La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico
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domenica 31 ottobre 2010
La zuppa di Alessandro (e di Elena): ritrovar tabernae degli anni della tormenta
Non il vino di Sara, imbottigliato in anfore di Empoli, ma quello del Tosso poteva acompagnare, negli anni di Alessandro Severo, dei Gordiani e di Massimino, di Decio e Gallieno, della guerra alle porte d'Italia e in Italia, dei curatores rei publicae impegnati a salvare nei ruderi di città morenti i segni del potere, la zuppa che ci cucina, mirando dall'alto il frutto delle sue fatiche autunnali, Alessandro; ed Elena, nella forza serena del suo sorriso mirato altrove, assicura il suo sostegno.
Ceci lenticchie chicchi che attendono dotti paleobotanici si spandono intorno ai segni del fuoco, nel cortile della taverna spersa nella campagna che era di Luca ed ora è orgogliosamente di Capannori, il profumo delle verdure e dei legumi che si scaldano alla brace per accompagnare il pane, seppur non ancora in zuppe longobarde, par quasi tornare in una giornata d'autunno in cui i cammelli e le musiche del circo migrante, lì vicino, evocano straordinarie suggestioni delle feste di campagna, delle nundinae, in cui servi e coloni e qualche militare di passaggio potevano riscaldarsi un attimo al fuoco che nella pentola, con il vino del Tosso o del Valdarno, aiutava ad arrivare al domani, fidando nelle legioni esaltate nel sarcofago Ludovisi, i succinti pastori e contadini del sarcofago di Iulius Achilleus.
venerdì 29 ottobre 2010
Il lacus di Sara e i giorni di Dioniso fra l'Arno e l'Era
Per il verde esangue dei pantani fra l'Arno e l'Era e il remoto Arme, andando verso il verde delle Cerbaie, si arriva all'archeologa che estrae dall'impasto di limi generato dai tre fiumi memorie inattese di un atteso passato. Tracciate dalle invisibili linee dei decumani e dei kardines di una centuriazione appena sognata seguendo lo stanco profilo di un veterano di Augusto, emergono dal fango le faglie di strati che con i colori delle terre sepolte evocano gli anni di guerre civili di Roma, e le masse cementizie che disegnano il lacus che in giorni come questi o poco prima avrebbe generato il vino dell'Arno, il Florentinum della Coena Cypriani o il frutto della uva Pariana di Pisa celebrato da Plinio.
Quasi volando sul fango che impasta i relitti del granturco e le trincee di nuovi acquedotti, Sara dà conto del suo impegno, mentre porta luce nel bianco del cementizio e nel rosso del signinum o come vogliano i raffinati esegeti dei segni del passato chiamare l'impasto di cocci tritati e cementi che accoglie il catino purificatore.
È questa la stagione del vin novello, la vendemmia è appena passata, la festa rurale di Dioniso che rigenera il mondo dall'uva spremuta e dal vino che dà tregua ai dolori della vita.
Un autunno festoso, con i verdi colori della primavera, per Sara che celebra i giorni del Vin Nuovo.
domenica 24 ottobre 2010
L'archeologo tra Paese dei Balocchi e il Tramonto sulla Valdera
Si conclude al tramonto, in Valdera, sotto cieli increspati di pioggia, la sera del ricordo, per l'archeologo carico di anni: dove folleggiavano i deliri del '68, nella sala che vide i fasti della Preistoria e Protostoria in Valdera in una magica sera del 2003, pochi amici celebrano e onorano il loro impegno, fatto di immagini nutrite dalla luce delle colline e della pianura fra l'Arno e l'Era, di cocci che ricordano storie antiche, ritrovate per la scienza e per la curiosità. Il Gruppo Tectiana si riconosce in queste vetrine di legno e vetro, scansie sottratte al rigattiere, dove stecche di legno scandiscono cocci amati e desiderati, figli di una passione comprensibile solo a chi ama i Segni della Terra.
Una sera intima, dimessa, mentre l'agitazione all'esterno rievoca altri momenti e altri movimenti, scavando colori e suoni perduti nella memoria, sepolti come l'ambigua traccia di quegli anni.
E appena qualche giorno prima, il Paese dei Balocchi, festoso di Autorità di Suoni di Luci, LuBeC 2010, celebrazione di tecnologie che arrivano nell'austera esposizione di Pontedera depurate di ogni esuberanza.
Feste e fasti, e la quotidianità della terra. Il tramonto sulla Valdera, che fonde il profilo dei castelli medievali e dei castella etruschi, le tracce delle capanne dell'Età del Bronzo che altri amici vecchi e non stanchi continuano a cercare, con immutata passione da trent'anni e quasi quaranta, esalta, ritagliati sul cielo, i Segni della Terra.
Una sera intima, dimessa, mentre l'agitazione all'esterno rievoca altri momenti e altri movimenti, scavando colori e suoni perduti nella memoria, sepolti come l'ambigua traccia di quegli anni.
E appena qualche giorno prima, il Paese dei Balocchi, festoso di Autorità di Suoni di Luci, LuBeC 2010, celebrazione di tecnologie che arrivano nell'austera esposizione di Pontedera depurate di ogni esuberanza.
Feste e fasti, e la quotidianità della terra. Il tramonto sulla Valdera, che fonde il profilo dei castelli medievali e dei castella etruschi, le tracce delle capanne dell'Età del Bronzo che altri amici vecchi e non stanchi continuano a cercare, con immutata passione da trent'anni e quasi quaranta, esalta, ritagliati sul cielo, i Segni della Terra.
domenica 17 ottobre 2010
I giorni dell'anfora a Empoli
Trionfa l'anfora di Empoli, per tre giorni, sotto la Cena degli Agostiniani, in Empoli. Trionfa con bordi e colli, puntali e pance, notomizzati in tipi e gruppi infiniti, in contesti ben datati e in contesti frullanti nei secoli, scanditi in fasi rigorose o fusi.
Se ne esce travolti da una massa di dati, testimoni di una disciplina viva e affollata di giovani, quando il sentore dell'accademia pervade le stanze dei convegni.
Vecchi testimoni degli anni in cui il misterioso contenitore turbava di tipi e di cronologie gli studi assistono un po' compiaciuti e un po' crucciati all'ininterrotto flusso del vino del Valdarno, e, come vuol qualcuno assai amante dell'agro pisano, delle colline tra Cecina e Fine, bianco dell'Empolese e bianco di Montescudaio, rosso del Chianti e rosso delle colline pisane, e chissà quale altro vino che deliziava le ciurme delle barche che portavano Rutilio, e ciondolavano fra Roma e Pisa, Arelate e Tarraco, fermandosi anche sulla spiaggia di Torre Tagliata ad assopirsi nel tramonto sul mare del Giglio e di Giannutri.
E si vorrebbe sceneggiare la puntigliosa sequenza di orli tondi o larghi, appiattiti o dilatati, di anse a orecchio o a orecchione, allargate come quelle di Dumbo o allungate asininamente, con i nipoti e i subnipoti dei vorticosi vendemmiatori e naviganti delle vigne e delle navi che l'ansia di sopravvivere di un mercante di Firenze o di Ostia, o di chissà dove, e gli oscuri sogni di un architetto romanico ci hanno lasciato nel Battistero di Firenze.
Se ne esce travolti da una massa di dati, testimoni di una disciplina viva e affollata di giovani, quando il sentore dell'accademia pervade le stanze dei convegni.
Vecchi testimoni degli anni in cui il misterioso contenitore turbava di tipi e di cronologie gli studi assistono un po' compiaciuti e un po' crucciati all'ininterrotto flusso del vino del Valdarno, e, come vuol qualcuno assai amante dell'agro pisano, delle colline tra Cecina e Fine, bianco dell'Empolese e bianco di Montescudaio, rosso del Chianti e rosso delle colline pisane, e chissà quale altro vino che deliziava le ciurme delle barche che portavano Rutilio, e ciondolavano fra Roma e Pisa, Arelate e Tarraco, fermandosi anche sulla spiaggia di Torre Tagliata ad assopirsi nel tramonto sul mare del Giglio e di Giannutri.
E si vorrebbe sceneggiare la puntigliosa sequenza di orli tondi o larghi, appiattiti o dilatati, di anse a orecchio o a orecchione, allargate come quelle di Dumbo o allungate asininamente, con i nipoti e i subnipoti dei vorticosi vendemmiatori e naviganti delle vigne e delle navi che l'ansia di sopravvivere di un mercante di Firenze o di Ostia, o di chissà dove, e gli oscuri sogni di un architetto romanico ci hanno lasciato nel Battistero di Firenze.
venerdì 8 ottobre 2010
Riflessioni francescane di un archeologo sfinito: excerpta da Luk, 2009, ringraziando le ospitali amiche della Fondazione Ragghianti
È noto che le grandi campagne di rinnovamento urbanistico, se condotte aderendo allo spirito della normativa di tutela archeologica, sono una delle migliori occasioni per recuperare i segni del passato, esaltata anche dalla possibilità di leggere il nuovo volto dei paesaggi urbani nella sequenza di metamorfosi che un tessuto urbano vitale deve necessariamente affrontare, per aderire al contesto sociale e culturale che lo genera e che lo esprime.
Esemplare, in questa prospettiva, è stata la sequenza di interventi che fra 2005 e 2009 ha trasformato il cuore del quadrante nord-orientale di Lucca. L’articolata successione di imprese edilizie che hanno fatto della dismessa caserma Mazzini un complesso cui il grande parco pubblico pensile sul parcheggio sotterraneo conferisce tratti sorprendentemente coerenti all’ala orientale del San Francesco e agli edifici residenziali che ne profilano il prospetto settentrionale, è divenuta anche uno straordinario viaggio nel passato, dall’età romana sino al Settecento e alla vita della caserma ottocentesca. La realizzazione del parcheggio sotterraneo, ad opera della Polis, fra 2005 e 2007, poi il recupero della cosiddetta ‘Stecca’ della caserma come sede dei servizi dell’IMT, attuata dall’impegno diretto della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, infine la costruzione – ancora per opera della Polis – del complesso residenziale in cui si sono rigenerati i volumi dei fatiscenti servizi della caserma, hanno di volta in volta rivelato un limes della centuriazione romana, gli assetti ortivi e agricoli del Basso Medioevo, travolti dalle fosse di coltivazione dell’argilla per le fornaci di Tracchiassi, ai primi del Duecento; e infine gli aspetti ‘di servizio’ – il cellarium e gli Orti – del complesso del San Francesco che tanto ha inciso sulle vicende cittadine, e la loro vita, sino alla trasformazione ottocentesca in caserma.
La massa di materiali emersi e la complessità dei dati stratigrafici in cui si sovrappongono e si intrecciano duemila anni di storia rinviano – come si suol proclamare in questi casi – al compimento di una ‘riflessione’ dai tempi difficilmente precisabili la valutazione analitica delle acquisizioni di quattro anni quasi ininterrotti di impegno sul cantiere; tanto più che se le esigenze dell’attività edilizia dischiudono allo scavo archeologico risorse adeguate, è dato di fatto quasi acquisito che alla conclusione dei lavori le disponibilità finanziarie si estinguano, e di conseguenza le attività sui materiali – dal semplice lavaggio preliminare alle attività di lettura, per non parlare della documentazione e dello studio – restino affidate al mero volontariato o a quel che sopravvive del senso di responsabilità dell’archeologo di fronte alla comunità scientifica di cui fa parte, sempre meno impellente da quando l’archeologo che opera nelle Soprintendenze è stato messo al margine della stessa comunità. E dunque può accadere che l’apprezzamento di scavi costati centinaia di migliaia di euro finisca per essere compromesso dall’impossibilità di esaminare con la necessaria attenzione le associazioni di materiali e i contesti, e che la semplice proposta di presentare in una struttura ‘museale’ i risultati di tante fatiche e di tanto impegno finanziario anneghi nella ‘mancanza di risorse’.
Sotto questo aspetto il San Francesco di Lucca ha segnato una – seppure assai parziale – eccezione: grazie alla disponibilità della Polis e del Comune di Lucca, dapprima, e poi della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, è stato possibile almeno intervenire sulla selezionatissima parte dei materiali essenziale per l’inquadramento cronologico dei principali contesti di scavo, e proporre al pubblico di Lucca, in due mostre tenute negli spazi messi a disposizione dell’archeologia cittadina dal Comune, nel deposito della ex caserma Lorenzini (o, per meglio dire, dell’antico complesso del San Domenico) i momenti nodali della storia degli Orti del San Francesco: l’assetto suburbano d’età augustea; le vicende dei ‘giardini sepolti’ del San Francesco, dal Trecento al Settecento.
Un corposo resoconto dello scavo nell’area della Stecca, infine, è stato ospitato nel volume Il complesso conventuale del San Francesco in Lucca, in cui l’analisi dei contesti stratigrafici e delle strutture ha potuto far conto sulle attività condotte sui contesti di scavo nel corso dei lavori.
[1] I giardini sepolti. Lo scavo degli Orti del San Francesco in Lucca, a cura di G. Ciampoltrini, Lucca 2005; Ad limitem. Paesaggi d’età romana nello scavo degli Orti del San Francesco in Lucca, a cura di G. Ciampoltrini, Lucca 2007. I testi sono disponibili in rete, all’indirizzo http://www.segnidellauser.it/giardinisepolti
[2] Il complesso conventuale di San Francesco in Lucca. Studi e materiali, a cura di M.T. Filieri e G. Ciampoltrini, Lucca 2009, cui si rinvia per ogni riferimento. Una sintesi del dato archeologico in http://www.segnidellauser.it/sanfrancescodilucca.
giovedì 7 ottobre 2010
Il sorriso di Marcello (Cosci) sui fiumi del Valdarno
Sorrideva Marcello, ieri, nel rovente pomeriggio di Pisa, con Riccardo. Sorrideva vedendo amici e congiunti affollarsi in un capace androne, irrorato dal sole e dai colori sgargianti dei suoi fiumi, di blu di rosso di giallo di verde, pennellate informali in un sapiente gioco di curve.
Amicum cum vides obliscere miserias, inimicus si es commentus nec libens aeque. Il vecchio Appio Claudio avrà ricordato il suo detto, a Marcello, sentendo il borbottio di fondo alle parole di Letizia, con chi aveva seguito il fluire delle sue curve per ricavarne i paesaggi sepolti e chi le vedeva come segni dionisiaci, intrecciati a commentare i raggi del sole rimbalzati sui colori delle sue immagini trasognate e sapienti.
Sorrideva e qualcosa di più, Marcello, dionisiaco quando lo voleva, apollineo e tecnologico quando era il caso, con Riccardo, apollineo e dionisiaco. Vedono il mondo dall'alto, popolato di fiumi e castelli, sepolti e vitali, e dimenticano, come chi ne condivise le tormentate passioni, le miserie della terra, salutando gli amici e i meno amici.
Amicum cum vides obliscere miserias, inimicus si es commentus nec libens aeque. Il vecchio Appio Claudio avrà ricordato il suo detto, a Marcello, sentendo il borbottio di fondo alle parole di Letizia, con chi aveva seguito il fluire delle sue curve per ricavarne i paesaggi sepolti e chi le vedeva come segni dionisiaci, intrecciati a commentare i raggi del sole rimbalzati sui colori delle sue immagini trasognate e sapienti.
Sorrideva e qualcosa di più, Marcello, dionisiaco quando lo voleva, apollineo e tecnologico quando era il caso, con Riccardo, apollineo e dionisiaco. Vedono il mondo dall'alto, popolato di fiumi e castelli, sepolti e vitali, e dimenticano, come chi ne condivise le tormentate passioni, le miserie della terra, salutando gli amici e i meno amici.
lunedì 4 ottobre 2010
Archeologia apollinea e archeologia telchinia, sotto forma di inno a Paolo ed epicedio per gli archeologi B-series
Archeologia apollinea, delfica, intrisa dei colori del cielo, che fan predire quel ch'è sotto terra, appena appena assaporando i vapori del suolo; ma si sa, un po' di sniffaggio aiuta, in certe circostanze. Questa è la novella archeologia, l'archeologia preventiva, che allieta le festose turbe dell'accademia e i lor maestri, sagaci dispensatori di profezie celebrate dal GIS, illuminate da infiniti corsi di mistica ascesa, che all'estremo grado e dopo tutte le iniziazioni tutte fan predire quel che la terra asconde. È l'archeologia preventiva, bellezza, ci vogliono tutti i bollini blu, i timbri, il bacio di Apollo e il casto (almeno lei, ci pensino pur le Ninfe, semmai) sorriso di Artemide, il favore di Letó.
E poi gli archeologi telchini, deformi per il lungo chinarsi sulla vanga, ridotti al colore degli ocracei terreni ai quali sottraggono i Segni della Storia. Non predicono dal volo degli uccelli o dall'esegesi dei mistici pareri della Pizia, al massimo s'impregnano le mani del Sangue della Terra e riscoprono l'aruspicina degli avi antichi. È finita l'ora dei Telchini, vecchi, deformi; se ne vadano negli antri al cupo servizio di Efesto, se pure il dio conobbe il coatto sorriso di Afrodite. Il vecchio e stanco archeologo, sfinito da trent'anni di fatiche telchinie, lo sa, e quasi benedice la Benefica Dirigenza che gl'impedisce, con i Sacri Cavilli sotto forma di glossa al Decreto, di correre su per i luoghi delle telchinie sofferenze infliggendo torture alla schiena storta, alla caviglia gonfia, agli occhi incerti se veder lontano o vicino.
Ma Paolo non lo sa, e continua, zolla su zolla, vivendo i Giorni dell'Acqua dopo quelli del Sole, a sottrarre righe di storia, sotto forma di cocci immersi negl'impasti della terra che fecero Etruschi di Montagna duemilacinquecento anni fa, alla Madre Terra. I suoi vaticini non sono apollinei, i Sorridenti Numi dell'Accademia, che con lor Ninfe sono pronti a divinare su quello che Paolo vuol narrare sulla sua fatica, volgono altrove lo sguardo, dacché i Sommi Amministratori benignano loro e lor Ninfe.
Paolo non lo sa, e forse non gl'importa nulla di saperlo. Il vecchio archeologo lo sa, ma forse non gl'importa nulla di saperlo, quando la Fatica Telchinia di Paolo, compagno di trent'anni di fatiche sulle aspre e solatie terre che vedono nascere l'Auser, gli regala le immagini di uno scavo straordinario.
Non è apollineo, ma Apollo lo benigna dei suoi colori, e le Ninfe della Terra vanno a trovarlo.
E poi gli archeologi telchini, deformi per il lungo chinarsi sulla vanga, ridotti al colore degli ocracei terreni ai quali sottraggono i Segni della Storia. Non predicono dal volo degli uccelli o dall'esegesi dei mistici pareri della Pizia, al massimo s'impregnano le mani del Sangue della Terra e riscoprono l'aruspicina degli avi antichi. È finita l'ora dei Telchini, vecchi, deformi; se ne vadano negli antri al cupo servizio di Efesto, se pure il dio conobbe il coatto sorriso di Afrodite. Il vecchio e stanco archeologo, sfinito da trent'anni di fatiche telchinie, lo sa, e quasi benedice la Benefica Dirigenza che gl'impedisce, con i Sacri Cavilli sotto forma di glossa al Decreto, di correre su per i luoghi delle telchinie sofferenze infliggendo torture alla schiena storta, alla caviglia gonfia, agli occhi incerti se veder lontano o vicino.
Ma Paolo non lo sa, e continua, zolla su zolla, vivendo i Giorni dell'Acqua dopo quelli del Sole, a sottrarre righe di storia, sotto forma di cocci immersi negl'impasti della terra che fecero Etruschi di Montagna duemilacinquecento anni fa, alla Madre Terra. I suoi vaticini non sono apollinei, i Sorridenti Numi dell'Accademia, che con lor Ninfe sono pronti a divinare su quello che Paolo vuol narrare sulla sua fatica, volgono altrove lo sguardo, dacché i Sommi Amministratori benignano loro e lor Ninfe.
Paolo non lo sa, e forse non gl'importa nulla di saperlo. Il vecchio archeologo lo sa, ma forse non gl'importa nulla di saperlo, quando la Fatica Telchinia di Paolo, compagno di trent'anni di fatiche sulle aspre e solatie terre che vedono nascere l'Auser, gli regala le immagini di uno scavo straordinario.
Non è apollineo, ma Apollo lo benigna dei suoi colori, e le Ninfe della Terra vanno a trovarlo.
sabato 2 ottobre 2010
L'Impresa del Diamante: in lode della Compagnia dell'Anello, con sigillo papale
In lode alla Femminile Compagnia dell'Anello, che nel buio che sa di storie del Trecento, e delle avventure di Andreuccio, grano su grano sottrae alla lor pace, per dar la Pace degli Antropologi curiosi di artrite e reumatismi, bramosi di sapere quale fu l'ultima bistecca cucinata nella brace degli incendi del Medioevo, le ossa del Signore con l'Impresa del Diamante, gotiche foglie intrecciate sulla cuspide che evoca i segni dei Rucellai, dei Medici, degli Estensi. Per seicento o più anni, forse, sfuggito a infiniti esumatori, col sorriso del Santo Povero sul Santo Anello e sulla Bolla del Papa che fece il gran rifiuto. Rifulge per un attimo, per la timida grazia di una delle Signore della Compagnia, e poi riposa fra i Beni Culturali.
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