Giulio
Ciampoltrini – Roggero Manfredini
La
collina delle anse a testa di cobra.
Monte
Formino e il Valdarno Inferiore sul finire del II millennio a.C.
Quindici anni dopo la memorabile
mostra ideata e realizzata a Livorno da Alessandro Zanini sulla Toscana
centro-occidentale nel II millennio a.C. (Dal
Bronzo al Ferro), lo scenario che veniva proposto in quella sede non si è
particolarmente arricchito, almeno per quel che riguarda la pianura solcata
dall’Arno e dai suoi affluenti ancora attivi (l’Era e l’Usciana) o perduti con
le bonifiche granducali (il ramo dell’Auser-Serchio
che oggi sottopassa l’Arno con la Botte lorenese): la ‘Terra dei Quattro
Fiumi’, come si è proposto di definirla. O per l’affievolirsi della ricerca, o
perché ciò che è venuto in luce negli ultimi anni rimane inedito, l’evoluzione
del sistema di insediamenti negli ultimi secoli del II millennio a.C. che
corrispondono, nella sequenza culturale, al Bronzo Recente e al Bronzo Finale,
deve essere ancora delineata in base ai contesti che vennero presentati a
Livorno. Anche le ricerche condotte nel territorio ‘fra le Cerbaie e l’Auser’, nella piana oggi bonificata del
Lago di Bientina, per uno dei rari interventi programmati e finanziati dalla
Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana in località Ai Cavi di
Orentano, nel 2006, e con lavori connessi ad attività del Consorzio di Bonifica
Auser-Bientina, fra 2007 e 2008, nell’area di Fossa Cinque di Bientina, hanno
arricchito e articolato le testimonianze di abitati già conosciuti e presentati
nella mostra livornese, ma non hanno comportato revisioni significative della
sequenza che vi era prospettata (fig. 1).
Acquista dunque un particolare
interesse Monte Formino, la collina che, appena oltre l’odierno confine tra i
Comuni di Montopoli in Val d’Arno e Palaia, nel territorio della seconda,
domina un itinerario di crinale (fig. 2) oggi recuperato dopo trent’anni di
abbandono per rendere accessibili agriturismi e case coloniche rinnovate come
case-vacanze, ma che aveva tradizionalmente avuto un ruolo strategico
fondamentale per raccordare alla piana dell’Arno i distretti della Valdera che
fanno capo all’acropoli di Palaia. Il secolare rapporto fra Marti e Palaia,
perduto con la revisione dei confini comunali degli anni Venti del Novecento,
era strutturato da questa via.
Una fortunata ricognizione
condotta dal Gruppo Archeologico ‘Isidoro Falchi’ di Montopoli aveva permesso
di recuperare qualche frammento ceramico genericamente riconducibile all’Età
del Bronzo, ma è stato l’impegno dell’ormai maturo volontariato dell’intero
Valdarno e della Valdinievole, ancora con i membri del Gruppo ‘Isidoro Falchi’,
e poi con Augusto Andreotti, Enrico Pieri, coordinati da Roggero Manfredini, a
trasformare – fra l’inverno 2010 e l’estate 2011 – un sondaggio che mirava solo
a valutare il potenziale stratigrafico dell’area di affioramento delle
ceramiche in un vero e proprio saggio (fig. 3) che, pur nelle dimensioni
contenute imposte dall’esigenza di salvaguardare le colture, ha permesso di
acquisire preziose testimonianze di un abitato del Bronzo Finale del Valdarno
Inferiore. La generosa disponibilità del proprietario del terreno, il sig. Adriano
Bartoli, è stata essenziale per il buon esito della ricerca.
La complessità della sequenza
stratigrafica e lo stato di avanzamento, assolutamente iniziale, della ricerca
sui materiali impongono un’estrema prudenza nella presentazione dei dati di
Monte Formino, ma – ad oggi – si dovrebbe argomentare che lo scavo ha portato
in luce una concavità orientata grossolanamente est-ovest, aperta al piede
della collina, dove il rilievo si distende in un ampio pianoro percorso, appena
a occidente, dalla via da Marti a Palaia, spesso realizzata in trincee o tagli
della collina. La concavità era stata colmata, progressivamente, da sedimenti
antropici anche assai ricchi di materiale ceramico, talora in frammenti
contigui o spezzati in situ,
frammisti a schegge informi di una pietra calcarea autoctona (fig. 4); i
livelli superiori erano di sabbia, pressoché identica a quella del suolo in cui
la concavità era stata aperta. Spettacolare indice dalla formazione dei
sedimenti, e dei livelli di calpestio originari, una mandibola di cervide,
disposta di piatto su un livello di vita, presto sepolta sotto la sabbia di
dilavamento.
Un fossato aperto al piede
dell’unico lato accessibile del rilievo, per il resto circondato da erti
dirupi, dapprima colmato da discariche di materiale proveniente da aree di vita
prossime, comunque disposte a monte, assieme a residui di pezzame forse
utilizzato nell’abitato stesso, in seguito livellato dal disfacimento delle
pareti e dal dilavamento della sabbia di base, ancora ricca di ceramiche e
altri materiali provenienti dallo smantellamento di stratificazioni di vita:
questa è l’interpretazione al momento preferibile (o più agevole) per la
sequenza messa in luce, non senza le difficoltà determinate dalla sostanziale
omogeneizzazione dei suoli.
Lo stato di conservazione dei
materiali e la presenza di lenti fortemente antropizzate, come si è appena
accennato, non dovrebbero tuttavia lasciar dubbi sul fatto che la fossa fu
aperta in funzione di un’area insediativa che doveva disporsi sul versante che
dalla sommità del Monte Formino digrada verso sud. Naturalmente non è possibile
– se mai lo sarà – valutare il ruolo del fossato: apprestamento a protezione
dell’abitato, semplice delimitazione ‘di servizio’ dell’area insediativa, opera
agricola.
L’orizzonte cronologico
dell’occupazione è, tanto suggestivamente quanto ancora enigmaticamente,
proposto dai non molti frammenti ceramici riconducibili a tipi di cronologia
definita. Fra questi spiccano le due fastose anse sormontanti cilindroidi, che
si aprono alla sommità in una fascia coperta da decorazioni a rilievo
acquistando – del tutto casualmente, come è ovvio – l’aspetto di una ‘testa di
cobra’ (figg. 5-6); le anse erano pertinenti a tazze la cui sontuosità dovrebbe
corrispondere ad un ruolo specifico nella presentazione e nel consumo di una
bevanda ‘di pregio’, sulla cui natura (vino o prodotto della fermentazione dell’uva?
birra?) non è possibile avanzare congetture che non siano mere ipotesi.
Rinunciando alla suggestione della ‘testa di cobra’ per terminologie più
‘scientifiche’, le due anse potrebbero essere definite come ‘tipo Monte Formino
1’ e ‘tipo Monte Formino 2’, e trovano per il momento il parente più prossimo
in un esemplare proveniente dall’abitato di Via di Gello a Pisa, presentato da
Stefano Bruni e ancorato dai materiali concomitanti al Bronzo Finale. L’analogo
tipo presente a Stagno, minuziosamente pubblicato da Alessandro Zanini, nella
semplificazione del modello proposto a Monte Formino potrebbe suggerirne
l’evoluzione, in coerenza con la datazione ad una fase estrema del Bronzo
Finale (Bronzo Finale 3 A), ormai poco prima del 1000 a.C., certificata anche
dalle indagini dendrocronologiche condotte sui legni delle palificazioni che
articolavano l’abitato di Stagno.
I frammenti di fibule ad arco di
violino in bronzo e gli altri tipi ceramici – appena leggibili allo stato
attuale – convergono con queste indicazioni e propongono di collocare la vita
di Monte Formino in una fase iniziale del Bronzo Finale, che per il momento
deve rimanere fluida, in un arco di tempo intorno al 1100 a.C. che potrebbe
oscillare di molti decenni. Le stratificazioni del fossato e delle aree
contigue hanno restituito, tuttavia, anche materiali probabilmente riferibili
al Bronzo Medio, indice di una ripetuta frequentazione del sito, che si
vorrebbe motivare con la specifica vocazione itineraria.
Posto in una fase precoce del
Bronzo Finale, il sito di Monte Formino permetterebbe di approfondire le
conoscenze – o, piuttosto, di moltiplicare le ipotesi – su un momento critico
non solo per il Valdarno Inferiore.
L’esaurimento dell’abitato di
Fossa Nera di Porcari è ormai concordemente collegato alla grande crisi che
negli anni intorno al 1200 a.C. sconvolge l’intero sistema di insediamenti
‘terramaricoli’ della Pianura Padana, di cui questo sito – individuato negli
anni Ottanta del secolo scorso da Augusto Andreotti – costituiva la ‘testa di
ponte’ a sud degli Appennini, al punto di arrivo di un itinerario aperto dal
Serchio con il complesso sistema di bracci con cui percorreva quella che è oggi
la Piana di Lucca. I tipi ceramici, i bronzi, le ambre avventurosamente
recuperati in giacitura secondaria a Fossa Nera di Porcari dimostrano infatti
gli strettissimi rapporti del sito con l’area padana culla di questa cultura,
dissoltasi per motivi misteriosi negli stessi decenni intorno al 1200 a.C. che
vedono tutto il bacino mediterraneo, dall’Egitto assalito e minacciato dai
Popoli del Mare sino alla civiltà micenea scomparsa con il Ritorno degli
Eraclidi (l’arrivo dei Dori), sconvolto da eventi catastrofici, ancora dalle
motivazioni oscure e comunque molteplici. Per tutto l’arco del Bronzo Recente
(1300-1200 a.C.) Fossa Nera di Porcari doveva aver svolto – verosimilmente non
da sola, ma assieme ad altri insediamenti oggi inattingibili perché sepolti
sotto potenti sedimenti fluviali – un prezioso ruolo nell’aprire nuovi
orizzonti ai distretti della Toscana nord-occidentale che per tutto il Bronzo
Medio (intorno al 1500-1400 a.C.) avevano visto l’omogenea fioritura della
‘cultura di Grotta Nuova’, conosciuta nella Piana di Lucca grazie all’abitato
del Palazzaccio di Capannori e nell’attuale padule di Fucecchio con i
ritrovamenti di Stabbia.
Dalla Garfagnana e dalla valle del
Serchio, dove comunità ancorate alla cultura terramaricola della Pianura Padana
compaiono già nel Bronzo Medio, come dimostrano il contesto del Muraccio di
Pieve Fosciana, scavato negli anni Novanta del secolo scorso, e quello inedito
dell’Asilo Nido di San Romano in Garfagnana, la via verso la pianura e la valle
dell’Arno è presto aperta e rimarrà assicurata, forse almeno per un secolo, a
Fossa Nera di Porcari.
La dissoluzione dell’insediamento
di cultura terramaricola della Piana di Lucca potrebbe essere riferita alle
circostanze ecologiche forse indiziate dallo scheletro recuperato in sedimenti
di matrice fluviale nel territorio di Orentano, lungo un ramo del Serchio (Auser), da Augusto Andreotti. Con la
datazione radiometrica agli anni intorno al 1170 a.C., in effetti, induce la
suggestione della concomitanza con la fine di Fossa Nera, ma non ci si deve
nascondere che la coincidenza potrebbe anche essere casuale.
Quello che è certo è che
l’esaurimento di Fossa Nera non implica l’abbandono di questo lembo della
Toscana. Seppure con l’evidente ridimensionamento che traspare anche dalla
povertà dei tipi ceramici, un vasto abitato si dispone al piede delle Cerbaie,
in località Ai Cavi di Orentano. Le ricerche di superficie di Augusto
Andreotti, protratte sino all’inverno 2011, e il saggio del 2006, che mise in
luce una struttura lignea con focolare centrale, suggeriscono la presenza di
una comunità che, in orizzonti culturali più angusti, cerca probabilmente un
ambiente meno ostile di quanto fosse divenuto quello nell’aperta pianura
prescelto da Fossa Nera per coniugare agricoltura, allevamento, sfruttamento
degli itinerari e, in particolare, delle vie transappenniniche. Le affinità del
povero repertorio ceramico con quello restituito dagli abitati d’altura che in
Garfagnana (Capriola di Camporgiano; Castelvecchio di Piazza al Serchio; Pieve
San Lorenzo, appena oltre lo spartiacque, ormai nella valle del Magra)
assicurano comunque l’agibilità delle vie transappenniniche, indizio che queste
comunità, seppure in crisi, non rinunciavano a tentar di serrare le maglie
della rete di insediamenti e di comunicazioni.
Questo sfondo – non occorre
ripeterlo – ha contorni evanescenti, ma è una potente suggestione per
apprezzare il contesto di Monte Formino. La massa delle ceramiche, funzionali
all’immagazzinamento e alla conservazione delle derrate alimentari, e i
rarissimi frammenti di forme per la presentazione e il consumo dei cibi e delle
bevande, come le tazze con profilo sinuoso provviste di ansa a nastro,
presentano affinità con i tipi conosciuti nella Toscana settentrionale o Ai
Cavi troppo generiche per poter mettere a fuoco la posizione dell’insediamento
nello sfuggente contesto in cui matura, forse nel volgere di un secolo, il
sistema di insediamenti di pianura che vede, lungo sepolti corsi d’acqua o
sulle lagune costiere, Stagno e Fossa Cinque della Bonifica di Bientina, o i
siti indiziati dai recuperi pisani, fra i quali continua comunque a spiccare il
complesso di Via di Gello.
Tuttavia, la presenza di metalli,
del tutto eccezionale in contesti insediativi, e comunque sconosciuta ai Cavi
di Orentano, e l’apparire di tipi ceramici come le tazze ‘con ansa a testa di
cobra’, che rinnovano il ruolo delle forme di prestigio del Bronzo Recente
dimenticate a Orentano, così come negli abitati d’altura della Garfagnana, e
destinate a nuove redazioni nelle fasi più avanzate del Bronzo Finale, sembrano
segnali – pur nella povertà del contesto archeologico – di una vivacità
culturale che certo potrà essere messa a fuoco solo con nuove ricerche e nuovi
ritrovamenti.
Per ora Monte Formino, la ‘collina
delle anse a testa di cobra’, si pone in un ambito geografico nel quale era sin
qui pressoché sconosciuta questa fase storica e culturale, quasi come ‘faro’
tra le sparse comunità della piana dell’Arno e dei suoi affluenti, dal
territorio di Pisa sino a Volterra: un paesaggio certamente diluito nel tessuto
demografico, come dimostravano già i risultati delle ricerche di superficie dei
remoti anni Settanta del secolo scorso, che offrono un possibile confronto –
assai generico, tuttavia – per Monte Formino solo con l’esiguo complesso di
ceramiche dal Poggione di San Genesio, genericamente ascritte al Bronzo Finale.
Una considerazione finale, oltre
il valore e il potenziale ‘scientifico’ del sito.
Il lavoro di Monte Formino è stato
condotto nello spirito del volontariato e della passione degli anni Settanta
del secolo scorso, che sono anche gli anni di formazione di chi scrive: ore da
sottrarre ad altre attività, senza nulla chiedere, per inseguire il sogno della
conoscenza del passato e condividere con gli amici i momenti magici in cui il
passato si rivela, nel sole dell’estate appena lenito dal vento di mare, o quando
soffia la tramontana, mentre per due volte le olive maturavano. È sempre più
difficile, per una serie innumerevole di motivi che sarebbe inutile elencare,
rinnovare queste avventure; forse non è neppure opportuno, ora che giovani
professionisti chiedono (giustamente) che la ricerca sia condotta secondo le
regole del mercato (purtroppo evanescente per deficit di domanda). Per quei pochi – ormai tutti almeno
sessantenni o quasi – che ancora credono nei valori del volontariato e della
passione, i pomeriggi a Monte Formino, trent’anni dopo le prime ricerche sulle
colline del Valdarno, rimarranno indelebili, come quelli vissuti sul Bastione
di Marti o a perlustrare la Chiecina, a Pieve a Nievole a investigare la chiesa
del secolo VIII, o come i giorni di Sant’Ippolito, all’alba di un millennio che
si immaginava dai colori più vivi di quelli che stiamo conoscendo.
Bibliografia essenziale
Dal Bronzo al Ferro. Il II millennio a.C. nella Toscana
centro-occidentale, catalogo della mostra Livorno 1997, a cura di A.
Zanini, Pisa 1997.
Insediamenti dell’Età del Bronzo fra le Cerbaie e l’Auser. Ricerche al
Palazzaccio di Capannori e Ai cavi di Orentano, a cura di G. Ciampoltrini,
Bientina 2008.
Fossa Cinque della Bonifica di Bientina. Un insediamento della piana dell’Auser
intorno al 1000 a.C., a cura di G. Ciampoltrini, Lucca 2010.
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