La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

venerdì 13 novembre 2009

Dedicato alle paleonutrizioniste lucchesi, che studiano cosa mettere sulle maioliche dei Buonvisi








Da 'Castelfranco di Sotto fra Cinquecento e Settecento. Un itinerario archeologico', a cura di Giulio Ciampoltrini e Roggero Manfredini, Bientina 2007 (della serie 'Gli Introvabili'), un pensiero per le paleonutrioniste lucchesi, ovverosia: mettiamo il pollo sul piatto.

Graziella Berti (che si spera non ne sarà dispiaciuta) e Giulio Ciampoltrini

Lucca:
servizi in ceramica per la mensa
dei Buonvisi

Le ceramiche, come è noto, costituiscono sempre, nel corso di scavi archeologici, i re-perti più numerosi restituiti dal sottosuolo. La stratigrafia ci consente di collegarli con i livelli di frequentazione del sito indagato nei differenti momenti della sua storia, da epoche più o meno remote ai giorni nostri. Ed è da un accurato studio di questi resti, connesso con la consultazione della documentazione storica relativa al contesto in esame, che possiamo ricostruire, attraverso il consumo e l’utilizzo di specifiche ceramiche, il livello di vita, il ceto sociale, gli usi e costumi dei relativi abitanti, in un determinato momento della loro esistenza.
L’indagine, condotta nel 1985 dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana in occasione di lavori di ristrutturazione del complesso di Palazzo Lippi in Lucca, ci offre oggi l’opportunità di esaminare, all’interno di una stratigrafia complessa relativa alla vita del palazzo e alle fasi precedenti la sua costruzione, i resti di una serie di manufatti, ancora inediti, recuperati in strati della seconda metà XVI – inizio XVII secolo.
Con la denominazione moderna di Palazzo Lippi viene indicato un insieme di fabbricati, situati, a Lucca, tra la Piazza del Suffragio e la Via Sant’Anastasio, che costituivano il Pa-lazzo Calandrini, già esistente nella prima metà del XVI secolo . Il palazzo in questio-ne, e le sue pertinenze, insieme ad altri beni dei Calandrini, furono ceduti agli eredi di Antonio di Ludovico Buonvisi e di Alessan-dro Buonvisi a seguito di un atto di confisca, del 3 febbraio del 1568, emesso dallo ‘Ufficio sopra i Beni degli Eretici’.
I Buonvisi erano una delle grandi famiglie di mercatores lucchesi, la cui presenza è anco-ra attestata in molte città europee alla metà del Cinquecento. Tra queste possiamo ricordare, ad esempio Genova, Napoli, Venezia, Anversa, Parigi, Bordeaux, Lione, Marsiglia, Tolosa, Norimberga, Lisbona, Costantinopo-li, etc. E proprio questa famiglia costituisce uno degli esempi più significativi nel ricco panorama dei lucchesi dediti alla mercatura. Infatti, tanto per ricordare alcuni fatti importanti, fu Martino di Benedetto Buonvisi che nel 1517 installò nella nuova sede di Anversa la prima ‘compagnia’ lucchese, e qui, nel 1529, lo raggiunse il fratello Lodovico. Tra il 1521 ed il 1526 lo zio Nicolao si spostò da Londra ad Anversa per organizzare nel nuovo fondaco il commercio della seta. I Buonvisi dominarono l’attività finanziaria di questa città delle Fiandre fino al 1629, quando subirono un clamoroso fallimento Come attestano numerosi documenti, nei luoghi in cui operarono erano considerati i mercanti più facoltosi dell’epoca, capaci di coinvolgere nella loro orbita altre famiglie di Lucca . Ma i membri di questa famiglia non si dedicarono solo ai commerci: alcuni, resi-denti a Lucca, riuscirono a superare brillantemente la crisi del 1531 e quella che seguì la ‘Rivolta degli Straccioni’, sedata pure con il loro fondamentale contributo .
Questi brevi cenni alla condizione sociale, politica ed economica dei Buonvisi non sono certamente esaurienti per delineare, anche a grandi linee, la storia di questo casato, ma possono bastare per giustificare il rinvenimento, in una delle loro abitazioni, delle ceramiche che stiamo per prendere in considerazione. La presenza del loro emblema araldico su molte di queste ci porta ad affermare, senza timore di smentite, che si tratta di manufatti espressamente commissionati da membri della stessa famiglia ad una bottega attiva nel XVI secolo e poco oltre.



Il contesto

Il contesto da cui provengono i frammenti dei servizi Buonvisi è il riempimento (US 18/A) di un pozzo nero (eta) esplorato nel settore nord-occidentale (Saggio A) dell’area di scavo.
Il pozzetto era costruito di laterizi integrati da ciottoli, disposti in filari, legati da buona malta biancastra, e il suo uso era chiaramente indicato dalla canalizzazione in tubi fittili alloggiata sulla struttura in laterizi S e conclusa da uno scivolo costruito ancora con laterizi, che vi faceva confluire, all’angolo sud-occidentale, i liquami dall’edificio cui era pertinente il vano definito, oltre che dalla struttura S, da R, B1, V, ancora costruite in laterizi.
La formazione dell’ambiente è tracciata, nell’evidenza archeologica, da un livellamento di macerie (18) sciolte, con ceramica che la pone sullo scorcio finale del XV secolo; il livellamento 18 seppellisce il piano pavimentale di scagliette d’ardesia che segna la faccia superiore di un livellamento (20) di terra con rari frammenti di acrome basso-medievali. Il livellamento 18/A segna la fine dell’uso del pozzetto eta, colmato da macerie, abbondantissima fauna, ceramiche.
Il disuso, la demolizione, l’obliterazione del pozzetto, evidentemente funzionale alla fa-se quattrocentesca del complesso, non è che uno degli episodi che indicano, nell’evidenza di scavo, la rimodulazione del complesso nel corso del XVII secolo. L’inerte impiegato per seppellirlo fu attinto da un immondezzaio nel quale si dovevano essere accumulati resti di pasto e scarti d’uso di ceramiche, e a cui si ricorse anche per il livellamento 35, gettato su un pavimento in laterizi (36) datato dai materiali ceramici finiti nel vespaio al Tardo Medioevo.

Le ceramiche

I reperti di seguito analizzati più a fondo sono tecnicamente identificabili in due gruppi principali, ai quali è stato aggiunto un terzo che, pur essendo per alcune caratteristiche avvicinabile al secondo, costituisce, come vedremo, un caso decisamente diverso. Questi manufatti provengono per l’80-90% da un unico strato (PL.A/1 – 18/A), mentre i rimanenti sono stati rinvenuti in un altro (PL. 35), ma è significativo il fatto che tra gli ultimi si trovino frammenti che appartengono a recipienti attestati nel primo. Ciò ci autorizza a considerarli tutti un insieme omogeneo. Purtroppo lo stato molto frammentario ci impedisce di valutare il numero esatto dei recipienti attestati e di identificare di ciascuno il tipo morfologico preciso, pur potendo affermare che si trattava esclusivamente di forme aperte.

1° Gruppo – ‘Maioliche a fondo bianco’ (fig. 3-8)

Questo gruppo è testimoniato da 105 frammenti, pertinenti a più di venti manufatti.
– Per il corpo ceramico fu impiegata un’argilla depurata che, dopo cotta, si presenta di colore cuoio chiaro.
– Le due superfici sono uniformemente coperte di uno spesso strato di smalto stannifero bianco. Questo presenta crepature e una certa facilità a distaccarsi dalla superficie del corpo.
– Circa la metà sono pertinenti a manufatti con stemma centrale, l’altra metà a esemplari completamente bianchi. Dato che lo stemma occupa solo il centro del vaso, tale valutazione può essere alterata da forme di cui si conservano solo porzioni periferiche.
Gli stemmi identificati possono essere:
A – Quello tipico dei Buonvisi, entro scudo ovale: ‘d’azzurro alla cometa d’oro a otto punte in palo, carica di un bisante-torta inquartata in croce di Sant’Andrea d’argento e di rosso’; il campo azzurro è reso a trattini, la cometa è riempita con pennellate in giallo, mentre i quarti del bisante centrale sono alternativamente bianchi e marcati in giallo-bruno. I contorni, come tutti gli elementi esterni al disegno principale, sono sottili e tracciati in grigio violaceo. Lo scudo è fiancheggiato da svolazzi, con minuti elementi vegetali, ed è provvisto di cimiero con angelo ad ali spiegate, che sostiene un cartiglio con l’impresa della famiglia: tout jour je pence de bien faire, come suona nello stemma collocato nel plinto dell’altare Buonvisi in Santa Maria Corteorlandini a Lucca, datato 1660 (fig. 6-7); tout jours je pence a bien faire, attestato nella redazione a stampa, della fine del Settecento, di un albero genealogico della famiglia; infine, tout le jours je pense à bien faire, nella ver-sione del Libro d’Oro della nobiltà lucchese ottocentesca. La resa del motto – puot tours (o jours) ie pie[--] – tradisce l’evidente incomprensione dell’impresa, o per la scarsa qualità del modello fornito, o per il vero e proprio analfabetismo del pitto-re, che riproduce un testo senza comprenderlo.
Nel trattamento del complesso decorativo sono identificabili due mani diverse.
A commento della figura non manca, insieme a quelle in giallo e in blu scuro, qualche pennellata verde. Questa versione è attestata sicuramente almeno in tre casi, ma il giudizio è difficile per altri, sui quali si con-servano solo resti dell’ovale.
B – Uno stemma bipartito (tre casi). Sulla parte sinistra si trova lo stemma Buonvisi (sicuro in un caso, probabile negli altri due), sulla destra un leone rampante: lo stemma dei Cenami (sicuro in un caso, forse due), d’oro al leone rampante di rosso . L’associazione delle due famiglie potrebbe essere riferita al matrimonio fra Lorenzo Cenami e Chiara di Stefano Buonvisi, nel 1609 , anche se la posizione dell’arme Buonvisi, stando alla lettura araldica, dovrebbe indicare che nel matrimonio la famiglia era presente con il marito. L’inversione dei ruoli potrebbe essere giustificata, tuttavia, sia con la straordinaria superiorità dei Buonvisi rispetto ai Cenami – secondi sì solo ai Buonvisi nel repertorio per patrimonio delle famiglie lucchesi, ma ad enorme distanza da questi – che con il fatto che il servizio celebrativo delle nozze fu commissionato dai Buonvisi.
– Le forme sembrano essere tutte dello stesso tipo. Si trattava cioè di piatti con larga tesa e cavità abbastanza espansa, non troppo profonda. Il piede era ad anello, basso e arrotondato. Solo un reperto fornisce tutte le dimensioni, per altri due uguali (uno tutto bianco) ci mancano le prime due misure: diametro massimo cm 34; tesa cm 6; diametro cavità cm 22; profondità della cavità cm 3; diametro del piede cm 14. Altre misure, comunque, sembrano indicare nei casi citati la forma di maggiori dimen-sioni. Recipienti più piccoli sono documenta-ti da altri dati, pur se parziali, relativi al diametro massimo (cm 30/tesa 4,5-5; 28/tesa 4,5; 20; 18), al diametro della cavità (cm 17; profondità della cavità cm 2; diametro del piede cm 10), al diametro del piede (cm 12; 10,5; 10).

2° Gruppo – ‘Maioliche policrome a fondo blu’ (fig. 9-16)

Questo gruppo è attestato da 130 frammenti, pertinenti a più di trenta manufatti.
– Per il corpo ceramico fu impiegata un’argilla depurata apparentemente simile a quella delle ceramiche del 1° gruppo che, dopo cotta, si presenta di colore molto chiaro.
– Le due superfici sono completamente ri-vestite di uno strato di smalto stannifero blu (‘berrettino’).
– Lo stato frammentario non consente in nessun caso di rilevare completamente i dettagli, ma, nell’insieme, sono identificabili le varianti decorative di seguito commentate.
Tutti i manufatti di questo gruppo sono poli-cromi e presentano, entro un medaglione centrale, contornato da fasce concentriche, lo stemma dei Buonvisi.
I colori dei disegni eseguiti sopra il fondo blu sono il blu in tonalità più scura, usato per i tratti sottili e per mettere in risalto gli elementi vegetali delle fasce e il bianco. Il giallo e il giallo-arancio sono usati esclusivamente per esigenze araldiche.
Lo stemma ha il fondo blu, ma il suo profilo è sottolineato da una stretta fascia bianca. In base al trattamento dello scudo si posso-no distinguere due serie:
A – lo scudo è sagomato ed è circondato da sottili nastri; le otto punte della cometa si dipartono dal ‘canonico’ bisante già incontrato nel 1° Gruppo del ‘servizio bianco’.
B – lo scudo ‘a muso di cavallo’ campeggia da solo in mezzo al medaglione e le otto punte della cometa convergono al centro senza la distinzione del ‘bisante’ (almeno tre casi). La tonalità blu è in questo seconda serie decisamente più intensa.
Le fasce concentriche che circondano il medaglione sono sempre due, e possono essere entrambe riempite da motivi vegetali (tralci con foglie e frutta) in varia foggia (al-meno 5 casi), oppure con ornamenti del genere soltanto sulla fascia più periferica, mentre quella adiacente al medaglione è priva di ornamenti (almeno 16 casi).
Anche la superficie esterna è quasi sempre decorata sulla parete con un motivo ‘a ca-nestro’ o a ‘cespo’, tracciato in blu scuro, come la sigla all’interno del piede, presente soltanto sui pezzi della serie B. Tale sigla, con segni di abbreviazione sopra e sotto, è sempre pressoché uguale, costituita dalle lettere maiuscole P e B separate da un piccolo segno o da un grosso punto. È attestata in nove casi, in altri non è rilevabile a causa dello stato conservazione.
– Le forme più testimoniate erano dello stesso tipo di quello degli esemplari del 1° Gruppo. Si trattava cioè anche per questi manufatti di piatti con larga tesa, cavità ab-bastanza espansa non troppo profonda, piede ad anello basso e arrotondato. Nessun reperto fornisce tutte le dimensioni, ma i diametri massimi rilevabili indicano misure di cm 34/27-28/20 /14-14,5. Anche le altre misure registrabili confermano rapporti di-mensionali simili a quelli dei pezzi a smalto bianco.
Il quadro morfologico relativo al 2° Gruppo comprendeva però anche qualche recipiente diverso. Un frammento, relativo al centro di un vaso aperto che si presenta in questa parte quasi perfettamente orizzontale, con-serva resti di un piede svasato alto cm 2,5 circa. Il diametro di questo piede è cm 5,5 circa nel punto di attacco al corpo del vaso, cm 8,5 nel punto di appoggio. Di un altro esemplare (diametro massimo cm 20-22), verosimilmente con cavità emisferica, si conserva una porzione della parte alta della parete, che termina con una piccolissima tesa inclinata verso l’interno.

3° Gruppo – ‘Maioliche a fondo azzurro’.

– Una quindicina di frammenti, relativi a sei-sette recipienti, sono rivestiti di smalto stannifero colore azzurro (‘berrettino’) e decorati con motivi dello stesso colore, ma in tonalità più scura. Si differenziano netta-mente da quelli del 2° Gruppo, oltre che per i colori, anche per non essere mai ornati con uno stemma. Si tratta chiaramente di manufatti liguri del Cinquecento che, sebbene in numero esiguo, arricchiscono la pa-noramica della diffusione in Toscana di questi prodotti . In tre casi la tipologia rientra nel così detto ‘Calligrafico a volute tipo C’, con la tipica fascia ornata da un ‘filare di goccioline disposte a spina-pesce’. Si trova su una o due forme senza tesa, con orlo e-stroflesso, e su una con larga tesa. Su un frammento relativo ad un fondo, con piede ad anello basso e arrotondato, si conserva parte di un medaglione centrale riempito da volute arricchite con elementi vegetali. In un altro reperto, invece, è identificabile la ‘Decorazione a quartieri’, su una forma (di-ametro cm 27-28) simile alle precedenti senza tesa . Tutti gli esemplari, anche quelli con ornamenti non identificabili, hanno all’esterno il motivo ‘a cestino’ .
La differenza principale dei reperti del terzo gruppo da quelli degli altri due sta nel fatto che ci troviamo di fronte, in questo caso, a ceramiche oggetto di larga esportazione da parte di mercanti liguri. Tali manufatti venivano impiegati, per usi domestici, anche nelle dimore di cittadini di ceti sociali non necessariamente troppo elevati.
La loro presenza nelle unità stratigrafiche cinquecentesche degli scavi in centri urbani grandi e piccoli è piuttosto comune. Oltre che in siti della Toscana, troviamo i recipienti in questione in moltissime altre aree, non solo italiane. Tanto per citare qualche caso di esportazioni a largo raggio basterà ricordare, ad esempio, il recupero relativo al carico della nave naufragata di ‘Brocciu o Rocciù, à l’Île Rousse’ in Corsica . Ma la diffusione via mare non si limitò al Mediter-raneo, raggiunse infatti anche siti portuali del nord Europa e, addirittura, dell’America . L’ottica nella quale vanno visti questi manufatti è cioè simile a quella che accomuna tutti gli esemplari rinvenuti associati nella stessa unità stratigrafica, r-feribili ad un determinato contesto di consumo unitario. In merito allo specifico caso qui considerato, per avere un’idea sull’incidenza dei primi due gruppi, rispetto al totale, possiamo riprendere le informazioni da alcune note scritte negli ultimi anni Ottanta del secolo scorso, quando fu eseguita una preliminare schedatura delle ceramiche da mensa dello scavo di Palazzo Lippi.
I dati disponibili indicano le ulteriori attestazioni sinteticamente elencate di seguito:
– ‘Maioliche Arcaiche’, lucchesi e pisane di XIV-XV secolo: frammenti pertinenti a circa 15 individui.
– ‘Graffite policrome’ lucchesi, di XVI seco-lo: frammenti pertinenti a circa 15 individui.
– ‘Graffite Tarde’ pisane, di fine XVI-inizio XVII secolo: circa 150 individui.
– ‘Ceramiche graffite a stecca’ pisane, di XVI secolo: circa 30 individui.
– ‘Ceramiche graffite a fondo ribassato’ pisane, di XVI–inizio XVII secolo: circa 230 individui.
– ‘Maioliche di Montelupo’ (‘Italo moresche’ ed altre) di XVI secolo: circa 30 individui.
Pur trattandosi di dati da ricontrollare, da una prima approssimata valutazione sembrerebbe che, all’interno delle stoviglie da mensa attestate nell’unità stratigrafica selezionata, quelle dei gruppi 1° e 2° coprissero intorno al 10% del totale.
Che cosa suggerisce un dato del genere?
Se tutti i manufatti del sito rispecchiano in qualche modo le stoviglie da mensa impiegate dai Buonvisi nella seconda metà del XVI secolo – inizio del XVII, e la presenza del loro stemma su abbondanti pezzi dei primi due gruppi, come pure la notizia do-cumentaria dell’entrata in possesso del palazzo proprio in quel periodo sembra con-fermare, l’insieme ci offre un quadro relativo ad una famiglia nobile e molto agiata. Accanto ad un buon numero di stoviglie normali questi ricchi mercanti disponevano di uno o due ‘serviti buoni’, da usare nelle occasioni speciale.

Ritornando alle ceramiche del 1° e del 2° Gruppo è abbastanza facile escludere che si tratti di prodotti inclusi nelle produzioni correnti delle fabbriche della Toscana. L’unico centro che avrebbe potuto fare manufatti del genere sarebbe stato Montelupo Fiorentino. D’altra parte, la presenza dello stem-ma del casato indica in modo inequivocabile che quei pezzi furono commissionati da qualche membro della famiglia. Ciò rende più difficile ipotizzare il possibile centro di fabbricazione, in quanto è del tutto probabile che nel sito produttivo manchino pezzi con cui confrontarli. Se molti indizi indicano in Faenza il luogo di introduzione della tecnica del fondo blu (‘berrettino’) non si può fare a meno di condividere ancora oggi al-cune considerazioni espresse da Carmen Ravanelli Guidotti, dopo la scoperta della fornace dei Pompei a Castelli . La classe delle ‘maioliche turchine’ è una delle più caratteristiche e prestigiose del ’500 italiano. Ma «tale classe si può documentare in diverse aree regionali» e bene testimoniano tale fatto le collezioni del Museo delle Ceramiche di Faenza. «Infatti le ricche raccolte di interesse raffrontativo-multiregionale del Museo faentino, bene si sono prestate per dimostrare che le ‘maioliche turchine’ cinque-seicentesche sono presenti tra i prodotti di Faenza …, di Venezia, di Padova … e di Castelli. Ma l’assunto non sarebbe completo se noi non aggiungessimo che in raccolte pubbliche e private tale classe è altrettanto esemplificata tra i prodotti di Montelupo, di Deruta …, di Pesaro, della Sicilia e della Puglia, la quale sembra assimilare nel XVII secolo proprio i modelli compendiari castella-ni, bianchi e turchini …: ed è ancora più puntuale ricordare che, in ambito extra italiano, vasellami turchini si documentano anche presso le officine francesi di Nevers … ed ungheresi».
Un dato di fatto è che in quelle ‘turchine’ troviamo ripetute le stesse forme adottate nelle altre, a fondo bianco. Un ulteriore dato interessante per la sostanziale contemporaneità produzione delle ceramiche smaltate in bianco e in blu è la scoperta a Castelli di «frammenti di ‘marzacotti’ (o ‘fritte’) bianchi e turchini …».
Solo confronti molto approfonditi dei reperti di Palazzo Lippi con i prodotti di centri di-versi potrebbero darci qualche suggerimento più consistente sul possibile luogo di fabbricazione, come, del resto, potrebbe essere di aiuto identificare il ceramista che aveva posto le sue iniziali sotto un buon numero di esemplari. L’unica sigla simile (ma non identica) rinvenuta per ora si trova, tracciata in bruno di manganese, all’attacco inferiore dell’ansa di un ‘orciolo’ del XVII secolo attribuito a Montelupo . E non si può escludere che potrebbe dare buoni frutti anche un’accurata ricerca sui documenti degli archivi dei Buonvisi.
In attesa di ulteriori sviluppi delle ricerche, a conclusione di queste note non si può fare a meno di rimarcare l’attenzione sul fatto che il rinvenimento qui segnalato è da molti punti di vista piuttosto eccezionale. Durante il Rinascimento molte famiglie illustri fecero eseguire maioliche più o meno prestigiose con i loro stemmi ed il ‘caso Buonvisi’ si inserisce in questo filone. La massima parte degli esemplari noti, però, noi la conosciamo perché conservati in raccolte museali del Vecchio e del Nuovo Mondo, illustrati in libri d’arte o cataloghi più o meno importanti. Il rinvenimento di pezzi del genere non manca nelle discariche delle fornaci che facevano questi prodotti, come ad esempio quelle di Castelli in Abruzzo . Ma i servizi dei Buonvisi sarebbero rimasti probabilmente sconosciuti se non fossero stati recuperati gli esemplari di Palazzo Lippi qui segnalati, strettamente collegati al luogo in cui furono utilizzati proprio da membri di quel casato.

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