La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

lunedì 29 giugno 2009

La terra di Arnth Lusinie (ovvero: in ricordo di un antico parroco di campagna)



Il nido degli Adimaringhi è oggi una stanca aiola; dei signori di Pozzo, i compagni di battaglia di Cadolo, del loro potere su un pezzo di Valdarno, delle loro storie di debiti e di figlie da sistemare, un Duecento diverso e 'alternativo', non rimane pressoché nulla. Si salva, in attesa di divenire bed and breakfast, la villa che fu degli Albizzi, dei Pucci, dei Bourbon del Monte, che vide tante fatiche di mezzadri di Santa Maria a Monte, e ora i figli e i nipoti di mezzadri frequentano, nobilitando con stemmi antichi nuove imprese. I figli degli affittuari di Gisello e Acconcialeone hanno espugnato il castello, assai più delle soldatesche di Castruccio o dei Fiorentini; e forse altri ancora si apprestano ad espugnarlo ... Ma non degli Adimaringhi si tratta a Pozzo, in una strana serata di incipiente estate, che si vorrebbe tardiva. Si ricorda don Lelio Mannari, figlio ultimo di una sequenza di preti antiquari, che negli anni di piombo guardava ancora più ai pievani del Settecento che ai preti-operai; e forse per questo ancora attira tanta gente nell'antico castello degli Adimaringhi, in affettuosa attesa di parole che facciano rivivere che li guidò nei primi passi della vita, di chi li sposò. Pochi sotto i settanta, quasi nessuno sotto i cinquanta, se non qualche fanciulla capitata per caso. Niente può far rivivere il mitico don Lelio più dell'escursione nella valle del Roglio, la terra di Arnth Lusinie (o Lustnie, come i Lustinii-Lustnie di Lustignano?), un giorno dell'autunno del '78, andando per cippi acheruntici, quando il proposto di Santa Maria a Monte era davvero l'erede del priore di Celli che nel Settecento aveva salvato il cippo del signorotto di un cocuzzolo nella Valle del Roglio. Piappina, Montacchita, la scoperta degli Etruschi di Montacchita: c'erano davvero gli Etruschi nella nostra Terra dei Quattro Fiumi, e non solo nelle memorie dei pievani del Settecento e del Targioni Tozzetti. I cippi di Montacchita erano forse solo una 'sovrapposizione' di don Lelio, socratico seguace della tradizione orale, ma lo straterello con gli Etruschi del VI secolo c'era davvero. La terra di Arnth Lusinie ora è affollata di archeologi, al cocuzzolo visto dal priore di Celli e a quello visto con il proposto di Santa Maria a Monte altri si sono aggiunti, per l'acribia di Monica e la passione di Emanuela, e poi per la geometrica potenza della macchina archeologica pecciolese. Il signorotto di Celli ha lasciato solo il suo cippo, in un rame del Settecento, ma il signorotto di Ortaglia ha riempito un museo con i suoi vasi, con i doli del suo vino: era un sacerdote, dice il dotto professore, e c'è da credergli, se gli Etruschi erano popolo divotissimo. Il laico archeologo amico dei preti è figlio degli anni Settanta, e ama seguire il maestro sgradevole ma acuto degli archeologi di Volterra pensando che da Celli e da Ortaglia, e poi da Montacchita, in una scansione sociale che traspare dai livelli delle restituzioni ceramiche, e in diversi ambiti geo-politici di riferimento, gruppi sociali eminenti controllassero la via da Volterra alla Pianura Padana, nella splendida e fresca valle del Roglio. Menate da anni Settanta, meglio il fascino di culti perduti, di un santuario enigmatico ... Ma riandando alla luce che indorava la pieve di Piappina, nell'autunno del '78, scrigno socchiuso di romanico ed etrusco, si riesce ancora a sentire la calda ed aspra parlata del proposto di Santa Maria a Monte.

martedì 23 giugno 2009

San Martino di Palaia, le piante di fase e la fede

Nuvole all'orizzonte rendono affascinanti i giorni del solstizio del 2009. A Palaia, sospesa nel cielo e sulla collina, la pieve di san Martino ha visto la fine dell'ennesimo restauro, ed è in attesa del prossimo: eretta a dimostrazione della forza di un Comune (direbbe il laico archeologo), aperta sulla strada più importante, legame tra la forte comunità palaiese e i castelli minori, forse luogo di commerci e di fiere ... voluta per questo forzando la natura, su un sottile crinale livellato in anni e anni di fatiche, con mura erette attingendo a tutti i materiali disponibili. È questa la storia del saggio di Silvia, storie del Basso Medioevo raccontate da tombe di bambini e da un frammento di maiolica arcaica. E quindi restauri infiniti, rifacimenti, fatiche, per una comunità sempre meno esuberante, su una via sempre meno importante, fino al rinnovamento neo-romanico, che rende la chiesa tanto bella perché è esattamente come si vorrebbe un (tardo)romanico delle colline fra Era e Egola, dove il mattone si sposa alla pietra.
Discorsi di vescovi e sindaci, discorsi di presidenti vari. E poi parla il parroco: l'entusiasmo per l'impresa compiuta in pochi anni, con tante forze suscitate, è un inno alla Provvidenza. Poco interessa il nuovo ruolo del monumento, portale turistico nella valle che fu dei castelli, poi dei mezzadri, e ora è degli agriturismi; e poco importa del motivo per cui i Palaiesi del Duecento e del Trecento tanto vollero quel monumento al loro Comune: la Provvidenza, la Provvidenza ha guidato la nuova vita della Pieve. Il laico archeologo pensa piuttosto alla sapiente combinazione di Fondazioni e Fondi, di impegno e di architetti, e pensa anche che il crinale fragile prima o poi porterà via il San Martino. Ma la Provvidenza, la croce sospesa sull'abside sospesa sul crinale sospeso sotto il cielo, fa degli uomini che innalzano e vivono i monumenti qualcosa di più di ciò che teorizza il laico archeologo.

giovedì 18 giugno 2009

Vino etrusco per l'ardente estate


I roventi giorni del solstizio evocano versi di Alceo; e le assolate terre dell'Etruria che vedono succedere il gonfiarsi dei grappoli alla pienezza delle spighe. Terre opulente, oggetto di desideri che i biondi campi di Maremma di questi giorni giustificano assai più del ferro elbano vezzeggiato dagli etruscologi e bramato dai loro coccolati Siracusani ... uomini e terre, la fonte della sontuosità dei principi, dell'orgoglio delle nuove aristocrazie del VI secolo, del decoro dei ceti 'oplitici' di qualche decennio dopo. Un popolo vitale, come volevano i viaggiatori inglesi dell'Ottocento, non un formichesco produttore di sequenze di ceramica etrusco-corinzia con tutti i suoi ghirigori, o di arzigogolate tipologie di kantharoi di bucchero.
E anche di anfore, per aggiungere al dono di Vei/Demetra/Cerere il dono dei dio del vino, che degli Etruschi faceva, per i Greci invidiosi (la 'sporca' propaganda della concorrenza), delfini. Il popolo dei delfini, il popolo che dalla terra passa al mare. E poi torna alla terra, alla sicurezza delle rendite agrarie, come i Pisani del Trecento o i Veneziani del Settecento, al momento del crepuscolo.
Se l'archeologia è scienza della vita, e non della morte, se gli Etruschi non solo morivano per erigere belle tombe piene di bella oggettistica, o santuari nei quali sfogare la loro iper-religiosità, ma anche vivevano, in capanne, case, ville, troppo faticose da scavare e sceverare in sequenze di strati e strutture, inopportune nelle sedi ufficiali, infelici per un concorso accademico, allora è il caso di celebrare i giorni delle mietitura con un'anfora del vino dell'anno prima, la guizzante anfora etrusca di Orbetello, prodotta per il mare. Sono (più o meno) gli anni di Alceo ... agli Etruschi non dispiaceva il vino di Lesbo, forse ai Lesbi non sarebbe dispiaciuto il vino dell'Albegna. Ricordiamolo, senza lasciarsi frastornare dai fratelli Py, benemeriti catalogatori di una classe dimenticata; ma davanti all'anfora etrusca non pensiamo solo alle Py 1,2,3,4,5, ma alla storia che ci raccontano.

martedì 16 giugno 2009

Guerrieri, gentildonne, principi, servi, lautni: Etruschi risorti e Etruschi archeologici


I due tomi son qui, sul tavolo, summa del fior fiore dell'etruscologia corrente: ognuno dà il suo meglio, o quasi, nella corolla che celebra il professor Camporeale: Etruria e Italia preromana. Raffinatezze, molti materiali, virtuosisimi di dotti, e qualche contributo dalla terra, ancora umido o con le concrezioni inaridite da un secolo di magazzino di museo. E tutti divengono solisti, con le pagine messe in ordine alfabetico, rispettosamente. È la scienza, bellezza (o l'accademia? o l'etruscologia?).
E comunque ne sappiamo un po' più di prima (non è che succeda sempre).
Poi vai sull'altra faccia del mondo, e vedi nel tam tam del 'condividi' di Facebook che a Marzabotto spiriti allegri ripropongono gli opliti etruschi: quel che in Toscana lice per madamigelle del Quattrocento, nella terra padana vale anche per i prischi padri etruschi. Donzelle e gentildonne si rincorrono per i secoli, i tronfi alabardieri del San Giovanni fiorentino divengono sul Reno opliti.
Dal positivismo arido delle note a pie' di pagina, dal certame al più raffinato dei recuperi, al bollore di Marzabotto dopo il solstizio, quando anche gli Etruschi avevano festeggiato la terra che riempiva i granai, e sentito i loro Dei non come oggetto di filologiche analisi, ma come segno potente del mondo da vivere. E le gentildonne e le plebee stavano accompagnando i loro uomini al ritrovo per la dolorosa festa d'estate, la guerra: sfavillanti corazze di bronzo, per chi affrontava il vibrare delle lance nella zuffa oplitica, povere tuniche e qualche mazza per i lautni. Il ritorno, talvolta, abbracciati dalla bellezza sfumata di una Lasa della Morte.
Far vivere in una nuova festa d'estate questo mondo forse non è meno importante, per chi della scienza del passato (archeologia) fa mestiere e passione, che ripercorrere la tormentata storia di una statuetta, o analizzare la tomba del guerriero di Pari, che sull'Ombrone lasciava una fattoria come quella di Pian d'Alma, armato di lancia, machaira, con la corazza, e i banchetti dominati dal cratere attico ... Suggestioni per una festa degli Etruschi nella Maremma (ma in Toscana, forse, non è politically correct). Mah.

lunedì 8 giugno 2009

Le vie della Padania, le vie di Roma (del secolo XI)



Imperatori e loro corti, vescovi e vassalli, affari di curia con decime da spartire, case da costruire, chiese rovinate da rifare, castelli che pullulano per tutelare decime e terre. Paesaggi urbani e rurali di Lucca intorno al Mille, da Ottone a Enrico, da Corrado ad altri Enrichi, con vescovi intrallazzatori e vescovi riformisti, ugualmente assecondati da giudici e notai; badesse eccitate e abati che si fanno vie e castelli per movimentare grano e porci. E nuove vie, in concorrenza con le antiche, per 'guidare' traffici e pellegrini, scenari duttili per storie che gli atti notarili ci fanno vivere in una dimensione miope; i cronisti degli imperatori di Sassonia e di Franconia, o di Matilde, presbite; le stratigrafie di Elisabetta e Serena, come in un quadro di Scanavino.
Riflessioni per una sera d'estate, da proporre agli amici, respirazione bocca a bocca per cassette di pentole e brocche, muri di ciottoli tutti uguali e tutti diversi. Molto meglio affabulare delle nuove chiese nello stile di Lombardia, di reliquie e pittori che vengono da Roma, di scultori attenti alle cifre di Bisanzio o di Venezia, di nobili di Normandia che non seguono più le vie di Valdera, attratti dal ponte di Fucecchio, ospiti di Cadolo, e poi del vescovo-papa. E la strata Lucense vel Pistorense di tanti anni fa, delle sopite memorie del (pen)ultimo scavo di amici, nella Pieve di Nievole, sotto gli occhi attenti e simpatici di preti generosi, i tormenti di Enrico, Ruggero, paolo Emilio, riemerge: rimosso intreccio di muri e morti, illuminato dal Crocifisso del Pellegrino, e dal gruzzolo di monete venute da Venezia e da Pavia.
Sapienza del sempre mitico Saccocci, accortezza e saggezza dello studioso nel seguire non oltre il debito la passione dell'archeologo che troppo chiede alla terra. Ma chi in una notte d'estate si porterà a Lucca per sentir parlare chi se ne starebbe volentieri a casa, se non fosse che crede al suo lavoro, forse le spezie d'Oriente che da Venezia arrivavano per la nuova via di Cadolo, dei Lucchesi e dei Pistoiesi, saranno (se non si esagera) colorate come le pareti dei muri della Grande Speculazione dell'Anno Mille.

venerdì 5 giugno 2009

Proviamo anche con i denari di Ottone (I e II, ovviamente)...




Tramontate le Notti dell'Archeologia, in umide sere d'estate toscana con quattro amici a consolarsi reciprocamente, sarà l'anno della notte della moneta ... tondelli d'argento e di mistura dove solo il mitico Saccocci riesce a leggere qualcosa, le monete degli Ottoni e degli Enrichi, meteore in un paesaggio di cronologie incerte, di stratigrafie stupende, che si dissolvono in ceramiche tutte uguali, ceramiche che solo i maestri senesi scandiscono in sequenze serrate, novelli Payne di un'austera Ceramica Corinzia. Ma l'area della Zecca, scavata da Elisabetta e Maila, Serena e Sara, ha fatto luce, i tondelli letti dal mitico dissolvono i dubbi: l'XI secolo è il secolo dei muri che tanto sarebbe piaciuto dir di Cuniperto e di Liutprando, e invece sono di quella strana aristocrazia lucchese nata all'ombra del vescovo, in un intreccio di inguacchi che fa impallidire le storie contemporanee (ma possibile che nessuno abbia celebrato l'inventore della Pornocrazia regia e imperiale, Liutprando da Cremona con le sue divoratrici di uomini Berta e Ermengarda? E che a Lucca non si siano promossi pellegrinaggi per salutare due donne che avevano solo il torto, come le pornocrati e le mignottocrati di oggi, di avere, oltre al resto, anche testa e cuore ... Liutprando da Cremona, razzista ottuso che a Costantinopoli non aveva capito nulla, tutto preso a celebrare la sua Longobardicità). Riflettere su questo, per innalzare l'interesse di un assopito e remoto pubblico, o turbatamente affermare che è nell'intreccio che solo il durissimo tedesco di Scwarzmaier ha provato a dipanare (e dipanarvicisi dentro è ancor più difficile), tra famiglie eminenti, vescovi che poi divengon papi, 'cattura' della via Francigena (e quasi invenzione della Francigena), il crogiolo in cui nasce il Comune, che la moneta lucchese diviene da status symbol un 'bene di massa'?

lunedì 1 giugno 2009

L'illusione della sicurezza, l'immagine del potere


Aria fresca, dopo un lungo assaggio d'estate, e lento cader della pioggia a far vibrare una luce incerta. Passano viandanti, pellegrini, curiosi, sulle mura, si affacciano nella sala dove amici, per passione, per dovere, per simpatia, per noia, si raccontano anni di ricerche nelle piane di Lucca e per i monti, da Pescia al mare, dalla Versilia alla Garfagnana. Cento e più castelli alla fine si sono accumulati, e dalla concrezione di interessi che accumulano curiosità antiquaria, rigore di studi di archeologia dell'architettura, fatiche di Soprintendenza e di Università, spunta – atteso ma sorprendente, come di solito sono le cose attese – lo scenario delle Gesta Lucanorum, tante volte lette nel faticoso racconto di risse di campagna e di faide di Comune, e dell'arrotondata prosa di Tolomeo: castelli e signori, battaglie ripetitive, insopportabili come le storie della politica dei nostri giorni, fino al trionfo del Primo Signore, il Comune, che dal Primo Castello (la Città) abbatte o risucchia tutti gli altri. La storia si fa anche con i muri, e Enrico ce ne ha dato una bella dimostrazione, riunendo suoni diversi, bande di paese, quartetti, solisti (un omaggio alla solista di oboe, paziente in sala). Montecastrese e il Bargiglio, Villa Basilica e Gorfigliano, Popiglio, storie scavate e storie immaginate dietro relitti di strutture talora ingannevoli; Benabbio e Vergemoli a raccontare altre storie, le punte di freccia e di balestra a far vivere guaite e castellani. Per dar vita alle pietre, è mancato solo, perduto nelle letture degli elevati e delle sequenze stratigrafiche, il monumento principe del Duecento lucchese, il Ritmo del 1213:
Ma come perdetero lor distrieri
così fussero rimasti prescioni
per li nostri cavalieri!
Altressì no fu sopra
Gualterotto Castagnacci
et Ronsinello Pagani;
ma per saramento fur distrecti
et ritornaro dai Christiani:
ma loro arme e lor cavalli
lassaro dai Pagani.
In quello stesse rio segno
fu Orlandin da Sogromigno
che fu Guido et Guidarello.
Pegio non fu lo Garfagnino,
quei che non fu paladino,
filiolo di Guido Garfagnino.
Prese a torto confalone
ke Luca ’l trasse di prescione;
e perciò quel mal portoe.
Mei lo portò Uguicionello,
quei che già no i fu Gainello,
ka Lucca aitò, la sua cittade,
in cui castello ten Christianitade.
ecc. ecc.

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