La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico
Informazioni personali
mercoledì 31 dicembre 2014
L'anno del ponte
Più di qualsiasi ricostruzione virtuale, il tocco barocco di Bernardo Strozzi per dar vita alle sublicae del Botronchio, riemerse dalla terra e ritornate all'acqua, ponte sul fiume sepolto e talora rinato.
Anno del ponte, vagheggiato e appena intravvisto sotto l'acqua dell'Anno dell'Acqua, il ponte che si taglia e si rigenera, il ponte dei pontefici, immaginato nelle immagini dell'aereo e del satellite, visto per un attimo nella terra.
E i miti indoeuropei rinati nelle storie di Tito Livio, grandi metafore nell'incrocio di metafore dei gelidi giorni del solstizio.
sabato 27 dicembre 2014
Anamorfosi urbane e ceramiche a colori
Per il resto c'è il Notiziario della Soprintendenza, per vedere a colori le ceramiche delle Anamorfosi urbane di Lucca (perché se non sono a colori che gusto c'è ...)
Contesti
stratigrafici e cronologie assolute fra Seicento e Ottocento: contributi dai
saggi di Piazzale Verdi
I contesti di Piazzale
Verdi offrono un significativo contributo alla definizione della cronologia
assoluta dei tipi ceramici in uso a Lucca fra Seicento e Ottocento, grazie alla
possibilità, appena esaminata, di raccordare livellamenti e discariche ad
episodi – di demolizione o di costruzioni – ben databili.
La us 177, messa in opera dopo la demolizione delle mura
medievali, conferma la datazione nel corso dei primi decenni del XVII secolo
dei tipi di graffita caratterizzati dalla decorazione araldica stilizzata o da
motivi vegetali entro cornici con motivi resi a punta o a fondo ribassato, già
riferiti a questo periodo sulla scorta delle associazioni – in particolare con
maiolica di produzione montelupina – nei contesti degli Orti del San Francesco
e del Cortile Carrara[1].
In questo caso, per
contro, è il contesto a consentire la datazione entro il 1640-1650 del grande
piatto ascrivibile per caratteristiche tecniche della pasta e morfologia alle
botteghe di Montelupo, che esibisce su un campo in cui si affollano tratti in
blu e stilizzate “foglie” in arancio un grande fiore in boccio, disegnato da
pennellate in manganese e campito in giallo (fig. 27, 1), in cui la suggestione della coeva “Flora” di Cecco Bravo[2] invita a riconoscere il fiore prediletto in questi
anni del Seicento, il tulipano, reso con i modi speditivi dei ceramografi
montelupini dell’avanzato XVII secolo[3]. Il variegato livello qualitativo delle produzioni
di maiolica disponibili sul mercato lucchese del Seicento è emblematicamente
suggerito dall’eccezionale presenza di un frammento ascrivibile ad una forma
aperta decorata con i motivi del “calligrafico naturalistico” seicentesco delle
manifatture liguri, forse albissolesi (fig.
27, 2)[4].
L’incrocio dell’evidenza
documentaria e iconografica con quella stratigrafica sembra confermare che l’impianto
dell’anfiteatro per le corse dei cavalli – almeno in forme solidamente
strutturate – non è anteriore alla metà del Settecento. La stampa che lo
presenta nello stato del settembre 1759, poco dopo il progetto promosso da una
società nel 1756, e prima dei rinnovamenti certificati nel 1785[5], coincide sostanzialmente con l’evidenza
archeologica; i materiali provenienti dai livellamenti che assecondano la
formazione del nuovo edificio sono compatibili con il terminus ante quem che la stampa fornisce.
A dimostrazione dell’eterogeneità
e casualità degli inerti accumulati e impiegati nelle opere di livellamento,
sono vistose le distinzioni fra i vari contesti, in particolare la us 552 e la 176. Le “catinelle” montelupine con “spirali verdi”, fortunate anche a
Lucca nei decenni centrali del Settecento[6], attestano la “chiusura” contemporanea dei due
sedimenti, ma nella us 552 (fig. 27, 3-4) sono associate soprattutto
a residui, che si scaglionano – per rimanere ai capi meglio databili – dai
primi del Cinquecento, con il frammento che salva sul fondo bianco la sigla S D
(fig. 27, 5) in cui parrebbe arduo
non riconoscere le mode certificate dall’analoga sigla su un ‘bianco’ del San
Francesco[7], applicata al San Donato lucchese, o con il tondo –
ugualmente di bottega montelupina – con cane latrante (fig. 27, 6)[8].
Dal Cinquecento fino ai
primi dell’Ottocento le botteghe toscane subiscono a Lucca la concorrenza di
quelle liguri, decisamente meno “popolari”. Il successo delle manifatture
liguri in questi secoli trova nell’evidenza documentaria, grazie ai dati
registrati da Sergio Nelli[9], testimonianze assai più consistenti di quelle
offerte dai contesti archeologici, a riprova di un’eccellenza qualitativa che
ne esaltava il valore e quindi ne imponeva la registrazione negli inventari
domestici; emerge tuttavia anche nelle restituzioni della discarica 552, con
minuti frammenti a smalto berrettino (fig.
27, 7) o in “calligrafico naturalistico” (fig.
27, 8-9), uno dei quali salva nel tondo chiuso da una cornice “a quartieri”
parte un apparato architettonico (fig.
27, 9) sovrapponibile a quello integralmente conservato da un esemplare
albissolese in collezione privata[10].
L’omogeneità con i
contesti esplorati negli Orti di San Francesco attesta invece che nella us 176 finì una vera e propria discarica
di ceramiche in uso intorno al 1750, con la “catinella” con “spirali verdi” (fig. 28, 1) e la massa di forme aperte
di manifattura toscano-settentrionale invetriate su un ingobbio speditivamente
decorato da soggetti vegetali e floreali resi con veloci pennellate di verde o
di giallo (fig. 28, 2-4), e un
ricorso del tutto marginale alla pratica della graffitura[11].
Le unità stratigrafiche
che segnano i progressivi adeguamenti e i rifacimenti dell’anfiteatro fra
Sette- e Ottocento restituiscono quasi senza eccezione frustuli misti a
residui, di regola in proporzione preponderante (fig. 29), talora di più antichi di secoli, come il frammento con
fregio che dispiega sulla tesa le cornucopie che compaiono nei “girali fioriti”
montelupini della metà del Cinquecento (fig.
29, 12)[12]. Tuttavia, anche in questa veduta “anamorfica” del
vivace mercato lucchese d’età neoclassica, che merita una definizione più
accurata di quella sin qui ancora essenzialmente affidata alle valutazioni
formulate sui dati dagli Orti del San Francesco[13], traspaiono le acquisizioni di tono “medio” (più
che medio-alto) dalla bottega empolese del Levantino, da cui giungono i capi in
monocromia bianca impreziositi dall’“orlo cinese” in azzurro (fig. 29, 1-2)[14], dai “fiorellini diversi” (fig. 29, 3; 6-7)[15], e forse anche le redazioni di forme aperte
decorate sulla tesa con “onde blu e punti neri” (fig. 29, 13), conosciute peraltro anche nella manifattura di Doccia[16]; al Levantino si deve probabilmente ascrivere
anche la forma in monocromia con tesa increspata (fig. 29, 9)[17].
La grande forma aperta con
“mazzetto fiorito verde” (fig. 29, 4)
certifica la perdurante vitalità delle manifatture di Montelupo, che devono
ormai competere piuttosto con le produzioni invetriate su ingobbio, provviste
di una decorazione altrettanto schematica, resa da frettolose pennellate gialle
e verdi che appena fanno intuire il soggetto floreale che intendono presentare
(fig. 29, 5)[18]. Soprattutto, le botteghe di tradizione “artigianale”
della Toscana settentrionale, attive per maioliche o per ingobbiate, devono
ormai affrontare la presenza sul mercato di una produzione dagli aspetti “industriali”
come quella albissolese che “firma” con le pennellate in nero – le tâches noires – i capi invetriati di
marrone, restituzioni a buon mercato delle forme sin qui proprie delle manifatture
di maiolica (fig. 29, 10-11)[19]. Nuovi orizzonti – non solo mercantili, ma anche
delle strutture produttive – culturali, indiziati anche dalle produzioni in
vetro fuso su stampo (fig. 29, 8) che
cominciano ad apparire in questi contesti. (G.C.)
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[1]
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ss.; si veda in seguito Ciampoltrini,
Spataro 2009, pp. 200 ss.
[2]
Barsanti 2003, p. 577, fig. 684.
[3]
Si vedano le parentele con il “Genere 59. Foglia con frutta policroma” di Berti 1998, p. 196.
[4]
Si veda da ultimo, con la revisione terminologica in “orientalizzante
naturalistico”, Pessa 2011, pp. 63
ss.
[5]
Rispettivamente Lucca iconografia della
città 1998, n. 184, p. 118; n. 189, pp. 119 s. (G. Bedini).
[6]
Ciampoltrini, Spataro 2005, p. 82;
per il tipo Berti 1998, pp. 215
s., “Genere 72”.
[7]
Da ultimo Ciampoltrini, Spataro 2013,
pp. 43 s.
[8]
Per il tipo a Lucca Ciampoltrini, Spataro
2013, p. 33, tav. X, 1.
[9]
Nelli 2007, in particolare pp. 330
s.
[10]
Barile 1965, tav. XXI, 1.
[11]
Per queste produzioni, dopo Ciampoltrini,
Spataro 2005, pp. 78 ss., si rinvia a Ciampoltrini,
Spataro 2007, in particolare pp. 179 ss.
[12]
Per questo Berti 1998, pp. 126 s.,
“Genere 32”.
[13]
Ciampoltrini, Spataro 2005, pp. 93
ss.
[14]
Per questo Moore Valeri 2008, p.
46; per Lucca, si vedano i cenni di Ciampoltrini
2008, p.
[15]
Moore Valeri 2008, pp. 38 ss.; per
Lucca, oltre a Ciampoltrini, Spataro
2005, p. 95, si veda Ciampoltrini,
Spataro 2009, p. 222.
[16]
Moore Valeri 2008, pp. 44 ss.
[17]
Moore Valeri 2008, pp. 41 ss.
[18]
Si veda rispettivamente Berti
1998, p. 217, “Genere 75”; Ciampoltrini,
Spataro 2007, pp. 183 ss.
[19]
Ciampoltrini, Spataro 2005, p. 95;
Ciampoltrini, Spataro 2009, p.
222.
martedì 23 dicembre 2014
Piatti da un matrimonio
Giorni stanchi, l'inverno è autunno interminabile, il solstizio s'immerge nelle paludi dell'autunno, e stanco è anche l'anno. Ma pur si deve guardare avanti, nelle ammucchiate cassette di tante fatiche di amiche e proprie, perché le fatiche non si perdano nella palude della stanchezza.
E da ammucchiate cassette e dal fango affiora una storia di matrimonio, piatti rotti, maiolica misera, smalto che non regge alle ingiurie della terra se non quel tanto da generare da ricomposti frammenti e dal gorgoglio dell'acqua l'arme dei Balbani congiunta a quella Parensi, aquilotti sul blu e ricci sull'oro, e cimieri fieri di altri uccellacci.
Un matrimonio lucchese del Settecento, avanzato, dichiarano i piatti di ogni giorno finiti con il servizio buono del matrimonio, tâches noires di Albissola misere e tristi nella povera bicromia, ma solide, appena incise dal lavorio di coltelli; e il tegamino che pare uscito da una natura morta del Magini, festoso di uova al tegamino.
Sono lividi anche i colori, nella luce dell'autunninverno nei giorni del solstizio, sorridono appena al blu e all'oro dei Balbani e dei Parensi, di un matrimonio da ritrovare, finito nei piatti di una discarica.
sabato 22 novembre 2014
Anamorfosi di un paesaggio. Le storie narrate dalla terra dell'Ospedale San Luca di Lucca e le storie di tanti amici
Anamorfosi: il termine polivalente che in
zoologia indica una trasformazione repentina, e nella pittura l’effetto ottico
che rende compiutamente leggibili le immagini solo da una particolare angolazione
è già stato applicato alla storia urbana di Lucca, per sintetizzare la sequenza
di trasformazioni che ha investito il quadrante sud-occidentale della città,
dall’età romana all’Ottocento, così come è emersa dai saggi condotti fra 2013 e
2014 per la realizzazione del progetto PIUSS.
Ancor più adatto pare il termine per la
storia che hanno raccontato anni di scavo – dal 2009 al 2012 – nel cantiere del
San Luca, nella periferia orientale dell’attuale agglomerato urbano, tra l’Arancio
e San Filippo, e poi – fino ad oggi – nei depositi e nei laboratori. Ne sono
emerse vicende di mutamenti di paesaggi e di insediamenti, dapprima in un
ambiente dominato dai fiumi, poi dalle strade che ne determinano il complesso
rapporto con un polo urbano così vicino. Solo in questo ‘contesto’ – come si
sarebbe detto un tempo – è possibile trovare il ‘punto di vista’ da cui, per ‘anamorfosi’,
i singoli episodi possono ottenere pienezza di colori e di volumi.
Parte ancor più da lontano la storia delle
ricerche, con gli accordi di programma fra Regione Toscana e Ministero per i
Beni Culturali per la costruzione dei quattro nuovi poli ospedalieri della
Toscana settentrionale, nel 2005, e con l’applicazione sperimentale di una
forma di ‘archeologia di tutela’ sostanzialmente non dissimile da quella che
sarebbe stata strutturata negli articoli 95 e 96 del Decreto Legislativo 163
del 2006, e avrebbe trovato possibilità di concreta attuazione nella circolare
della Direzione Generale per le Antichità del 2012 (10/2012).
Nel 2009, quando prese avvio il cantiere
con la procedura delle opere di bonifica bellica – BOB: B(onifica) O(rdigni)
B(ellici) – erano quindi disponibili una scheda per la ‘valutazione dell’impatto
archeologico’ e una strategia di saggi diagnostici, messe a punto dalla
Cooperativa Archeologia di Firenze d’intesa con la Soprintendenza, e motivate
dai dati desumibili dai ritrovamenti del passato in aree contigue (da San
Filippo a Tempagnano) e dal reticolo della centuriazione, con il possibile
condizionamento sulle infrastrutture e sul sistema di insediamenti già
riconosciuto nella Piana di Lucca.
A dimostrazione che la realtà è di norma più
screziata di quanto possa immaginare la fantasia dell’archeologo, e che gli
algoritmi della predittività archeologica fondati su serie storiche di dati
hanno valore meramente probabilistico, furono le trivelle della BOB, con il
quadrettato di carotaggi disposto su tutta l’area del San Luca, a rivelare che
un complesso intreccio di stratificazioni e di strutture era sepolto sotto il
paesaggio di boschi planiziali di recente formazione e di prati che le
fotografie satellitari consentivano di apprezzare al margine della Via Romana,
lambito dall’espansione del suburbio di Lucca in un connubio talora straniante
di antiche corti e di nuove villette – la penultima ‘anamorfosi’ (fig. 1). I
frammenti ceramici, i relitti di murature portati in luce dalle trivelle,
minuziosamente esaminati dagli archeologi della Cooperativa Archeologia – con l’appassionata,
continua presenza di Domenico Barreca – disegnavano una mappa
straordinariamente più affascinante ed inquietante di quella che le valutazioni
formulate sulla scorta dei dati già acquisiti potevano far immaginare (fig. 2).
Ancor più efficaci furono i risultati della
serie infinita di saggi che la BOB impose per valutare se i ‘segni’
potenzialmente riconducibili a ordigni interrati erano tali, o dovuti ad altre
presenze. Ancora con Domenico Barreca, d’intesa con la direzione dei lavori, fu
messo a punto un metodo capace di contemperare le esigenze di sicurezza –
particolarmente stringenti nel caso della BOB – con quelle di salvaguardia del
patrimonio archeologico.
Le trincee diagnostiche si dilatarono
dunque, progressivamente, nell’autunno e nell’inverno 2009-2010 divennero saggi
su ampia estensione che in alcuni casi – in particolare al margine meridionale
dell’area – portarono all’esplorazione integrale dei contesti (fig. 3), con
opere agricole d’età romana distribuite su tutto il compendio; un lacus vinarius, ancora
d’età romana; una struttura con la straordinaria testimonianza di vita
contadina proposta da un ricco campionario di ceramiche databili al volgere fra
Otto- e Novecento. In alcuni settori fu motivatamente esclusa la presenza di
stratificazioni archeologiche; in altri, infine, vennero acquisiti i dati
indispensabili per progettare nuove ricerche, funzionali ad assicurare la
compatibilità fra le opere di progetto e le strutture archeologiche. Fu in
questo momento che apparve, in un sito di immagini satellitari (Bing Maps), una veduta
obliqua dell’area del San Luca in cui risaltavano i segni di un edificio
sepolto dal solo suolo agricolo, che già le trivelle avevano in parte disegnato
con i frantumi di strutture portati in superficie, e che i primi saggi stavano
ricomponendo nel suo ordito. Una vera e propria ‘anamorfosi’, possibile solo in
un momento ‘magico’ di crescita della vegetazione e con una particolare
angolazione della ripresa aerea.
Con il personale della COSAT, che stava
allestendo il cantiere – conclusa con esito positivo la BOB – e la componente
della ASL 2 di Lucca – piace ricordare il direttore pro tempore
ingegnere Oreste Tavanti e il Responsabile del Procedimento ingegnere Gabriele
Marchetti – fu progettato e affidato l’incarico di esplorazione integrale delle
stratificazioni archeologiche.
Dall’estate all’autunno del 2010, fra
ripetuti episodi di allagamento (fig. 4) e siccità estive (fig. 5), gli
archeologi della Cooperativa Archeologia – coordinati da Domenico Barreca con
Silvia Giannini – misero in luce l’intero ordito del complesso, rivelatosi una mansio d’età romana
capace di essere riconosciuta nella veduta satellitare, grazie anche al manto
protettivo di geotessile (fig. 6), che apparve edificata su un sito già
frequentato fra VIII e VI secolo a.C.; furono scavate strutture d’età medievale
quasi sovrapposte ai resti di insediamenti etruschi d’età arcaica; fu
completata l’esplorazione di un potente sedimento tardoantico. Infine, nell’arcipelago
di stratificazioni che segna, al margine nord-occidentale del San Luca, l’area
più vicina alla Via Romana, affiorò uno scarico con materiali farmaceutici d’età
contemporanea, quasi preludio all’ultima, attuale ‘anamorfosi’ dell’area del
San Luca.
Il rilievo del complesso delle strutture –
in particolare d’età romana – sovrapposto a quello degli edifici del San Luca
non segnalava criticità se non in due punti: la sovrapposizione dell’angolo
sud-occidentale del corpo centrale dell’ospedale al lacus vinarius; l’incrocio
fra la cloaca emissaria della mansio e il corridoio sotterraneo di collegamento del corpo centrale
con l’edificio destinato alle attività amministrative (cosiddetto ‘Economale’).
Nell’ambito dell’attività autorizzativa affidata dalla normativa vigente pro tempore alla
Direzione Regionale per i Beni Culturali, e nel contesto di un progetto
complessivo di valorizzazione del patrimonio archeologico dell’area del San
Luca, fu disposta la ricollocazione del lacus e del segmento di cloaca, rispettivamente al margine
sud-occidentale del complesso, in contiguità dell’eliporto e in prossimità dell’accesso
al Pronto Soccorso, e nel cortile interno. La ricollocazione fu messa in atto
fra 2011 e 2012, con cantieri affidati rispettivamente alla Cooperativa
Archeologia e all’impresa Graziano Nottoli di Lucca. Questa provvedeva infine,
con gli archeologi Alessandro Giannoni ed Elena Genovesi, nell’estate del 2011
e poi nell’anno successivo, a concludere lo scavo: il ritrovamento di un
sepolcreto dell’VIII secolo a.C. investito dal peristilio della mansio e prima ancora
nel III secolo a.C., con il singolare episodio di ‘riuso’ di un pozzetto
funerario, l’esplorazione dei relitti di un insediamento d’età ellenistica e
del pozzo che alimentava la fontana-ninfeo della mansio, segnavano
infine, nell’estate del 2012, la conclusione delle indagini archeologiche, a
quasi tre anni dalle prime attività diagnostiche.
Il progetto di valorizzazione era avviato
già nel 2010, con le attività sui materiali – affidate a Consuelo Spataro, nel
laboratorio che il Comune di Porcari mette a disposizione per l’archeologia
della Piana di Lucca, e ad Araxi Mazzoni del Centro di Restauro della
Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana – che trovavano la prima
presentazione nell’autunno del 2011, con la mostra Emersioni. Il nuovo ospedale porta alla luce tremila anni
di storia della Piana di Lucca, allestita
nella Casermetta del Museo Nazionale di Villa Guinigi in Lucca. Prendeva corpo,
già nel 2012, il progetto di un percorso espositivo da allestire nella sala d’ingresso
dell’ospedale. La D’Arch Studio s.r.l., con l’architetto Luciano Lucchesi,
provvedeva alla progettazione dei contenitori e dei pannelli cui era affidata
la sintetica narrazione delle storie emerse dallo scavo, in un percorso a
ritroso nel tempo che incontra il visitatore con le testimonianze d’età
contemporanea – la ‘discarica del malato’ e le ceramiche di una casa della
campagna lucchese fra Otto- e Novecento – e lo conduce sino agli Etruschi dell’Età
del Ferro.
Anche le
pagine che seguono vogliono raccontare questa storia, senza indulgere all’erudizione,
coinvolgendo piuttosto il lettore con ampi spazi per l’illustrazione dei
materiali e per la documentazione di scavo – rilievi, fotografie – dovuta all’eccellenza
degli archeologi che hanno operato sul cantiere, in un contesto oggettivamente
difficile per la sovrapposizione della componente archeologica a quella
propriamente edile.
Il
coordinamento del Responsabile del Procedimento, ingegnere Gabriele Marchetti,
con la collaborazione dell’ingegnere Letizia Caselli, la disponibilità della
COSAT, la duttilità degli archeologi hanno permesso di non sottrarre dati alla
documentazione, senza determinare particolari problemi per il cronoprogramma
dei lavori, con le conseguenze sui costi di realizzazione. L’apparato bibliografico
è ridotto all’essenziale, e privilegia di massima materiali disponibili sulla
rete, semplicemente avviando sui motori di ricerca, come parole-chiave, i
titoli dei contributi. Altre sedi accoglieranno – ci si augura – le severe
riflessioni che impone la massa di dati emersa fra l’Arancio e San Filippo, dai
villaggi etruschi sui fiumi e dagli
edifici romani, medievali, d’età contemporanea, lungo la strada che
portava a Lucca, nel paesaggio oggi segnato – l’ultima ‘anamorfosi’ – dall’Ospedale
San Luca.
Giulio Ciampoltrini
lunedì 27 ottobre 2014
Viaggio tra Rogio e storia
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La storia della fascia di
territorio al confine tra i Comuni di Porcari e Capannori, lungo il Frizzone e
il Rogio, in età medievale, moderna e contemporanea, è raccontata da una
straordinaria massa di fonti documentarie, spesso arricchite da immagini e
cartografie di altissima qualità.
L’area lacupalustre del
Lago di Sesto – che trae nome dall’Abbazia di Sesto – raggiunge la sua massima
espansione nel secolo XI. I documenti di Porcari degli anni Quaranta di questo
secolo segnalano paludi anche a nord di Paganico, con il toponimo Aqualunga. La via Francigena, infatti, non segue l’antico tracciato rettilineo
della via pubblica romana, e descrive un ampio arco proprio per evitare l’impegnativo
ambiente della palude.
A partire dal XII secolo,
per iniziativa degli abitanti del Compitese, inizia un’opera di riconquista
che, con alterne vicende di avanzata o di regresso della linea di sponda del
lago, si conclude con la bonifica degli anni Cinquanta dell’Ottocento, portando
all’attuale assetto del paesaggio. La cartografia dell’Archivio di Stato di
Lucca offre immagini di questa storia, che inizia con le ‘mappe catastali’ dei
primi del Quattrocento e arriva alle minuziose raffigurazioni del Settecento.
La storia della ricerca
archeologica nella Bonifica del Lago di Sesto o Bientina è strettamente legata
a quella della bonifica d’età granducale (anni Cinquanta dell’Ottocento), che
ancora oggi richiede continue opere di manutenzione.
Proprio in uno di questi
lavori, nel 1892, emerse il documento più spettacolare dell’età etrusca: una
tomba che impiega come contenitore cinerario un vaso di produzione ateniese con
decorazione a figure rosse (Teseo e il Minotauro), ed è provvista di un corredo
di oreficerie che ne ribadisce la datazione intorno al 470-460 a.C. Grazie al
Comune di Lucca, il complesso venne acquisito alle collezioni civiche della
città ed è oggi esposto al Museo Nazionale di Villa Guinigi.
Scavi regolari, tuttavia,
vengono condotti solo a partire dal 1981, quando si pose per la prima volta il
problema di una tutela dell’area archeologica nel suo complesso. La
Soprintendenza per i Beni Archeologici per la Toscana, dopo i saggi di
accertamento che portarono al primo ampio provvedimento di tutela (1982), si
impegnò per un decennio nelle ricerche sul sito del Chiarone, in Comune di
Capannori, che testimonia tutta la storia antica di questo territorio, dal 700
a.C. al 250 circa d.C. I materiali sono esposti al Museo Nazionale di Villa
Guinigi.
Le aree archeologiche di
Fossa Nera, in Comune di Porcari, furono individuate nelle ricognizione
condotte negli anni Settanta ed Ottanta del Novecento. La ricerca fu mirata
alle sponde dell’antico percorso dell’Auser,
perfettamente leggibile in una marcata depressione spesso allagata.
Lo scavo, finanziato dal
Comune di Porcari, ha portato alla luce un complesso produttivo eretto nel II
secolo a.C. e più volte ristrutturato, fino all’abbandono intorno al 250 d.C. L’edificio
era stato fondato in un’area già occupata dagli Etruschi nel V secolo a.C.
Il complesso di Fossa Nera
A è un esempio ‘da manuale’ di domus
(casa) adattata alle esigenze della vita agricola. Dall’ingresso (fauces) si accede ad un’area scoperta
centrale (atrium) che prospetta il ‘cuore’
della vita di relazione dell’abitazione (tablinum)
e gli ambienti residenziali (cubicula).
Un ambiente è dotato di una particolare pavimentazione che lo rende disponibile
all’attività di vinificazione (calcatorium
e lacus). Il complesso disposto a sud
del corpo centrale riusale ad una ristrutturazione d’età imperiale ed aveva
destinazione produttiva – forse come ‘magazzino’ – o a deposito di attrezzi
agricoli e bestiame
L’attività di ricognizione
e di recupero condotta a Fossa Nera da Augusto Andreotti ha permesso di
recuperare, in scarichi di terreno rimossi nel corso degli anni Settanta del
Novecento, una massa di materiali che ha consentito di ricostruire il ‘volto’
di un insediamento fiorito intorno al 1200 a.C.
Prima ancora del sistema
di insediamenti etrusco, vissuto con fasi alterne dal 750 al 450 a.C., le
sponde dei rami sepolti dell’Auser avevano visto già intorno al 1500 a.C. la
formazione di abitati ben strutturati, entro aree assistite da fossati, come
hanno rivelato gli scavi condotti nel 1995 durante la realizzazione del
metanodotto nella località del Palazzaccio, sulla destra del Rogio, in Comune
di Capannori.
L’abitato detto ‘di Fossa
Nera’ è strettamente legato alla cultura detta ‘terramaricola’ della Pianura
Padana occidentale. Si può addirittura supporre che sia stato fondatro da ‘coloni’
provenienti da questo distretto. Ceramiche, bronzi, ambre tratteggiano – nella
perdita di tutti i dati stratigrafici – la vita di una comunità attiva sulle
vie che dalla Toscana raggiungono l’Emilia, e che scompare nella drammataica ‘crisi
del 1200 a.C.’.
Il complesso di Fossa Nera
B è il vero e proprio ‘gemello’ di Fossa Nera A, costruito sull’opposta riva
dell’Auser: Lo scavo fu voluto e
finanziato dal Comune di Porcari e dalla Provincia di Lucca, e si concluse nel
2006 con un’impegnativa opera di consolidamento delle strutture messe in luce.
Come per Fossa Nera A, la
storia di Fossa Nera B inizia con la fondazione negli anni della deduzione
della colonia di diritto ‘latino’ di Lucca, nel 180 a.C., e si esaurisce con le
effimere rioccupazioni del III secolo d.C.
Il cuore dell’edificio è
ancora una volta una tipica domus
tardorepubblicana, riconoscibile anche sotto la ristrutturazione del I secolo
d.C. quando venne anche provvista di adeguate pavimentazioni. La presenza di un
angusto vano probabilmente occupato da una scala dovrebbe confermare – assieme
allo spessore delle pareti – la presenza di un piano sopraelevato. Gli ambienti
residenziali sono integrati in un circuito produttivo che occupa l’intero
settore meridionale, con strutture per la vinificazione, la produzione del
formaggio e forse dell’olio (con un torcular),
disposte intorno ad un vasto cortile, cui si accede da un portone.
L’area residenziale di
Fossa Nera B, composta da ambienti in cui è possibile riconoscere il tablinum, posto in asse con l’atrium, una serie di cubicula e – forse – la cucina, ha
conservato lembi di pavimentazioni che testimoniano l’adattamento ad un
edificio rurale delle tipologie tipiche degli edifici di tono ‘medio’.
In particolare, la
pavimentazione in terra battuta dell’atrium,
con scaglie e ciottoli policromi disposti secondo un ordito irregolare, emula i
pavimenti in tessellato (mosaico) o in battuto cementizio con inserti lapidei
policromi, che sono conosciuti anche in edifici urbani di Lucca, e sono in uso
dagli inizi del I secolo a.C. fino all’avanzato I secolo d.C.
Una particolare tipologia
di pavimentazione è quella detta ‘a commesso laterizio’, che nelle
realizzazioni canoniche vede l’impiego di ‘mattonelle’ fittili, di forma
geometrica regolare (di solito rombi o esagoni). A Fossa Nera B l’estesa
pavimentazione in laterizi – che è stata interrata per esigenze di
conservazione – composta da frammenti di tegole, opportunamente ritagliate in ‘tessere’
di forma quadrangolare, come accade anche in altri contesti rurali, realizza il
‘commesso laterizio’ con materiale ottenuto da macerie.
Il Decreto Ministeriale
del 3 giugno 1997 che incluse l’area archeologica dell’ex lago di
Bientina/Sesto fra le “zone archeologiche” tutelate nella doppia valenza,
archeologica e paesaggistica, è uno strumento di salvaguardia per la piana –
compresa fra il Monte Pisano, le Cerbaie, l’Autostrada Firenze-Mare – che
conserva estesi lembi della rete di paleoalvei del ramo di sinistra dell’Auser/Serchio. La millenaria ‘protezione’
assicurata dalle acque del lago ha permesso a queste testimonianze del
paesaggio di giungere sino ai nostri giorni in eccellente stato di
conservazione.
Fotografie aeree e
satellitari e lo stesso profilo del terreno, con le accentuate depressioni
corrispondenti agli alvei fluviali – spesso soggette ad allagamenti –
ricompongono infatti il tracciato dell’Auser
in età etrusca e romana, prima che le crisi ecologiche dellaTarda Antichità
e dell’Alto Medioevo portassero alla formazione del lago, con il caratteristico
aspetto palustre ai margini.
Sulle rive del fiume, per
più di un millennio, fiorirono insediamenti che sono una preziosa testimonianza
della vita rurale d’età etrusca e romana nella Toscana nord-occidentale.
Assieme ai resti degli abitati sono conservate anche strutture del paesaggio,
come la via etrusca del Botronchio di Orentano, realizzata con un terrapieno e
palificazioni.
Dopo che più di un
trentennio di scavi – dai primi saggi del 1981 alle indagini del 2012-3 nel
Botronchio – ha permesso di ritrovare molte pagine di queste storie sepolte, lo
strumento di tutela si propone lo scopo di conservare i resti del paesaggio
antico, nell’intreccio fra insediamenti, manufatti stradali e alvei fluviali, all’interno
di ambiente strutturato dalla bonifica del XVIII e del XIX secolo. Boschi
planiziali di rinnovata vitalità e aree soggette ad impaludamento stagionale,
che ospitano flora e fauna sempre più vivaci, completano un paesaggio in cui
convivono i segni di quasi tremila anni di storia di una pianura interna della
Toscana settentrionale.
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