Felicitas temporum, direbbe il sorriso dell'archeologa, benevolmente fugace come i gialli gigli nelle acque di maggio, volto al piccone appoggiato sul tubo del gas.
Figlia della reparatio saeculi, proclamano i pilastri che la terra ha appena svelato sotto duplice strato di morti, indicati dall'ombra della pala meridiana infissa in terra d'orto, all'archeologo provetto negli anni che rivede, assai diversi, appena un po' più in là, i colori su cui s'affannò giovane o quasi, anno 1987, in un non diverso ma assai meno arioso intreccio di tubi.
Pietre di mura estratte da rovine, ricomposte in ordito di assise imbellettate di ciottoli. Si discetta e si divaga, un po' gigioni un po' pavoni un po' qualsiasi altra rima in -oni, di chiostri e chiese, rinnovellarsi e disfarsi, di allineamenti che si conservano nei millenni.
Ironico filo di sorriso e pilastri generati da rovine, immagine perfetta per la reparatio saeculi dei Costantinidi e dei Teodosidi, che nella terra si confessa, senza ampollar di retoriche, figlia di macerie.
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