



Non certo perfetti come nella figlia di Roma e dei Latini, e dell'arte di costruire le città appresa da Seleucia a Demetriade, la turrita corona del poggio che domina laguna e mare, Cosa, finalmente rivelatasi degna rivale tirrenica delle fondazioni dei Diadochi, con il suo tagliente apparato di pietre, di torri e di porte; desolata più da chi vuole ancora rifarla, fra PIC PAC PIT ottopemille ed Arcus, misero erede degli allievi dei maestri ellenistici, che dall'abbandono di cui fu testimone Rutilio.
Dunque, da Cosa a Lucca – le città figlie di Roma, gettate sui confini di mare e di terra di uno Stato fondato sull'inaudita miscela di prepotenza e convenienza che sfidava il povero Polibio – s'inseguono i Segni dell'Ellenismo di confine, nutrito del genio italico – come si sarebbe detto quando la parola 'Patria' non era vituperevole sinonimo di 'Paese' – capace di far proprie lezioni allotrie. Non i Ciclopi, non i misteri calati da arcane ricerche di congiunzioni stellari, ma maestrie apprese e propagate congiungono in intrecci senza fine le pietre poco prima accumulate brutalmente, celebrano città che sono anche macchine da guerra, temibili nella loro eleganza.
I filari di calcare cui le giovani archeologhe volgono le spalle, dopo averli puliti e celebrati, racconteranno storie che vengono da Atene e dalla Macedonia, sono state narrate sul Liri e sul Volturno, hanno esaltato i lettori di Lucilio e di Terenzio. Se solo qualcuno volesse ascoltarle ...
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