La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

giovedì 29 aprile 2010

Il re e il suo doppio: graffita di corte, graffita plebea




È regale il Re di Francia nel trionfo di cornici e colori del piatto ferrarese; è una maschera nello schizzo della scodella di Lucca, che devasta la corona regia in spine di pennellate e trasforma nell'abito di Arlecchino il paludamento di Carlo VIII, riconoscibile in una barbetta che – agli occhi nostri – ne completa il profilo diabolico, con le pupille dilatate. Il re satanico che nella passeggiata d'Italia semina lutti e rapine, l'inizio della fine per la fragile serenità dell'Italia di Lorenzo, la fonte del mal francese, devastante da sempre per l'Italia (come dicevano gli antigiacobini di Lucca). Non si accettano dubbi sulla caricatura, da vedere sullo sfondo delle cronache del '94, fra servili profferte all'erede di un altro male d'Italia, l'Angiò dei gigli. Un inatteso Rinascimento plebeo, dalla terra accumulata nelle viscere di Lucca, nel rovesciamento del mondo che chi ha i piedi nel fango, ma gli occhi al cielo, può apprezzare meglio di chi ha la testa fra le nuvole delle serene tavole di Filippo e Sandro.

domenica 25 aprile 2010

Concludendo, con l'introduzione, il viaggio nel Medioevo di Castelfranco di Sotto (e nelle remote primavere ...)



Come è nella logica dello scavo, l’itinerario ‘archeologico’ nella storia di Castelfranco, iniziato nel 2007 con gli aspetti della società e della vita quotidiana del Seicento e del Settecento testimoniati da una trentennale attività di recuperi e dalla campagna di scavo condotta nell’antica chiesa di Santa Chiara, e proponendone la lettura sullo sfondo dei monumenti che ancora segnano il centro storico (Castelfranco 2007), raggiunge i ‘livelli’ medievali.
Castelfranco medievale è facilmente percepibile, passeggiando nel reticolato perfetto (appena alterato ai margini) delle strade che trovano nella piazza – già del Comune, ora dedicata a Remo Bertoncini – il naturale punto di equilibrio: qui la torre di Porta a Vigesimo, nel suo tessuto laterizio appena inciso dalle memorie della guerra e da rattoppi incredibili, da una parte, le due porte – di Caprugnana e di Catiana – e le fantasie del laterizio decorato del Duecento e del Trecento della chiesa dei Santi Pietro e Paolo rammentano la fondazione e la storia medievale dell’antico castello, divenuto ‘terra aperta’ fra Cinquecento e Seicento.
Quasi quaranta anni di attività archeologica – iniziata negli anni Settanta con i recuperi delle ceramiche dal Palazzo Comunale e dal monastero dei Santi Iacopo e Filippo, e culminata nello scavo della Piazza del Comune nell’autunno del 1995 – hanno però arricchito lo spessore del sepolto tessuto medievale di Castelfranco, facendo emergere compiutamente il ‘castello perfetto’ che fu voluto dai fondatori, in qualche giorno fra 1252 e 1253, trasferendo nella scala ‘minore’ della nuova fondazione nella pianura fra Arno e Usciana, quasi sul grande fiume, le acquisizioni dell’urbanistica del Basso Medioevo – dal rigore dell’impianto urbano, di evidente recupero ‘romano’, al decoro delle pavimentazioni stradali, alla simmetrica corona delle mura, garanzia di sicurezza ma anche indice del ‘tono’ del castello.
Negli stessi anni, una paziente e talora fortunata ‘presenza sul territorio’ disegnava anche la vicenda dei villaggi dei fondatori, dall’Alto Medioevo sino all’abbandono: il recupero delle tracce di Vigesimo, nel 1980, in Via dei Tavi, ha trovato nell’individuazione di insediamenti tardoantichi e altomedievali fra le Cerbaie e lungo l’Usciana un prezioso filo di continuità.
Questa è la storia che l’archeologia, coniugandosi con l’evidenza monumentale e con le fonti documentarie (archivistiche e storiografiche), vuol raccontare, per fare realmente del luogo delle memorie ‘materiali’ della storia castelfranchese – la Mostra Archeologica al piano superiore della chiesa di Santa Chiara – il perfetto corrispondente delle memorie archivistiche conservate al piano terreno.
Il viaggio nella storia medievale castelfranchese si conclude entrando negli interni domestici e conventuali del Trecento e del Quattrocento, con le ceramiche ‘colorate’ che danno vita alle mense, e trasferiscono nella quotidianità segni e motivi culturali che vengono abitualmente apprezzati nelle produzioni artistiche. Nell’ombra nelle chiese, o mimetizzate sotto i rifacimenti d’età moderna o contemporanea, Castelfranco conserva non poche di queste testimonianze. Ci si augura che questo contributo possa concorrere a farle conoscere e apprezzare (anche e soprattutto ai Castelfranchesi).

giovedì 22 aprile 2010

Glamour & Archaeology: le archeologhe lucchesi sulle strade della città romana




Non maculate dal fango, se non per quel che basta a dar gloria ai calzari (ché calzari possono essere semmai quelli delle compagne di Artemis, non stivali), sfiorano quasi volando l'acqua che sgorga dalla terra accumulata per dar vita alla città romana, le due archeologhe lucchesi, Elisabetta e Serena, con l'eleganza imperturbata delle Ninfe degli Antri. Antri sono in effetti le cantine nelle quali, al terzo turno di archeologi, in un vortice che mette a prova antiche certezze e spezza la stanca schiena dell'antico scavatore, a trent'anni dalle prime discese negli Inferi delle Morte Città, dopo le fosse di spoliazione e gli accumuli degli anni di San Frediano – si preferisce: Frygianus episcopus – affiorano gli ultimi muri di una domus con affaccio strada, su via di ghiaia, prima del nitore potente delle pavimentazioni della colonia dei legionari di Augusto (così vuol credere il remoto frequentatore di epigrafi).
San lustrare assai bene i pavimenti le archeologhe lucchesi, lavare i muri, stanchi della troppa terra, dar colore alle pietre e vita agli strati, accumulando coccio su coccio vernice nera e anfore, e quel che ci porti nel momento magico in cui la città concepita dalla cerchia di mura e dai guerrieri mandati a dicioccare i boschi planiziali nasce nell'abbraccio della pietra e del cementizio.
Si può essere glamour anche nel fango, quando ogni passo ti carica di una maledizione, e l'archeologo rimpiangerebbe la strada lustrata appena intravvista, se la serena acribia delle archeologhe lucchesi non lo distraesse. Si può andar via, la pasta di terra e cocci che divora i muri della colonia è in buone mani.

mercoledì 21 aprile 2010

Le tavole di Anna, le glorie di Volterra (nel Seicento)




Serqua infinita di colori e nomi, nelle tavole che Anna ha allestito, le glorie delle famiglie di Volterra fra Cinquecento e Seicento illustrate a Peccioli, or è quasi un anno, con amici che nel frattempo ci fanno sentire il vuoto, quando emerge dai cassetti un CD con le immagini aeree arricchite di colori degni delle imprese della famiglie di Volterra.
Son chiare le istruzioni di Anna, come limpida è la sequenza di Libri d'Oro tradotti dai vasai di Volterra e di Pomarance nel linguaggio della graffita, capace dei trionfi dei girali a fondo ribassato, o delle sciatterie cui lo stile compendiario dà agevole corso. Ma nei paesaggi dell'archeologia d'età moderna, capaci di strabilianti suggestioni quando la maiolica ligure emerge in Florida, e le graffite toscane su galeoni nelle Filippine (prima o poi ...), e desolantemente tristi quando scopri nei catasti lucchesi, a tutto volume, nome cognome e indirizzo, ciò che vedi nell'ammasso di frantumi o nello sfacelo dei muri, ritrovare, a tre anni di distanza dal breve sogni castelfranchese, sui piatti gli intrecci di storia e di intrallazzi che il corsivo cela nelle pagine dei registri di deliberazioni, è ancora un'emozione.

lunedì 19 aprile 2010

Pesci in blu, pesci d'Arno sulle maioliche del Quattrocento





Carpe o tinche, o barbi: il pesce azzurro che naviga sereno, turgido, con occhi umani e bocca baffuta nelle maioliche di Montelupo del Quattrocento sembra appena uscito dalle acque dell'Arno, dfa pesche miracolose che integrano la povera dieta dei contadini. Pronti, distesi sul piatto o sulla scodella, o celebrati nel tondo tricromo dei boccali, fra foglie inverosimili, per proporre la migliore esposizione del pesce da servire alla brace, lesso, o chissà come, in un'epoca che di certo non doveva avere il culto del pesce freschissimo.
O ricordo dei pesci in blu e neri di due secoli prima, pesce di mare, diluito sulle maioliche giunte dall'Africa con i sacchi di farina, sulle navi pisane e con i mercanti lucchesi? Son tondi, paffuti, come i pesci del secondo Quattrocento, non hanno i denti come i pesci feroci che guizzano con il corpo di zaffera sugli orcioli di Giunta di Tugio.
Modelli iconografici e suggestioni della realtà, si direbbe filosofeggiando e teorizzando sul circuito di schemi e simboli che giungono anche al misero mondo dei vasai del povero castello sull'Arno, e che questi ripropongono ai loro clienti, colore a buon mercato per portare sulle tavole di coloni e mezzadri, di monache tormentate il sogno del Rinascimento.

sabato 17 aprile 2010

Romani e Longobardi in una stanza




Son fieri Rodolfo e Sergio, davanti alla cintura del vir magnificus di Santa Giulia di OPiazza del Suffragio appena ricucita, appena centocinquant'anni dopo il ritrovamento fra pezzi di pavimento divenuti cassa sepolcrale, e la gloria del Comune di Lucca che la salvò si consuma nel vetrinone centrale della stanza in cui Romani e Longobardi di Lucca rivivono per lo scarso pubblico che penetra nei saloni che furon di Paolo e forse di Ilaria.
Freschi di terra, salvati dalla serena forza di Alessandro dalle viscere di Via San Giorgio e dalle triplici sequenze di discariche, si aggiungono alle chincaglierie degli arimanni, con le croci d'oro a dettarne lo status, i cocci giunti dall'Africa e le lucerne rifatte su stampini consunti, matrici di chi aveva perso il contatto con il mare; o forse no. Profumi e oli, oli per condire (?) e per illuminare, il vaso per fare un po' di pappa, la cintura, le placche malfatte e i sax divorati dalla ruggine. Un po' poco per un secolo e più di storie atroci, chiusi dentro mura come ora dentro una stanza.
Il visitatore passa, speriamo di attrarlo con la colomba noetica che s'adagia sulla lancia del guerriero, a difenderlo dai leoni che s'annidano dentro di lui, a farne pavoni come a far di lui il vaso ricettacolo d'ogni bene. Domine ad adiuvandum, come grida il guerriero dallo scudo ...

sabato 10 aprile 2010

Ode prosastica ad un lacerto di catino arrivato a Lucca nel Duecento, seguendo vie d'acqua



Son mutati i tuoi colori,
vivendo nelle acque fangose in compagnia di malacofauna,
frammento emerso dalla miscela di acqua e terra
impreziosita dai ricordi del fuoco,
nel Porto Sepolto della città medievale
figlia della terra e dell'acqua.
Le unghie laccate dell'archeologa
impenetrabile ad acqua e fango,
volatile sui liquidi della terra,
ti hanno strappato all'oblio,
tu che non eri destinato ai fastigi
di campanili o cattedrali,
come i tuoi fratelli più fortunati,
ma all'uso di qualche barchino
che risaliva per l'Arno e il lago,
e i fossi infiniti, fra olmi e ontani
e querce,
su fino al punto in cui le Acque del Fiume d'Occidente
si ricongiungevano alle Acque del Fiume d'Oriente,
e l'Auser perduto divenuto Ozzeri
era infine figlio del suo figlio,
il Serchio, troppo potente d'acqua
per dar agio ai barchini.
Storie d'acqua e di terra,
storie del Porto Sepolto,
storie di colori percolati della Storia della Terra.
Forse anche gli archeologi che misurano base per altezza
fratto due, diviso pigreco,
possono emozionarsi quando in una desolata periferia,
fradicio e marcio, riemerge il colore del cobalto e del manganese,
non a dar luce ai campanili,
ma a dar vita alle Storie della Terra.

venerdì 2 aprile 2010

Gorgogliar d'acque e d'Etruschi in una giornata di primavera




Gorgogliano nella buca con l'acqua i Segni degli Etruschi, discarica di un villaggio che riporta ai sogni perduti del novembre '82, con le tombe disperse in una triste periferia che nulla aveva e nulla ha (e avrà?) del Comune del Duecento, con le sue tonde torri ad abbellir le mura, dei tessuti di aristocratici e plebei. E oggi ritornano gli stessi segni, in una fossa che archeologhe bioniche, temprate dal buio delle cantine e dagli odori delle storie sepolte dell'uomo, riescono, fra Acqua e Gas, a scorgere nei grovigli che il tempo ha intrecciato in un lembo di Terra dell'Auser sospeso sotto i Segni del Gas, il Porto Perduto, il fiume che vide i traffici del Comune.
Nel fosso che vide le barche del Duecento andar da un Serchio all'altro, per fosse scavate da contadini più o meno coatti – due fosse per il Comune, una fossa per la propria parte di grano e canne – l'Auser trionfa, erompe e per qualche attimo ritrova gli spazi sottratti ... anche gli Etruschi del VI secolo a.C., con la loro storia di civiltà contadina, di mille capanne e cento villaggi sparsi su per il fiume.
È primavera, è incontenibile la forza della Terra, come cantava Lucrezio (il vecchio archeologo non dimentica gli anni del liceo ...).

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