La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico
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venerdì 29 dicembre 2017
L'alveare e il sereno giardino d'Inghilterra
Il tè dei Reali Carabinieri del Duca, a pie' e a cavallo, servito su tazzina oggi crepata un po' sbocconcellata, generata dalla terra di Lucca, angolo sudoccidentale, come molte, da imprese degne delle api che l'affollano, stormeggiando in sereno giardino d'Inghilterra che asconde forse simboli inquietanti.
Facile è navigare e trovare in altro colore il gemello sulla rete, William Adams, Staffordshire, anni Venti del secolo Diciannovesimo, consoni ai fiori del Ginori che romanticamente s'accompagnano al tè inglese.
Per le stagioni che si chiudono o dischiudono, fiori e fatiche.
venerdì 22 dicembre 2017
Il cavaliere frantumato
Antiche storie, quasi trent'anni, Paolo Palazzo Bernardi poi Ansaldi, e ogni volta lo sguardo di Bellotto e San Martino. Sepolte storie del secolo IV, brevi rinascite, per pochi (il rancore sociale, anche allora), e un vetro superstite quel che basta, tre figure tre frammenti, il cavaliere il cinghiale il cane. Più di tutti, il cane.
Una splendida mostra, a Firenze, di rarità sublimi, per appassionati, cercare un po', fra loe vetrine affollate di trasparenti seduzioni, per una storia lucchese d'età teodosiana, aristocratici o vescovi in una massa di cocci e terre nere.
mercoledì 13 dicembre 2017
Sogni duecentenari, d'inverno
Si deve riandare a Massaciuccoli, al Nottolini, ai sismi, alla duchessa, al Mazzarosa, in un giorno di finetutto, fuoritutto, gente che va gente che viene. Fine di un'epoca, inizio di un'altra.
E si ritrova che si va verso i duecent'anni dacché Lucca si dotò di Commissione e di Commissario, per il suo patrimonio culturale, come si dice oggi.
Duecento anni fra meno di due, agosto 1819, sarebbe da preparare degna memoria di tal evento, se solo si avesse voglia di memoria.
E sognando s'improvvisa un logo, Bodoni di certo, Massaciuccoli vista dal Nottolini, per un restauro invisibile, perché l'anfiteatro è logoro ormai.
Il giorno di Santa Lucia, quando si continua a sognare, perché senza sogni l'alba non ha senso.
E si ritrova che si va verso i duecent'anni dacché Lucca si dotò di Commissione e di Commissario, per il suo patrimonio culturale, come si dice oggi.
Duecento anni fra meno di due, agosto 1819, sarebbe da preparare degna memoria di tal evento, se solo si avesse voglia di memoria.
E sognando s'improvvisa un logo, Bodoni di certo, Massaciuccoli vista dal Nottolini, per un restauro invisibile, perché l'anfiteatro è logoro ormai.
Il giorno di Santa Lucia, quando si continua a sognare, perché senza sogni l'alba non ha senso.
venerdì 24 novembre 2017
La Madonnina in immagine
Vent'anni tondi tondi e qualche mese, e come dal fosso lungo la strada, per dente mosso da pio escavatorista, così allo scavo nelle macerie di tant'anni di archeologo emerge, in immagine, la Madonnina del Padule, panneggiata figura del Trecento avanti Cristo, o un po' dopo (o prima?). Panneggio ritrovato poi sulle vie di Casentino e di Romagna, nel lago dei devoti e degli Idoli.
Storie del passato millennio, da rivivere per un attimo, con le luci ambigue di un'estate remota, girovagando con l'Amico del Padule, Augusto, per ritrovare poi la Strada Perduta degli Etruschi.
Ma queste sono altre storie.
Storie del passato millennio, da rivivere per un attimo, con le luci ambigue di un'estate remota, girovagando con l'Amico del Padule, Augusto, per ritrovare poi la Strada Perduta degli Etruschi.
Ma queste sono altre storie.
domenica 19 novembre 2017
L'ombra della cintura
Ferro su ossa, ombra di cintura o cinture, per sussurrare storie di un Medioevo che vaga fra documenti di chiese perdute, lungo la Via Francigena in città, San Simeone, San Michele, e poi su tutte i domenicani e San Romano.
Molti sono gli enigmi che le terre raccontano, anche se fini mani di archeologhe lucchese carezzano gli strati le ossa le fibbie di ferro. E per ritrovare i contorni dell'ombra, si vada dal Codex Manesse e dalle grazie dei cantori alemanni, nei colori di Zurigo, al Sant'Avertano con San Romeo del sommo Civitali. Forse anche lui un po' archeologo, chissà, con quella cintura che sa più degli anni del santo carmelitano che dei suoi.
giovedì 9 novembre 2017
Il relitto dell'aerarius
Segni color dell'oro, ma bronzo puro, per chiavistelli anelli ami chioderia assortita aghi da rete, oscuri ritrovamenti di cinquant'anni fa, alveo del Bientina, chissaccome chissaddove.
Studi remoti di antichi indagatori, e appare appena appena che gli anni son più di quindici dacché si discettava di pesca guardando l'Alto Tirreno, da Rosignano, archeologia subacquea ma anche di fiume, l'Auser, i suoi pescatori, barchini e barche, pesi da rete di fogge variegate, i delfini di Fossa Nera.
Segni remoti, tanto da svolazzar fra i sogni.
E la stele dell'aerarius, che celebrava in versi trimalcionici (così si scrisse) il suo sogno riuscito di immortalità o quasi, affidato ai segni scolpiti e alle lettere, in prosa e in versi, il fabbro bronzista del territorio di Florentia, per risuscitare i segni color dell'oro ma bronzo puro, salvato da terre umide, senza patine, oggi sepolti se non in qualche immagine.
domenica 8 ottobre 2017
Un tè a Palazzo Sardi, aspettando il Duca
Salutati i Reali Carabinieri, a piedi e a cavallo, niente è meglio di un tè a Palazzo Sardi. Fiori alla moda d'Inghilterra, tazza con labbro espanso, fatiche infinite per sottrarla alla terra e alla dispersione, ricomporla. Da celebrare in qualche pagina, un po' nascosta a chi non è proprio curioso.
E poi dal Duca, e poi al San Francesco, per la sua gemella.
E poi dal Duca, e poi al San Francesco, per la sua gemella.
venerdì 6 ottobre 2017
La scuderia perfetta
Terra di Lucca, storie sepolte, enciclopedie prima di Francia, poi d'Italia, fine Settecento inizi Ottocento, incisioni di Daniel Chodowiecki, gli stessi anni, e lacerti di mura canalette pali s'affollano di cavalli e palafrenieri, e dei Carabinieri a Cavallo del Duca di Lucca e poi del Granduca.
Emozioni strane per l'archeologo che ringrazia l'archivista coetaneo per il catasto dell'Ottocento, trenta cavalli e trenta pali.
giovedì 28 settembre 2017
Nostalgie di lagune (le terme della Litoranea, venticinque anni dopo)
Si trasformano in tiff o jpeg le immagini stampate con colori un po' ingialliti, mancava la correzione del bianco. Si caricano di colori dimenticati le acque delle lagune vive e sepolte, disseccate, e solo voli di passione fanno riconoscere, oltre la parete in reticolato che dichiara gli anni di Traiano o Adriano, il filo della duna, il mare, l'acqua appena mossa dal vento del tramonto, quando si sosta nella mansio, e prima un bel bagno, ai piedi della città ormai stanca, vicini quel che basta al portus Cosanus.
La Strada Provinciale del Chiarone, gli anni Novanta, mausolei, porti, le terme della mansio che forse vide l'imperatore che certo la volle, forse il procuratore dei suoi beni, e altre fantasie.
Scavi appena accennati, il filo della pianta, forse meglio così, per le nostalgie di tanti anni dopo.
lunedì 28 agosto 2017
I colori di San Biagio e l'erbose rovine
I colori di San Biagio, erbose rovine, un po' monteverdiane (l'edera che verdeggia / ad onta anco del verno / d'un bel smeraldo eterno, / se non s'appoggia perde / fra l'erbose rovine il suo bel verde), ritrovati trasformando pellicole in .jpg, e ora non più erbose rovine, ma verde con rovine, chissà.
Luci di giorni d'inverno di tanti anni fa, scritti in un'estate di venticinque, aspettando chissà, fra laterizi antonini e pietre di riuso, di un Medioevo non si sa.
Il fascino di San Biagio, rovina divenuta erba, nelle luci di una stagione antica. Sognata, difficile allora, irripetibile, forse.
giovedì 3 agosto 2017
Le Onde e i Fiori per l'ultimo scomparto del Polittico di San Francesco di Lucca
Cinque scomparti per il Polittico del San Francesco di Lucca, dalla fondazione alla fine. E il quinto, nel quinto anno dal primo, con le Onde e i Fiori.
Le onde e i fiori sono il filo d’Arianna
che guida l’archeologo nel secolo neoclassico – un secolo ‘breve’, dal 1750 al
1830 circa – di Lucca: le onde in nero dei piatti, delle scodelle e dei tegami
di Albisola detti a ‘macchie nere’ (tâches noires) – macchie che sono
onde – e le onde in blu puntinate di nero delle maioliche di Empoli e Doccia; i
fiori policromi, tardobarocchi, delle maioliche di Montelupo, i fiori rococò
delle maioliche settecentesche e quelli neoclassici delle composizioni
elaborate dai Ginori per un mercato più ampio di quello che poteva accedere
alle loro porcellane; infine gli apparati floreali sulle terraglie inglesi a
decalcomania, transferware, dal sentore quasi romantico.
Il viaggio nella città degli ultimi
decenni della Repubblica – della sua aristocrazia e dei ceti popolari – e poi ducale,
termina alle soglie del Risorgimento, che per Lucca quasi coincide con l’esaurimento
di una storia secolare di autonomia o di indipendenza, ormai priva di senso
nell’Europa degli stati nazionali. Anche l’archeologo percepisce nelle
associazioni stratigrafiche il mutare dei tempi, con il primo impulso alla ‘globalizzazione’
che si avverte alla metà del Settecento per l’inopinato successo della triste
produzione a tâches noires, con colori cupi e decorazioni sciatte che
sconfiggono la vivace policromia – quasi informale – dell’ultima tradizione
delle graffite di Toscana, e infine si coglie progressivamente, dopo la
Restaurazione, nell’affermazione delle manifatture inglesi e di quelle italiane
che le emulano. La terraglia decorata a transferware porta sulle mense
la Rivoluzione Industriale, trionfando poco dopo la metà dell’Ottocento.
Modelli culturali propagati con forza –
quasi imposti – dalla potenza della comunicazione, nuove reti commerciali,
competizione crescente sui mercati: anche le ceramiche dei contesti lucchesi
del Settecento e dei primi dell’Ottocento aggiungono voci, seppur flebili, dal
sottosuolo, a questi temi di ricerca, perché forse per i vasai di Albisola la
chiave del successo non era solo nel prezzo, ma anche nel rendere accessibili a
tutte le tavole le forme della maiolica e della terraglia – a loro volta emule
di quelle d’argento o di porcellana – altrimenti esclusive delle fasce sociali
superiori; oltre che, naturalmente, nell’efficacia crescente di una rete
commerciale e di trasporti che – come dimostra con la vivacità dei relitti il
carico del Grand Congloué 4, naufragato sulle coste di Provenza – riusciva a
dare respiro anche alle estreme produzioni di maiolica di Montelupo. In questi
orizzonti ormai ‘internazionali’ pentole, tegami, scaldini tuttavia raccontano
storie di una tradizione di ‘piccole imprese’ che resiste al mercato globale in
formazione: i vasai ‘locali’ cercano spazio – in qualche caso con successo – in
produzioni come i fioriti di coppini, gli scaldini prodotti a Lucca
intorno al 1815, decorati di applicazioni plastiche – ovviamente fiori. Anche
in questa ‘nicchia di mercato’ è possibile cogliere i segni dell’apertura al
nuovo: al volgere del secolo appaiono, accanto alle pentole e ai tegami della
tradizione tardorinascimentale, le marmitte e le casseruole che domineranno con
la produzione industriale della seconda metà del secolo.
Dal San Francesco partì il viaggio
archeologico nella città neoclassica, con le prime indagini sui contesti dallo
scavo degli Orti, fra 2004 e 2005 (Ciampoltrini, Spataro 2005). Qui, e nelle
volte della Casa del Boia – la ‘Casa del Maestro di Giustizia’ – livellate
anche con frammenti ceramici che trovano nella data di rifacimento dell’edificio
(1826) un prezioso terminus ante quem in cronologia assoluta, si chiude.
Il conforto che la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca ha dato alla ricerca
archeologica in questi due monumenti, mentre li portava a nuova vita e
rigenerava un quartiere della città, è stato risolutivo per condurre le ricerche
con serenità; dapprima sul cantiere, grazie alla disponibilità di Franco Mungai
e dei suoi collaboratori dell’Ufficio Tecnico – in primo luogo Marco Lucchesi e
Angelo Paladini – poi nelle esigenze dello studio, per discernere le trame
degli strati nei colori dei materiali che vi erano finiti. Il sostegno
finanziario assicurato con continuità dal Presidente Arturo Lattanzi e dall’intero
Consiglio di Amministrazione ha permesso che Consuelo Spataro potesse rendere
disponibili allo studio e alla presentazione scientifica e museale la massa dei
reperti accumulati, operando a Porcari nel laboratorio che l’impegno congiunto
dell’Amministrazione Comunale, con il Sindaco Alberto Baccini e il Consigliere
Delegato Angelo Fornaciari, e della Soprintendenza, ha trasformato per anni in
polmone della ricerca archeologica nella città e nella Piana.
Per ritornare al San Francesco e
definire i contorni dell’ombra che proiettano nella terra le sue tormentate
vicende in questo secolo, breve di anni ma concitato, con la soppressione
baciocchiana, la trasformazione in ospizio degl’invalidi, il ritorno dei
frati con la Restaurazione, la nuova soppressione con il Regno d’Italia, è
sembrato indispensabile girovagare per la città, rileggendo storie dell’archeologia
di questi anni talora già edite, come per l’anfiteatro per le corse dei cavalli
sul Prato del Marchese (Abela et alii 2013), talora edite solo in parte,
come per le genesi di Piazza Napoleone (Abela, Bianchini 2001). Soprattutto, si
sono rivisitati gli scavi di trent’anni di archeologia di tutela, per
recuperare sistematicamente stratificazioni di questi decenni, note sole da
qualche anticipazione (Ciampoltrini 2008 a; Ciampoltrini, Spataro 2015 b). La
massa dei materiali scaricata nelle cantine fra la fine del Settecento e i
primi dell’Ottocento è stata così scandita in una griglia cronologica che
consente di seguire decennio per decennio l’evolversi di tipologie e di reti
produttive e commerciali.
Come già accaduto per il Medioevo (Passo
di Gentucca 2014) e per gli anni dell’Autunno del Medioevo (Ciampoltrini
2017), la ‘storia archeologica’ del San Francesco fra Sette- ed Ottocento viene
dunque letta in contrappunto a quella della città, di cui spesso è stata
specchio fedele – così come, ci si augura, nella storia a lieto fine dei
restauri voluti dalla Fondazione.
Con questo capitolo si conclude una
ricerca che – presentata in libri e quaderni (Passo di Gentucca 2014;
Ciampoltrini 2017; Bianco conventuale 2013; Ciampoltrini, Spataro 2016) –
ha impegnato chi scrive per cinque anni, nei quali le riflessioni sull’archeologia
del San Francesco (e sulla storia della comunità che vi viveva) sono state come
lama di luce in un tramonto cupo e nuvoloso, perché all’inevitabile stanchezza
si è aggiunta l’amara sensazione di progressivo inaridimento dell’interesse
dell’opinione pubblica per la ricerca archeologica in tutti i suoi aspetti –
nonostante le celebrazioni della public archaeology – cui certo ha
contribuito il disorientamento generato dal susseguirsi di riforme imposte dall’alto;
non necessariamente con spirito illuministico.
Tuttavia, per rispondere alla fiducia
della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, per rispetto delle fatiche sullo
scavo di Elisabetta Abela, Sara Alberigi, Bianca Balducci, Susanna Bianchini,
Serena Cenni, Maila Franceschini, Elena Genovesi, Alessandro Giannoni, Irene
Monacci, Silvia Nutini, Kizzy Rovella, delle maestranze dell’impresa Giunta
Sauro, e in laboratorio di Consuelo Spataro, era ineludibile l’impegno a
stendere queste pagine.
Più che in altre, vi si avvertirà la
stanchezza. Ma sono tempi di stanchezza.
Giulio Ciampoltrini
lunedì 10 luglio 2017
Amici antichi e recenti: epigrafia latina nel territorio di Capannori (amore e morte, fatiche e successi)
Per chi il 7 era altrove.
Il
piccolo nucleo di iscrizioni recuperato nel corso di quattro secoli dal
territorio di Capannori offre preziose testimonianze sulla società romana della
Piana di Lucca, in particolare nel corso del I secolo d.C.
Il
frammento di una stele con cornice architettonica, decorata dalle insegne delle
magistrature municipali (il tipico sgabello, detto sella curilis, e i fasci littori), emersa nel 1696 a Capannori,
venne immediatamente trasferito a Lucca nel Palazzo Pretorio, perché
evidentemente ritenuto cimelio delle origini romane della città. Le
caratteristiche del rilievo la fanno datare nella seconda metà del I secolo
d.C.
Anche
altre iscrizioni hanno avuto una storia non meno tormentata e spesso sono state
salvate solo dal reimpiego. Questo è il caso del monumento funerario di cui
sopravvive solo un frammento, murato in facciata della Chiesa di San Rocco a
Capannori. Le poche parole leggibili lo fanno riferire ad un’iscrizione
funeraria, databile entro gli ultimi decenni del I secolo a.C. in base ai caratteri
grafici e alla rarissima particolarità dell’indicazione della vocale lunga (a) con una doppia a, in caaro.
Venne
rimaneggiata per il reimpiego come mensa d’altare nella Badia di Cantignano
l’iscrizione che i genitori Achelous
e Heorte – probabilmente due schiavi,
come indica la mancata indicazione della gens
di appartenenza – posero sulla tomba della figlia Nymphe, con un testo poetico in cui la bambina si rivolge al
viandante ricordando di essere morta quando ancora non aveva sei anni e la
necessità di accettare al volere del Fato. L’iscrizione fu recuperata dal
Ridolfi ed è oggi al Museo Nazionale di Villa Guinigi.
È
invece affissa alla parete esterna della chiesa di Marlia la lastra apposta sul
monumento funerario fatto costruire dal liberto Caius Vagilius Eros per sé e per altre cinque pesone con lo stesso
gentilizio, forse colliberti della stessa persona, oppure membri della sua
famiglia.
Anche
queste due iscrizioni risalgono probabilmente al I secolo d.C.
Della
fine dello stesso secolo è il monumento già conservato nella Badia di Sesto a
Castelvecchio di Compito, decorato nella parte superiore da una corona
pendente, e nel riquadro inferiore da una serie di oggetti resi a rilievo: le
insegne delle magistrature municipali (come per l’iscrizione ritrovata nel
Seicento); una serie di oggetti che potrebbero indicare l’attività
‘professionale’ della famiglia, come la navicella e l’ascia per la lavorazione
del legno, oppure avere carattere simbolico, allusivo al mondo femminile (il
dittico aperto; il pettine; il secchiello). Nella prima età romana, infatti, è
pratica ampiamente conosciuta qualla di dichiarare la professione del defunto
riproducendo sul monumento funerario gli strumenti del suo lavoro; nel caso di
tombe femminili la figurazione di oggetti di ornamento personale è
particolarmente attestata nella Versilia e nel territorio di Luni.
La
presenza di oggetti peculiari del mondo femminile e di quello professionale è
coerente con la dedica della stele. Il testo, infatti, dichiara che questa fu
posta da una donna – Laronia Secunda
– sulla tomba che accoglieva il fratello Lucius
Laronius Rufus e il figlio Aulus
Curius Sacerdos, e in cui sarebbe stata poi sepolta anche lei, assieme ai
suoi discendenti. Il testo, infine, indica le dimensioni dello spazio
sepolcrale contrassegnato dal monumento (quindici piedi, circa 4,5 metri), nel
quale sarebbero stati deposti gli avanzi del rogo funebre; in quest’epoca,
infatti, la pratica dell’incinerazione era esclusiva, come documenta le
necropoli scavata al Frizzone, in cui le inumazioni non compaiono prima
dell’avanzato II secolo d.C.
È
dunque possibile che la figurazione della barca rammenti le attività di fabri navales (o comunque di carpentieri
del legno) grazie alle quali i Laronii
e i Curii avevano avuto la possibilità
di raggiungere il livello economico indispensabile per conseguire la
magistratura municipale – il sevirato, un collegio sacerdotale dedito al culto
imperiale – celebrata dalla sella curulis
e dai fasci littori. Il conseguimento delle magistrature cittadine, infatti,
comportava notevoli esborsi finanziari, per opere pubbliche o per la
celebrazione di giochi. In particolare, la carica di sevir era la sola raggiungibile dai liberti, che quindi si
impegnavano allo spasimo per ottenerla, come segno tangibile del loro successo
sociale.
L’iscrizione
della Badia di Sesto potrebbe avere avuto una lunga storia. Emerse negli anni
Cinquanta del Novecento nel parco della stessa Badia, e fu affissa alle pareti
della fattoria, fino a che, nel 2004, nel quadro del Progetto delle Cento
Fattorie, fu acquistata e trasferita a Porcari. È possibile, tuttavia, che
fosse già stata vista nel Rinascimento. Lo studioso tedesco Wilhelm Kurze,
infatti, ha ipotizzato che fra’ Benigno, che compilò nel Cinquecento una
fantasiosa storia della fondazione dell’Abbazia di Sesto, abbia ricavato il
nome di uno dei personaggi che compaiono in questa storia (Sesto Laboino)
proprio da un fraintendimento o da una alterazione del nome del Laronio,
malamente letto su questa iscrizione, che diveniva di conseguenza prova
documentale della storia dell’Abbazia.
mercoledì 28 giugno 2017
Cartoline dalla Terra dell'Auser
Altre dovrebbero essere le cartoline, ma l'ombra cupa dell'Etrusco in fuga, in una notte di fiamme, pur se chi l'ha immaginata ad altro pensava, ben si addice alle Notti dell'Archeologia.
Veio è presa, dieci anni di assedio e alla fine Furio ha vinto.
Chissà.
In criptico pensiero, politically correct, una lapide tombale per una notte che è pomeriggio.
domenica 21 maggio 2017
Il giorno di Varramista e dei Maestri dell'Argilla, dodici anni dopo
Quando i giorni sono lunghi, in maggio (citando il trovatore e il suo amor lontano), v'ha tempo per riandar negli anni, e ripetersi. D'altronde le commemorazioni, i giorni del ricordo, sono fatti per ripetersi ...
E ora che gli anni sono dodici, il giorno di Varramista, 21 maggio 2005, i Maestri dell'Argilla, giovani e meno giovani e qualcuno maturo, musei soprintendenze università, architetture e ceramiche, interdisciplinarità, eccetera eccetera, speranze e conforto di raggiunte mete.
Riflettere sulle luci di maggio a Varramista, ora che il maggio è tornato, benché questa volta i gigli gialli che si specchiano nell'acqua siano meno turgidi e fitti, è inevitabile.
E concludere che il maggio di Varramista oggi è divenuto un novembre pieno.
martedì 16 maggio 2017
Elogi funebri (sotto forma di saluti agli epigrafisti dell'Etruria riuniti a convegno)
Quando chi scrive intervenne all’apertura del Convegno,
il 23 ottobre 2015, per portare i saluti del Soprintendente, sintetizzare l’attività
svolta negli ultimi decenni dall’istituzione che stava rappresentando,
rassicurare sul futuro impegno per la tutela ma anche nel concorso alla
valorizzazione del patrimonio epigrafico d’età romana della Toscana, certo
non immaginava che di lì a poco la Soprintendenza da ultimo denominata Archeologia
della Toscana sarebbe stata dissolta in quattro sezioni di altrettante
istituzioni pluriprovinciali, preposte alla tutela ‘olistica’ – come
dichiarano i fautori dell’innovazione - del patrimonio culturale, e che le
parole da affidare alle pagine degli atti avrebbero dovuto prendere piuttosto
i toni dell’epicedio.
|
Mentre si stendono queste righe, in effetti (fine
febbraio 2016), si è in attesa della pubblicazione formale del decreto
ministeriale che pone fine a più di un secolo di vita dell’istituzione che a
Firenze aveva ereditato il ruolo degli antiquari granducali del Settecento e
della prima metà dell’ottocento, e che grazie all’intimo, intrinseco rapporto
fra museo e ‘attività di tutela’ aveva condotto, negli anni Venti del Novecento,
all’akme della ‘valorizzazione’ del patrimonio epigrafico raccolto in
età medicea e lorenese.
|
L’impegno profuso dal Soprintendente Antonio Minto per
presentarlo nella Terrazza delle iscrizioni, appositamente realizzata sopra
il lunghissimo corridoio che ospitava il Museo Topografico, apriva, negli
articolati spazi del Museo Archeologico di Firenze, un dialogo a più voci fra
la Terrazza stessa, il retrostante Corridoio, detto delle Anfore, ma che
assieme a queste accoglieva anche urne etrusche e romane, il Giardino, in cui
statue, rilievi, iscrizioni si alternavano con le ricostruite tombe etrusche.
|
Nei severi anni Settanta del Novecento la costruzione
del Minto - come molto del suo pensiero - poteva apparire attardata in cifre
antiquariali, ma consentiva almeno un’esauriente leggibilità di un patrimonio
epigrafico che si apriva sul mondo romano dall’Urbe e dall’Etruria sino all’Africa
e all’Oriente - con le iscrizioni greche - ed era specchio ancora efficace
dalla vastità degli interessi collezionistici d’età granducale.
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Il dramma dell’alluvione del novembre 1966 aveva reso
critica la stabilità del complesso, e quando, per volontà ed impegno del
Soprintendente Francesco Nicosia, si pose mano al drastico rinnovamento del
Museo, la sorte del lapidario granducale, nella veste ‘tagliata’ dal Minto,
era segnata. Nei progetti museali degli anni Ottanta, fortemente condizionati
da una oggi svanita centralità dell’archeologia d’età etrusca, le collezioni
epigrafiche d’età romana non erano certo al centro dell’interesse.
|
Tuttavia, il sacrificio della Terrazza e la
trasformazione del Corridoio potevano avere una motivazione: con una
tempestività che allora non era avvertita, ma oggi sembra irraggiungibile, già
nel 1985 gli spazi dell’antico Topografico, esaltati dalla luce e dilatati
nel progetto di Bruno Pacciani, erano agibili per la mostra centrale (Civiltà
degli Etruschi) dell’Anno degli Etruschi, e all’inizio del
decennio successivo (1993) vi si poteva progettare e infine allestire un
percorso espositivo che preludeva, nell’intenzione di chi lo aveva allestito,
alla palingenesi del Museo Topografico.
|
Effimere illusioni, se già nel 1997 lo si smantellava in
attesa di nuovi e più strutturati progetti, ora affidati al Polo Museale
della Toscana, nella cui competenza i musei archeologici sono transitati o
stanno transitando con il susseguirsi di rimodulazioni dell’organigramma
ministeriale. Al Polo è deputata, di conseguenza, anche la responsabilità di
restituire la luce al patrimonio epigrafico mediceo e d’età lorenese
acquisito dal Museo Archeologico grazie al sogno di Antonio Minto, e
confinato ai depositi, seppure dopo un’attenta opera di restauro e catalogazione,
che ne ha reso possibile l’estesa presentazione nei Supplementa Italica.
Imagines. Supplementi fotografici ai volumi italiani del CIL.
|
Isolate, seppure talora brillanti, erano le iniziative
di valorizzazione del patrimonio epigrafico del museo fiorentino: si può
segnalare l’esposizione degli Elogia Arretina, nel 2000, voluta dalla
passione di Anna Rastrelli e della compianta Antonella Romualdi, che avrebbe
dato prova del suo interesse per la componente epigrafica delle collezioni
granducali nell’intensa attività di curatela delle ‘antichità’ degli Uffizi.
|
Decisamente più sistematica la campagna di catalogazione
del patrimonio epigrafico del territorio, fruttuosa soprattutto per le
collezioni private fiorentine (ancora un progetto voluto e realizzato da
Antonella Romualdi), e la puntuale attività di tutela formale delle
iscrizioni emerse dal sottosuolo o, talora, da luoghi di conservazione
rimasti inaccessibili. non solo per indulgenza autobiografica, si deve
segnalare il caso del monumento funerario dei Titii fiorentini (CIL,
XI 1614), riconosciuto nel 2005, dopo un più che secolare oblio, prontamente
tutelato - e proposto all’attenzione degli studi.
|
Nel frattempo, tuttavia, con la capillare presenza sul
territorio che ne ha caratterizzato costantemente l’attività - nonostante la ‘sede
unica’ in Firenze - la Soprintendenza concorreva affinché i musei del
territorio, rinnovati o ampliati fra gli anni novanta e i primi del
millennio, dessero adeguato spazio al patrimonio epigrafico, non più nella
forma di lapidario, ma come segmento dell’itinerario archeologico nella
storia del territorio in età romana. Ne sono testimoni, ad esempio, il Museo
Archeologico e d’Arte della Maremma, in Grosseto, con l’organica
prseentazione dei complessi epigrafici della valle dell’Albegna, fra i quali
spicca la Tabula Hebana, e di Roselle - questi contemporaneamente
editi da Stefano Conti nei Supplementa Italica - o, in misura minore,
la sezione archeologica del Museo nazionale di Villa Guinigi in Lucca.
|
Dalla catalogazione e dalla presenza sul territorio
scaturisce il contributo che la Soprintendenza ha dato al progresso del
progetto EdR, o a lavori monumentali come quello che hanno appena consegnato
alle stampe Emanuela Paribeni e Simonetta Segenni sulle Notae
lapicidinarum del territorio di Carrara, esempio eccellente del connubio
fra ‘tutela’, ‘ricerca’, ‘valorizzazione’. Sono questi termini che oggi si
vorrebbe scindere in competenze diverse, quando sembrano, piuttosto, solo
definire momenti distinti del processo di conoscenza che nelle giornate del
convegno fiorentino dell’ottobre 2015 si è manifestato in riflessioni sull’attività
svolta e, come è nella natura della scienza, in spunti per nuove indagini.
|
La sostanziale estinzione di organici progetti di
ricerca, quale quello dispiegato, non senza mende, ma proficuamente, a
Roselle - per rimanere nella Toscana - compromette la disponibilità di
nuovi materiali epigrafici, ma la crescente conoscenza della rete di
insediamenti e di traffici pone, a chi voglia indagare il mondo antico nella
sua completezza (un’indagine ‘olistica’), nuove occasioni di rileggere
iscrizioni note da secoli, come nelle giornate del Convegno si è dimostrato.
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lunedì 24 aprile 2017
L'attualità scottante di Rutilio, a Lucca
Troppo rutiliani questi tempi, per parlare seppur obliquamente di Rutilio e dei suoi giorni.
Roma e i Goti, che son migranti, tema assai scomodo per il politically correct dell'accoglienza, dei traghettatori sul Danubio, con Alarico che si fa gentiluomo di campagna nelle Cronache RAI; e poi un viaggio tra rovine che certo non è quello nelle disfatte aree industriali d'Italia o di Toscana, ma insomma ... cernimus antiquas nullo custode ruinas.
Forse oggi le coste di Toscana non propongono paesaggi di rovine, piuttosto rovine di paesaggi, ma Rutilio è davvero scomodo, nelle sue frequentazioni di aristocratici esangui e di poveri contadini trasfigurati in entusiasti cultori di divinità dismesse. Un mondo al tramonto, un sentore che è nei nostri giorni, struggente ma nello stesso tempo un po' antipatico; essenzialmente, senza speranze, fatto quasi solo di passato.
E dunque, nello sfacelo di antiche istituzioni, esaltate dai vescovi della Nuova Chiesa delle Magnifiche Sorti del Web (soprattutto per loro), si tenterà di far mente locale ai paesaggi di anni milleseicento or sono.
Sfaceli antichi, sfaceli presenti: l'attualità scottante di Rutilio, viaggiatore fra rovine e sopravvissuti.
lunedì 10 aprile 2017
Cinque anni in cinque fogli
Sensibilità crescente per il patrimonio culturale e
normative sempre più stringenti – seppur talora espresse in termini che
richiedono alte capacità ermeneutiche – hanno fatto sì che la tutela delle
testimonianze della storia antica conservate dal sottosuolo (il ‘patrimonio
archeologico’) sia sempre più efficace. Chi, come lo scrivente, opera a Lucca
da trentasei anni nella soprintendenza che, cambiando più volte nome e infine
anche sede, è l’organo periferico dell’Amministrazione Statale incaricato di
questo compito, può serenamente riconoscere di essere passato dal rovistare
nella terra di risulta accumulata nei cassoni dei motocarri pronti al viaggio
in discarica, per salvarne qualche frammento ceramico, come spesso accadeva nei
primi anni Ottanta del secolo scorso, a seguire su Whatsapp le campagne di
scavo preventive o contestuali alle opere di movimento terra, in proprietà
pubblica ma anche privata, affidate a provetti archeologi professionisti. Le
pagine che sul Notiziario della
Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, per un decennio, fino
alla soppressione del 2016, hanno dato conto di gran parte dell’opera di tutela
condotta a Lucca e nel territorio sono testimoni, anche nell’esemplare corredo
di documentazione grafica e fotografica, dell’‘eccellenza’ della scuola nata e
maturata a Lucca, nei cantieri di tutela, fin dalla fine degli anni Ottanta.
Se dunque la dispersione di dati storici e di
testimonianze materiali che un tempo doveva essere evitata o almeno
ridimensionata con faticose peregrinazioni in città e ricognizioni nel
territorio, e poi con mediazioni estenuanti, è ormai da considerare episodica,
ristretta nella percentuale di inefficienza che anche i più solidi sistemi
devono accettare, forse più onerosa di quanto poteva essere trent’anni fa è
oggi l’altra faccia della medaglia del lavoro sui ‘beni culturali’: la ‘valorizzazione’.
Termine questo in realtà improprio o riduttivo, che implica una considerazione
mercantilistica del patrimonio storico, da sostituire con un artigianale ‘fare
cultura’; questa sì capace di dare frutti reali, anche in termini misurabili
nelle scale monetarie.
Negli anni Ottanta, in effetti, il tessuto del
volontariato culturale permetteva di raggiungere capillarmente una società
interessata al suo passato, ai monumenti, agli oggetti che lo facevano
riconoscere e percepire come proprio; in senso inverso, proprio in questo
diffuso sentire civile maturava la vivacità dell’associazionismo e la
partecipazione delle istituzioni elettive alla ‘comunicazione’ – come si dice
oggi – di ritrovamenti, di studi, di sogni. È difficile evitare di ripetere che
quel mondo, in cui si progettavano musei comunali, si cercavano – spesso anche
trovavano – fondi per campagne di scavo che vedevano la partecipazione di
volontari e appassionati, e poi conferenze si susseguivano a mostre, è
tramontato. Paradossalmente, la formazione di un ceto di ‘professionisti dei
beni culturali’ ha coinciso con la progressiva scollatura fra società e memoria
del passato; o, meglio, dovrebbe
dirsi, non la ‘memoria del passato’ in assoluto, ma la ‘memoria del proprio passato’. In effetti Egizi
Impressionisti Caravaggio, e nel campo dell’archeologia dei nostri orizzonti
geografici, gladiatori e ‘sangue nell’arena’ conservano o vedono accrescere il
loro richiamo; ma oggi la folla che a Castelnuovo di Garfagnana dei primi anni
Ottanta si accalcava, coinvolta dall’associazionismo locale, all’inaugurazione
della mostra sul Mesolitico della
Garfagnana è un’immagine molto più che vintage.
I quindicenni innamorati (più spesso innamorate) dell’Egitto non curano di una
occhiata le ceramiche degli anni di Tutankhamon trovate a qualche chilometro da
casa loro.
In questa congiuntura, chi ancora crede che la
conoscenza del passato che matura nella prassi di tutela non debba essere
confinata agli archivi e alle cantine delle soprintendenze o di qualche
magazzino sempre più malvolentieri elargito dal Comune di turno, ma ‘ricadere’
nel territorio che illumina, con l’analisi dei materiali, l’elaborazione
storica, la pubblicazione a stampa – ora anche digitale – infine la concreta
presentazione nella fisicità di mostre e musei di ciò che la terra ha
restituito, si trova ad affrontare gli stessi paesaggi desolati nei quali si
muoveva intorno al 1981 o al 1985 quando braccava i motocarri per le vie di
Lucca o percorreva i campi arati della Bonifica del Bientina: «faticose
peregrinazioni» e «mediazioni estenuanti», per ripetere quanto si è appena
detto. Non le vie della città, o i campi, ma gli uffici degli amministratori
locali – oggi sempre più spesso i funzionari in luogo degli eletti – e le
sofferenze condivise con i responsabili dei musei locali. Non sempre è così,
sia chiaro, ma spesso dagli incontri si esce con la consapevolezza di aver
incontrato un mero assenso di facciata.
Se dunque a Lucca, nonostante l’eclissi dell’interesse
per la storia del passato ‘locale’ che ha trovato, in Toscana, una triste prova
nella scomparsa di riviste che avevano per oggetto proprio questo tema – le Microstorie tanto vezzeggiate fra anni
Settanta e Ottanta, riferite al mondo antico o medievale – è stato ancora
possibile continuare a ‘valorizzare’, con mostre pubblicazioni musei, le storie
raccontate dalla terra, moltissimo si deve alla sensibilità della Fondazione
Cassa di Risparmio di Lucca. Istituzioni che altrimenti sarebbero rimaste afone
hanno trovato nel flusso di finanziamenti assicurato annualmente modo di farsi
sentire, di testimoniare alle istituzioni e alla società civile che il dialogo
con gli ‘organi di tutela’ non ha come tema solo la tutela, che la tutela non è
monacale custodia delle memorie sepolte, ma verte anche sul presente e sul
futuro, che nel passato si radicano, inevitabilmente.
La mostra Munere
mortis. Complessi tombali d’età romana nel territorio di Lucca, tenuta al
Museo Nazionale di Villa Guinigi di Lucca nell’autunno del 2010, ancora
testimonia, nella pagina web del MiBACT (fig.
1: http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_269322564.html),
l’inizio di un trittico di eventi espositivi che ha fatto della Casermetta del
Museo – completato nel percorso espositivo in quello stesso volgere di tempo,
dopo un decennale impegno finanziario della Fondazione – il palcoscenico in cui
sono state ‘rappresentate’, fino al 2013, le nuove acquisizioni dell’archeologia
in città e nel territorio. La concorde azione delle due strutture ministeriali
attive su Lucca – per l’archeologia e nella gestione dei musei – non sarebbe
stata possibile senza le risorse della Fondazione, che tanto aveva creduto e
concorso al rinnovamento sia di Villa Guinigi, sia di Palazzo Mansi.
Il lineare percorso espositivo (fig. 2), integrato da pubblicazioni e
dalla ‘comunicazione’ in rete, preparato per la mostra del 2010 è stato
rinnovato due volte: nel 2011 presentando lo straordinario complesso della
tomba ligure apuana di Vagli Sopra, con le dotazioni della Fanciulla di Vagli, scavata e restaurata grazie ancora alle
integrazioni offerte dalla Fondazione ai finanziamenti del Comune di Vagli
Sotto e della Soprintendenza per i Beni Archeologici; nel febbraio 2013
documentando la vita quotidiana e la storia dell’abitato etrusco della Murella
a Castelnuovo di Garfagnana, punto di partenza di un viaggio nella vita degli Etruschi nelle valli del Serchio e dell’Arno
(fig. 3). Se i materiali della
Murella – un crocevia degli itinerari transappenninici del V secolo a.C. –
possono oggi essere apprezzati solo nel volume che corredò la mostra (Gli Etruschi e il Serchio. L’insediamento
della Murella a Castelnuovo di Garfagnana), oltre che nelle pagine web che
puntualmente hanno corredato le mostre in Villa Guinigi (http://www.segnidellauser.it/muneremortis;
http://www.segnidellauser.it/fanciulladivagli/;
http://www.segnidellauser.it/etruschidellamurella), ancora grazie al
supporto della Fondazione il corredo della fanciulla ligure apuana morta ai
piedi del versante garfagnino delle Apuane intorno al 180 a.C. ha potuto far
ritorno a Vagli Sopra, nell’estate del 2013, che ha segnato l’apogeo della
divulgazione della ricerca archeologica nel territorio di Lucca.
Nel luglio di quello stesso anno, in effetti, si
concludeva il percorso di tutela delle testimonianze archeologiche sepolte
condiviso tra Fondazione e Soprintendenza nel grande cantiere del complesso
conventuale di San Francesco. Dopo la prima fase dell’opera di restauro e
recupero funzionale, nella Stecca, completata nel 2009, dal 2010 al 2013 il San
Francesco veniva rigenerato e, nello stesso tempo, raccontava la storia sua e
quella della città di cui, per otto secoli, è stato specchio spesso fedele.
Dalla fondazione negli anni Venti e Trenta del Duecento, alle celebrazioni
delle grandi famiglie cittadine – in primo luogo i Guinigi – sino al
rinnovamento del Quattrocento e alle imprese edilizie degli anni della
Controriforma che hanno conferito al complesso l’aspetto felicemente ritrovato
e reso disponibile nell’estate 2013: questa la storia che quattro anni di scavo
hanno raccontato.
Un racconto grezzo, in dati affidati a schede,
rilievi, fotografie, ad una massa immensa di reperti: su questi si è
concentrata la sinergia fra Fondazione e Soprintendenza, già nel momento
conclusivo dello scavo, per far sì che la sinfonia dei vari strumenti potesse
essere apprezzabile al pubblico dei ‘tecnici’ e a quello di chi, semplicemente,
è curioso del passato della sua terra o dei monumenti che visita. Con la
geniale intuizione progettuale dell’architetto Stefano Dini, e la consueta
fiducia della Fondazione e dei suoi tecnici – e in primo luogo occorre
rammentare Franco Mungai, con i collaboratori ‘anziani’ Angelo Paladini e Marco
Lucchesi – i volumi disponibili sul tergo dell’abside del San Francesco sono
stati rimodulati per divenire lo spazio in cui si potessero rivivere le vicende
del San Francesco nei suoni prodotti dalla terra (fig. 4).
Un progetto di medio periodo, che ormai sta
avviandosi a conclusione: l’inaugurazione del 2013 è stata segnata dal Bianco conventuale delle suppellettili
da mensa con cui gli Osservanti, appena giunti a Lucca nel 1454, vollero dare l’austero
segno del loro stile di vita conventuale (fig.
5); la torrida estate del 2015 ha visto raccontate genesi e metamorfosi del
convento fra Duecento e Trecento, vissute seguendo nella città – idealmente –
il Passo di Gentucca (figg. 6-8), la gentildonna lucchese che
tanto fu cara a Dante e la cui storia si intreccia con quella del San
Francesco, luogo di sepoltura dei Morla e dei Fondora (rispettivamente le
famiglie di provenienza e del marito). Mentre si stendono queste pagine è ormai
pronta la terza mostra, che documenterà il profondo rinnovamento del convento
nei decenni di passaggio fra Cinquecento e Seicento, e le testimonianze della
vita conventuale affidate alla suppellettile da mensa prodotta su commissione
francescana: i Segni e simboli
francescani (fig. 9). Ed è anche
in preparazione il volume dedicato al momento forse più emozionante dello
scavo, con le immagini della tomba scavata nella ‘cappella Guinigi’ – la chiesa
di Santa Lucia – il 1° ottobre 2010 (fig.
10): la ‘Signora con l’Anello’, forse una delle mogli di Paolo Guinigi,
punto di partenza, grazie all’anello d’oro con diamante e al sigillo in piombo
papale che l’avevano accompagnata nella tomba, di una brillante indagine di
antropologia forense che ha permesso a Gino Fornaciari di ipotizzare che in una
delle tre ‘signore’ interrate ai lati dei cassoni familiari dei Guinigi si
debba riconoscere Ilaria del Carretto.
Rimane da scrivere l’estremo capitolo: la vita del
convento tra Illuminismo e Restaurazione, fino alla scomparsa nella città
post-unitaria, una storia che vede ancor più serrato il convergere dei segni
nella terra e dei documenti, e che chi scrive spera di poter raccontare ancora
una volta avendo come sfondo la vivace città del tardo Settecento e del nuovo
volto neoclassico. Vent’anni di ‘tutela’ fanno leggere il secolo che si
conclude con la fine di Lucca come città-stato in una prospettiva ‘dal basso’,
dalle cantine di edifici privati e dagli scavi nelle grandi opere pubbliche.
Non meno entusiasmante e impegnativa per l’archeologo,
e foriera di preziosissime acquisizioni, è stata anche la campagna di
interventi che ha preso avvio – un passaggio di staffetta – nella primavera
2013, quando alla conclusione del restauro del San Francesco si è dato inizio
ai lavori che hanno innovato la vita del circuito delle mura.
Il complesso formato dall’ottocentesca Casa del
Boia, dal Baluardo San Salvatore e dal torrione cinquecentesco che vi è
inglobato – il Bastardo – ha visto lo splendido recupero funzionale dei volumi
sedimentati in cinque secoli di storia arricchirsi delle acquisizioni
archeologiche. Nuova luce per le successive trasformazioni di questo lato delle
mura, e, soprattutto, occasione compiutamente colta per apprezzare nella loro
fisica struttura le ‘mura dei borghi’, sin qui marginali nell’evidenza
archeologica e monumentale, divenute invece singolare documento della ritrovata
vitalità del Comune di Lucca dopo il ritorno della Libertas, nel 1370 (fig. 11).
La documentazione integrale della trecentesca torre inglobata nel Bastardo –
conservata nel percorso che, opportunamente strutturato, farebbe del Baluardo
San Salvatore il più esauriente itinerario nella storia delle mura di Lucca fra
Tardo Medioevo e Rinascimento – è stata presentata in un’appassionate giornata
di studi nella Cappella Guinigi, ed è confluita nel volume degli atti – Le mura e il palazzo. Lucca fra Cinquecento
e Seicento: un itinerario archeologico – la cui presentazione, il 9 ottobre
2015 (fig. 12), è stata occasione
per informare tempestivamente il pubblico lucchese dei ritrovamenti che, con le
indagini condotte in sinergia fra Fondazione, Comune di Lucca, Soprintendenza,
hanno significativamente integrato il quadro delle conoscenze sulla cerchia
urbana fra XII e XV secolo.
‘Vocazione alla comunicazione’, intesa come momento
ineludibile della crescita culturale: questo è, dunque, il filo che serra tanti
anni di collaborazione fra il San Micheletto e l’ufficio della tutela
archeologica.
Se è inopportuno fare nomi, in una strategia
collettiva e condivisa, di certo chi scrive non può dimenticare il personale
apporto del presidente dott. Arturo Lattanzi, anche per risolvere difficoltà
solo apparentemente marginali nel percorso di ‘comunicazione’; non si può
dimenticare che la conclusione del percorso archeologico allestito nella sala
dell’Ospedale San Luca, nel novembre 2014, conseguito con l’impegno scientifico
della Soprintendenza e un considerevole sforzo finanziario della ASL 2 di
Lucca, sarebbe rimasta priva di una pubblicazione che desse conto dei risultati
del quinquennio di attività di tutela condotta all’Arancio. Fu grazie al
contributo prontamente concesso che poté essere completato l’allestimento e
dato alle stampe lo snello volume (fig.
13) che si è proposto di raccontare tremila anni di storia della Piana di
Lucca attraverso i materiali esposti nel San Luca. E perché il sarcofago in
piombo, d’età tardoantica, emerso ancora nel ciclo di opere connesse al San
Luca, nel 2014, ormai in avanzato stato di restauro a Firenze (fig. 14), possa trovare collocazione
pubblica – nello stesso San Luca, si direbbe – non resta che sperare che ancora
nei tempi prossimi, seppur sempre più difficili, il dialogo fra istituzioni
possa continuare, nella reciproca apertura che ha caratterizzato questi anni.
Bibliografia
Munere
mortis. Complessi tombali d’età romana nel territorio di Lucca, a cura di Giulio Ciampoltrini, Bientina 2009.
Giulio Ciampoltrini, Paolo Notini, La Fanciulla di Vagli. Il sepolcreto
ligure-apuano della Murata a Vagli Sopra, Bientina 2011.
Giulio Ciampoltrini, Silvio Fioravanti, Paolo
Notini, Consuelo Spataro, Gli Etruschi e
il Serchio. L’insediamento della Murella a Castelnuovo di Garfagnana,
Bientina 2012.
Bianco
conventuale. I servizi da mensa del San Francesco in Lucca fra XV e XVI secolo, a cura di Giulio Ciampoltrini, Lucca 2013.
Il passo
di Gentucca. Il San Francesco di Lucca nel Medioevo: un itinerario
archeologico, a cura di Giulio
Ciampoltrini e Consuelo Spataro, Lucca 2014.
Anamorfosi
di un paesaggio. Gli scavi nell’area dell’Ospedale San Luca e la storia della
Piana di Lucca dagli Etruschi al Novecento, a cura di Giulio Ciampoltrini, Pisa 2014.
Segni
francescani. Il complesso conventuale di San Francesco in Lucca fra Cinquecento
e Settecento: un itinerario archeologico, a cura di Giulio Ciampoltrini e Consuelo Spataro, Bientina 2015.
Le mura e
il palazzo. Lucca fra Cinquecento e Seicento: un itinerario archeologico, a cura di Giulio Ciampoltrini, Bientina 2015.
Giulio Ciampoltrini, La ‘Signora con l’Anello’. Il complesso conventuale di San Francesco e
Lucca nell’autunno del Medioevo (1370-1490): un itinerario archeologico, in
corso di stampa.
Didascalie alle figure.
Fig. 1. La pagina web per la mostra Munere mortis di Lucca nel sito del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Fig. 2. La mostra Munere mortis nella Casermetta del Museo Nazionale di Villa Guinigi
in Lucca.
Fig. 3. La mostra Gli Etruschi nelle valli del Serchio e dell’Arno nella Casermetta
di Villa Guinigi.
Fig. 4. Gli spazi espositivi per l’archeologia del
San Francesco nell’area absidale della chiesa.
Fig. 5. La mostra Bianco conventuale: veduta dell’allestimento negli spazi espositivi
del San Francesco.
Fig. 6. Il
passo di Gentucca: copertina del volume per la mostra negli spazi
espositivi del San Francesco.
Fig. 7. La mostra Il passo di Gentucca: veduta dell’allestimento.
Fig. 8. La mostra Il passo di Gentucca: altra veduta dell’allestimento.
Fig. 9. Boccale con stemma francescano e data 1713
dallo scavo del complesso conventuale di San Francesco.
Fig. 10. La
Signora con l’Anello: copertina del volume.
Fig. 11. Lo scavo del Bastardo/Baluardo San
Salvatore: veduta.
Fig. 12. Locandina dell’incontro Lucca, le mura, l’archeologo, Cappella
Guinigi, 9 ottobre 2015.
Fig. 13. Anamorfosi
di un paesaggio: copertina del volume per gli scavi dell’area dell’Ospedale
San Luca.
Fig. 14. Antraccoli, lavori per la viabilità di
accesso all’Ospedale San Luca: sarcofago in piombo in corso di scavo.
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