La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico
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lunedì 21 novembre 2016
Il mare di Fonteblanda (sogni etruschi, tanti anni dopo)
Il mare di Fonteblanda veste i colori forse più belli nell’ora del tramonto, con il sole che sulla spiaggia della Puntata dipinge il profilo dell’Argentario, dell’Isola del Giglio, del castello che vigila sul porto che fu degli Aldobrandeschi, dei Senesi, infine dei Reali Presidi di Spagna e di Napoli (fig. 1). Ma per immaginare il porto degli Etruschi occorre ascendere sulla Pietra Vergine, nelle luci del pieno giorno, e seguire l’orizzonte del mare verso l’Uccellina, gli spazi della Bonifica, dove fu la laguna (fig. 2), infine volgere lo sguardo verso oriente, alla Piana di Fonteblanda – come la chiamavano nell’Ottocento – quando l’aratura ne esalta i rossi colori (fig. 3).
Fu questo il paesaggio che si presentò a chi scrive il 1° ottobre 1987, alla fine di una giornata di emozioni continue, nella storia rivelata dall’aratro che ricuciva nei frammenti di ceramiche e di tegole sparsi dalla ferrovia alla vetta della Pietra Vergine le storie raccontate dal Pasqui e le terrecotte architettoniche emerse nei lavori della Bonifica. Telamon sembrava aver ritrovato il suo porto e il mitico viaggio degli Argonauti, qui di sosta dopo l’Elba.
Soprattutto l’eco delle ricerche sul Commercio etrusco arcaico, presentate qualche anno prima ad un memorabile convegno romano, e allora fresche o quasi di stampa, si rifletteva nella distesa di anfore etrusche concentrare sulla Piana; quasi solo Py 3, il simbolo più vivido dei traffici tirrenici che Michel Gras aveva da poco ricostruito in un’opera non meno epocale di quella del convegno romano. Non meno risolutive erano state le indagini che Mensun Bound aveva da poco completato sul relitto del Campese all’Isola del Giglio.
Le tessere del mosaico salvate da remoti ritrovamenti ottocenteschi, dalle strutture e dai materiali portati in luce, direttamente o indirettamente, dalle opere di bonifica nel primo trentennio del secolo, si ricomponevano in un disegno coerente, che vedeva l’area occupata a più riprese, dal Bronzo Finale all’età romana; ma come si segnalava nella relazione del sopralluogo, era proprio l’area dell’insediamento arcaico a sollecitare l’attenzione più acuta, sia per il verosimile stato di conservazione e le correlate esigenze di tutela, sia per le prospettive di conoscenza – scopo allora certo non secondario dell’opera di una Soprintendenza Archeologica. Con uno schizzo topografico, il giorno 7, si concludeva questa prima fase delle ricognizioni.
Un’altra, assai più complessa, prendeva avvio.
Proprio per la molteplicità degli scopi istituzionali, la Soprintendenza aveva allora anche le dotazioni finanziarie essenziali alle ‘opere di conoscenza’ indispensabili alla formulazione di un motivato atto di tutela. Anni che allora sembravano lunghissimi, e oggi sono tempo inauditamente breve, per poter procedere ai primi saggi, in un piovoso autunno del 1990, presto sospesi e infine riavviati nell’autunno dell’anno successivo (figg. 3-4), con l’esperienza delle maestranze della ditta Fratelli Fedi di Murci – da tempo formati sugli scavi e nei cantieri di restauro del Grossetano – e la collaborazione dell’assistente Giuseppe Barsicci.
Un mese di scavi per confermare che sotto un velo di terreno agricolo le strutture d’età arcaica e le stratificazioni che ne scandivano la storia erano eccellentemente conservate; su questa base era possibile promuovere un inoppugnabile atto di tutela, con il decreto ministeriale del 25 giugno 1992, emanato proprio nel momento culminate di una campagna giudiziario-mediatica sui beni archeologici della provincia di Grosseto, oggi dimenticata se non da chi la visse. Fu in questo contesto, interminabile, che si poté riprendere lo scavo, ancora d’autunno, nel 1993: la tutela si faceva conoscenza, proprio mentre venivano elaborati in comunicazioni i primi dati di Fonteblanda, in particolare sull’insediamento del Bronzo Finale e su quello d’età ellenistica. Pier Giovanni Romano, restauratore nell’Ufficio Distaccato di Grosseto della Soprintendenza, ebbe il merito di assicurare la continua, fisica presenza della Soprintendenza in momenti fatti di continui ‘accertamenti’, mentre ancora le maestranze di Murci ampliavano il saggio, disegnando planimetrie che invitavano ad interpretazioni ‘palaziali’ della struttura, forse anche per la suggestione del ritrovamento di terrecotte architettoniche.
Solo nel 1997, con un corposo finanziamento, ed uno scavo protrattosi per tutto il mese di ottobre, era possibile dare una risposta convincente ad almeno alcuni degli enigmi di Fonteblanda. Con Marco Firmati, sperimentato archeologo libero professionista, si congiungevano e ampliavano i saggi del ’91 e del ’93, sino a far risaltare dalle strutture un organico quadrettato: urbanistica ‘ippodamea’, per plateiai e stenopoi, con lotti omogenei (oikopeda).
Mentre a Orbetello Giuseppe Chegia, nella sede operativa di Porta Nuova, provvedeva a completare le attività preliminari al restauro, e nel Centro di Restauro della Soprintendenza, a Firenze, si interveniva per preparare all’esposizione una scelta di materiali, la riflessione scientifica sui dati raccolti poteva essere presentata a Orvieto, grazie all’invito di Giuseppe Maria Della Fina, nel convegno del 2002, e a Londra, nello stesso anno. Nella prima sede venivano sintetizzate le informazioni sull’assetto urbanistico – anche per l’inevitabile confronto con l’organizzazione spaziale del sepolcreto orvietano di Crocifisso del Tufo – mentre a Londra si illustrava il contributo di Fonteblanda alla rete mercantile tirrenica del ferro, grazie alla ‘bottega di fabbro’ individuata nei saggi del 1997. Le indagini a Rondelli di Follonica, condotte nello stesso volgere di tempo e corroborate da risolutive ricerche archeometallurgiche, contribuivano ad avvalorare l’ipotesi che la ‘filiera’ del ferro elbano descritta da Diodoro fosse già attiva nel corso del VI secolo a.C.
Il mare di Fonteblanda continuava, tuttavia, a lasciare senza risposta risolutiva la domanda cruciale che l’archeologo si era posto sin dal momento in cui aveva camminato sulle zolle affollate di frammenti di anfore etrusche: Fonteblanda era un ‘porto di scambio’ in cui vino etrusco di varia provenienza – come del resto indiziavano le diverse tipologie anforiche – veniva smistato, assieme a quello ‘egeo’ e di Sardegna attestato dalle anfore, e al ferro, acquisito come semilavorato e trasformato in manufatti; oppure era, in primo luogo, il ‘porto del vino’ dell’entroterra, della Valle dell’Albegna?
Per la fase della fine del VI e dei primi del V secolo a.C. la risposta era già disponibile, grazie alle ricognizioni di Philip Perkins e Lucy Walker a Doganella: la ‘città di fondazione’ della Bassa Valle dell’Albegna era anche centro manifatturiero delle anfore etrusche Py 4 presenti in massa nell’area dell’insediamento tardoarcaico, esaltato anche dalla struttura templare i cui rivestimenti architettonici erano stati restituiti a più riprese, assai frammentati, sin dagli anni Venti. I dati che i ritrovamenti degli anni Ottanta proponevano per la fascia litoranea del territorio orbetellano ne facevano emergere con grande rilievo la vivacità, che non poco doveva alla viticoltura.
Occorreva attendere il nuovo millennio e l’impegno di Andrea Zifferero e del gruppo di lavoro da lui coordinato nel territorio di Marsiliana d’Albegna per avere una risposta a questa, estrema domanda. Mentre l’imponente attività condotta intorno al Museo Archeologico della Vite e del Vino di Scansano, culminata nel convegno del 2005, faceva risaltare le dimensioni della viticoltura etrusca nella Valle dell’Albegna, sino alla proposta di riconoscere nelle ‘lambruscaie’ del territorio l’esito dei vitigni d’età etrusca, a Marsiliana la fase d’età arcaica usciva dal cono d’ombra cui a lungo era stata circoscritta dal fulgore delle tombe orientalizzanti. I ritrovamenti di scarti di cottura di anfore etrusche, seppur forse in giacitura secondaria, attestavano infine che già dal VI secolo era stata avviata una produzione di anfore. Nel 2011 il Museo di Scansano ospitava una mostra che faceva il punto su un decennio di ricerche, con il titolo La Valle del Vino etrusco: dal distretto vinicolo della Media Valle, con Magliano e Scansano, alle vie del mare, verso la Gallia, si disegnava una ‘filiera del vino’ che trovava nelle manifatture di anfore di Marsiliana lo snodo al quale subito seguiva il porto di Fonteblanda.
Sarebbe stato tempo, dunque, di presentare con più spazio le fatiche degli anni Novanta, ora che il ruolo ‘emporico’ dell’insediamento arcaico di Fonteblanda poteva essere messo a fuoco in non pochi dei suoi aspetti: centro d’imbarco del vino della Valle dell’Albegna per la Gallia, in un circuito di scambi che vede aggiungersi alla produzione ‘locale’ quella giunta per le vie del mare, con carichi che vengono ‘spezzati’ e rivolti in parte al consumo locale o nell’entroterra, in parte reimmessi nei circuiti marittimi, offrendo un’alternativa al prodotto ‘dominante’; centro di trasformazione del ferro elbano, ancora per le comunità locali o per il commercio tirrenico, secondo il modello diodoreo. Altre merci sono solo da immaginare, nell’asciutto linguaggio dei contesti archeologici, come forse il bronzo o il pesce.
Al cuore, un luogo – verrebbe da immaginare – reso attraente a gente di varia provenienza ed estrazione (come è proprio delle città ‘coloniali’) dalla disponibilità di lotti edificabili assicurata da un impianto urbanistico solido e duttile al contempo, facilmente dilatabile.
Come nelle coeve colonie greche di Sicilia in cui è applicato lo stesso schema, era questo l’humus più idoneo alla genesi e alla maturazione di una comunità di artigiani e mercanti, capace di cogliere e moltiplicare le occasioni di un ‘luogo di incontro’. Il dato archeologico è elusivo per la comunità di Fonteblanda, se non per i suoi consumi alimentari e ceramici – che tuttavia ne attestano il ‘tono’ – ma dichiara che questa era tramite fra le navi etrusche che salpavano per la Gallia – come quella naufragata nei pressi di Antibes, alla Love, che tutto farebbe credere partita da Fonteblanda – e quelle focesi che intorno al 570 navigavano nel Tirreno settentrionale ripetendo e dilatando le esperienze dei naukleroi greco-orientali testimoniate nel decennio precedente dal relitto del Campese all’Isola del Giglio, e dall’altra le aristocrazie locali che lasciano il loro segno nell’immediato entroterra con i grandi tumuli affollati di sculture zoomorfe. Per un cinquantennio, un felice equilibrio con la contigua laguna concesse di fiorire agli Etruschi di Fonteblanda, prima che dovessero spostare la sede dell’insediamento poco più a monte, alla pendici della Pietra Vergine.
Storie raccontate da muri, da strati, da ceramiche, come sono quelle dell’archeologo, che richiederebbero minuzie di numeri e severità di descrizioni per le esigenze dell’accademia. L’archeologo un po’ stanco, sa che il mondo che lo circonda è assai diverso da quello degli anni Ottanta, e molti sono i motivi per cui non può andare oltre un rapido racconto; solo spera che almeno un po’ vi si risenta il rumore dell’acqua sulla spiaggia della Puntata, nelle luci del tramonto dei giorni in cui dallo scavo sembravano che le penteconteri greche fossero appena arrivate, ed Elena si preparasse all'avventura d'oltremare (fig. 5).
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