da ultimo Ciampoltrini, Spataro 2013,
pp. 43 s.
[8]
Per il tipo a Lucca Ciampoltrini, Spataro
2013, p. 33, tav. X, 1.
[9]
Nelli 2007, in particolare pp. 330
s.
[10]
Barile 1965, tav. XXI, 1.
[11]
Per queste produzioni, dopo Ciampoltrini,
Spataro 2005, pp. 78 ss., si rinvia a Ciampoltrini,
Spataro 2007, in particolare pp. 179 ss.
[12]
Per questo Berti 1998, pp. 126 s.,
“Genere 32”.
[13]
Ciampoltrini, Spataro 2005, pp. 93
ss.
[14]
Per questo Moore Valeri 2008, p.
46; per Lucca, si vedano i cenni di Ciampoltrini
2008, p.
[15]
Moore Valeri 2008, pp. 38 ss.; per
Lucca, oltre a Ciampoltrini, Spataro
2005, p. 95, si veda Ciampoltrini,
Spataro 2009, p. 222.
[16]
Moore Valeri 2008, pp. 44 ss.
[17]
Moore Valeri 2008, pp. 41 ss.
[18]
Si veda rispettivamente Berti
1998, p. 217, “Genere 75”; Ciampoltrini,
Spataro 2007, pp. 183 ss.
[19]
Ciampoltrini, Spataro 2005, p. 95;
Ciampoltrini, Spataro 2009, p.
222.
martedì 23 dicembre 2014
Piatti da un matrimonio
Giorni stanchi, l'inverno è autunno interminabile, il solstizio s'immerge nelle paludi dell'autunno, e stanco è anche l'anno. Ma pur si deve guardare avanti, nelle ammucchiate cassette di tante fatiche di amiche e proprie, perché le fatiche non si perdano nella palude della stanchezza.
E da ammucchiate cassette e dal fango affiora una storia di matrimonio, piatti rotti, maiolica misera, smalto che non regge alle ingiurie della terra se non quel tanto da generare da ricomposti frammenti e dal gorgoglio dell'acqua l'arme dei Balbani congiunta a quella Parensi, aquilotti sul blu e ricci sull'oro, e cimieri fieri di altri uccellacci.
Un matrimonio lucchese del Settecento, avanzato, dichiarano i piatti di ogni giorno finiti con il servizio buono del matrimonio, tâches noires di Albissola misere e tristi nella povera bicromia, ma solide, appena incise dal lavorio di coltelli; e il tegamino che pare uscito da una natura morta del Magini, festoso di uova al tegamino.
Sono lividi anche i colori, nella luce dell'autunninverno nei giorni del solstizio, sorridono appena al blu e all'oro dei Balbani e dei Parensi, di un matrimonio da ritrovare, finito nei piatti di una discarica.
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