Colori discreti, per le fatiche degli amici di Garfagnana (e non solo)
Giulio Ciampoltrini, Silvio Fioravanti,
Paolo Notini, Andrea Saccocci
Villaggi e chiese, castelli e paladini.
Materiali archeologici per la Garfagnana nel Medioevo
Attività di tutela e continuo impegno sul territorio hanno fatto dei primi anni del nuovo millennio una stagione felice per l’archeologia in Garfagnana.
Il complesso tombale ligure-apuano della
Murata di Vagli Sopra – la ‘Fanciulla di Vagli’ – scoperto e scavato nel 2008
ha trovato nell’estate del 2013 una decorosa sistemazione a Vagli Sopra, nell’edificio
dedicato all’eroico Domenico Marco Verdigi; la mostra che a Lucca, nel 2011,
aveva reso conto delle acquisizioni scientifiche e dell’attività di restauro,
ha conseguito dunque l’esito auspicato, grazie all’impegno del Comune di Vagli
Sotto e al costante supporto della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, in
particolare dell’allora vicepresidente dottor Alessandro Bianchini[1].
Ancora una mostra, a Lucca, nella cornice
del Museo Nazionale di Villa Guinigi, ha reso disponibili al pubblico, nel marzo
2013, i risultati dello scavo condotto da Paolo Notini e Silvio Fioravanti alla
Murella di Castelnuovo di Garfagnana fra 2010 e 2012, su un insediamento
etrusco della fine del VI-inizi V secolo a.C.[2].
Lo stesso scavo della Murella, infine, ha
offerto, con le stratificazioni del Bronzo Medio raggiunte sotto i livelli
etruschi, la conferma agli stretti rapporti fra Garfagnana e area terramaricola
padana – dal Modenese al Reggiano – che le ricerche al Muraccio di Pieve
Fosciana avevano dimostrato per le fasi avanzate del Bronzo Medio,
proiettandole al momento di passaggio fra Bronzo Antico e Bronzo Medio[3].
La premessa è indispensabile per introdurre
l’argomento di questa comunicazione. Con la serie di contributi per la
Garfagnana del II millennio a.C., d’età etrusca e ligure appena usciti, per
rispondere all’invito degli amici della Deputazione e della Pro Loco non si
poteva proporre come tema che i risultati di un decennio di ricerche sul
Medioevo, sostanzialmente inedite, e che offrono l’occasione di ritornare su
argomenti affrontati proprio in questa sede negli anni Novanta, in particolare
nei due convegni dedicati alla Garfagnana altomedievale, fino all’età
matildina, e a quella del Basso e Tardo Medioevo, fino all’avvento degli
Estensi (1995 e 1997)[4].
Villaggi
altomedievali e metallurgia del ferro: nuove evidenze
Le pionieristiche ricerche su complessi
altomedievali della valle dell’Edron di cui si diede conto nel 1996[5] hanno trovato all’Aiaraccia, subito a monte
dell’agglomerato della Villetta, in Comune di San Romano di Garfagnana, fra
2005 e 2006 (fig. 1, A), l’evidenza delle associazioni stratigrafiche,
esplorate e documentate almeno in parte, dopo l’individuazione nei lavori per
la costruzione della RSA, grazie alla disponibilità della ASL 2 di Lucca (fig.
1, B).
Le sedimentazioni con frequentazione
antropica, blandamente annerite anche per la sporadica presenza di carboni,
hanno matrice limoso-argillosa alla base, mentre sono formate nei livelli
superiori da terriccio misto a pietrisco (fig. 1, C); la colorazione passa dal
marrone al grigio-verde e infine al blu dell’argilla di base – raggiunta a 5,5
m dalla superficie attuale – per i noti fenomeni di ossidazione e riduzione del
ferro in ambiente ricco di acque. Seppur limitati, i sondaggi e i rilevamenti
stratigrafici hanno portato a concludere che una concavità morfologica naturale
– una conca di sprofondamento con contropendenza verso monte – fu
progressivamente livellata con detriti di falda e materiali di ruscellamento,
in cui confluirono anche scarti d’uso ceramici, carboni, lastrine di arenaria –
estranee alla litologia dell’area e quindi di apporto antropico – scagliette di
ematite, rara fauna, provenienti da un contiguo insediamento.
Nella tradizione già tardoantica, e poi
altomedievale, di Lucca e del territorio di pertinenza, dalla Valle del Serchio
al Valdarno Inferiore[6], il repertorio morfologico delle ceramiche,
omogeneo nell’intera sequenza stratigrafica, è limitato a due forme chiuse: l’‘orciolo’
– forma dotata di ansa, per versare liquidi – e l’‘olla’, la forma chiusa ‘da
fuoco’[7]. Entrambe sono prodotte in un impasto
bruno-chiaro, sabbioso, caratterizzato da una redazione omogenea e
particolarmente accurata.
L’‘orciolo’ ha corpo globulare, breve collo,
ed è provvisto di una larga ansa a nastro sistematicamente impostata su un
sottile collarino che corre poco sotto il labbro, diritto e assottigliato (fig.
2, A, 1-5; 2, B, 1-2); l’ansa può essere dotata di stampigliature (fig. 2, B,
3), e colature o pennellate in rosso – raramente conservate – sono l’apparato
decorativo che integra il tipico motivo altomedievale delle linee ondulate
incise, singole o in fasce parallele (fig. 2, B, 3-4). L’olla ha corpo
globulare, breve orlo obliquo, talora pressoché diritto (fig. 2, A, 6-11).
I contesti lucchesi ancorati dalle sequenze
stratigrafiche o dalla correlazione con strutture – il primo è il caso degli
inediti materiali dalla Loggia dei Mercanti di Via Fillungo, il secondo delle
restituzioni dai livelli di Santa Giustina associati alle strutture altomedievali
riferibili alla fondazione del dux
Allone, nello scorcio finale del secolo VIII (fase Galli Tassi III)[8] – propongono soluzioni comparabili con
quelli dell’Aiaraccia sia nel repertorio delle olle, sia nella morfologia del
labbro dell’‘orciolo’, in particolare nel collarino che modula la base dell’orlo,
e nel quale forse non è fuor di luogo riconoscere l’esito di una soluzione
morfologica di matrice tardoantica ancora applicata nel VI e VII secolo,
seppure di solito con anse a bastoncello e non a nastro. Si dovrà solo
osservare che il repertorio lucchese si arricchisce – seppure in misura
marginale – di una forma aperta, che conserva il ruolo degli alvei ceramici del sistema del VI secolo[9], ignota ai contesti dell’Alta Valle.
I materiali dell’Aiaraccia – che potranno
essere riferiti ad uno degli insediamenti altomedievali noti nel territorio di
San Romano, oggetto di una rinnovata ricognizione documentaria e toponomastica[10] – replicano puntualmente le tipologie
osservate dai recuperi di superficie nella valle dell’Edron, all’altezza di
Vagli-Bivio, negli anni Novanta (fig. 3, A), in associazione a cospicue
testimonianze della metallurgia del ferro: scaglie e schegge di ematite apuana
(fig. 3, B, 1-2); scorie di prima lavorazione, fra le quali spicca un esemplare
con il caratteristico ‘fondo a calotta’ che si forma sul fondo della fossa di
forgia (fig. 3, B, 3)[11].
Sia nel particolare trattamento del labbro
dell’‘orciolo’ (fig. 3, A, 1), che nel sistema decorativo con fasce in rosso
(fig. 3, A, 2-3), nell’applicazione di stampigliature sull’ansa (fig. 3, A, 4),
infine nella morfologia delle olle, globulari, con labbro breve o pressoché
diritto (fig. 3, A, 5), i tipi di Vagli-Bivio coincidono con quelli dell’Aiaraccia.
Anche per la coerenza delle caratteristiche del corpo ceramico, con i tipici
inclusi sabbiosi e la colorazione di regola bruno-chiara, paiono dunque
suggerire l’attività di un vasaio – o di un gruppo di vasai – che applicano
alle esigenze degli insediamenti altomedievali dell’Alta Valle, con proprie
cifre, il sistema corrente nell’intera Toscana, e in particolare a Lucca, fra
VIII e IX secolo. Per convenzione, potremmo definire questa produzione ‘tipo
Vagli-Bivio’, e farne l’equivalente cronologico del ‘tipo Galli Tassi III’ di
Lucca[12].
Come per questo ultimo, non si avvertono
innovazioni prima del X secolo. In città lo testimonia la sequenza
stratigrafica dell’area Galli Tassi, scavi 2002, suggellata da un ripostiglio
interrato nel 964[13], mentre in Garfagnana, se sono sin qui
assenti contesti che consentano di mettere a fuoco eventuali evoluzioni dei
tipi ceramici prima dell’esplosione dell’incastellamento, al volgere fra IX e X
secolo, le restituzioni della Capriola di Camporgiano paiono indicare che
ancora nelle fasi iniziali dell’incastellamento, nei decenni intorno al Mille,
non era avvertibile una cesura rispetto ai secoli precedenti, come indicano
soprattutto le tipologie delle olle, e l’eccezionale esempio di anforetta, che
trova a Vagli-Bivio un puntuale parallelo (fig. 3, A, 5)[14].
Un inedito contesto da Cima La Foce, che
restituisce minuti frammenti di ceramiche ‘tipo Vagli-Bivio’ e un denaro pavese
di Ottone II (fig. 4, A)[15] è un ulteriore indizio – seppure con l’obliqua
evidenza dei materiali non recuperati in stratificazioni sigillate – dei tratti
decisamente conservativi in questi aspetti della vita quotidiana della
Garfagnana ancora alle soglie dell’XI secolo.
Benché dunque siano stringenti gli indizi
che riferiscono all’avanzata età longobarda o al IX secolo l’abitato da cui si
formarono i detriti finiti nelle concavità dell’Aiaraccia o furono attive le
aree metallurgiche di Vagli-Bivio, non è da escludere una più lunga durata di
questa tradizione ceramica, ancora fino alle soglie dell’anno Mille, e, di
conseguenza la datazione dell’attività mineraria e di prima raffinazione del
ferro cui questi insediamenti sono spesso associati.
Le dimensioni dello sfruttamento delle
risorse ferrose delle Apuane – già scarsamente appetibili nell’Ottocento[16], ma del tutto soddisfacenti per le esigenze
della società e dell’economia altomedievale – emergono in maniera
impressionante dalle ricerche di superficie ancora in atto nell’area di Roggio
e di Casatico, tra i Comuni diu Vagli Sotto e Camporgiano (fig. 1, A), e che
sono integrate da una metodica ricognizione nella toponomastica[17]; è al momento è questa, in effetti, il più
solido indice della continuità dell’insediamento tra età imperiale e Alto
Medioevo.
Isolate restituzioni archeologiche, come un’armilla
in bronzo da Rocca Alberti (fig. 4, B) – di incerta collocazione cronologica
nella linea evolutiva del tipo che dalle redazioni tardoantiche cui sembra
contigua per la distinzione del capo[18] giunge fino agli esemplari con estremità
espanse peculiari del VI e VII secolo[19] – poco aggiungono ad uno scenario in cui si
prospetta la solidità di un sistema di insediamenti assistito da una rete
itineraria ugualmente ben documentata dalla toponomastica di matrice romana.
Infine, ancora lo strato toponomastico propriamente longobardo, sul quale si
sta gettando progressivamente luce per l’intera Garfagnana[20], conferma la continuità della rete di
insediamenti sparsi fino ai secoli dell’Alto Medioevo finalmente testimoniati
dalla diffusione delle ceramiche ‘tipo Vagli- Bivio’.
A Roggio (fig. 1, A; 4, C) pressoché tutti i
terrazzi a coltura – e quindi accessibili alla ricerca di superficie – a est
dell’attuale agglomerato restituiscono tracce di attività metallurgica, nella
consueta forma di schegge di ematite e di resti della prima attività di
raffinazione (fig. 4, E), in associazione a ceramiche ‘tipo Aiaraccia’: olle
(fig. 4, D, 1); ‘orcioli’, con la caratteristica morfologia del labbro (fig. 4,
D, 2). Un frammento di ansa a bastoncello, di schietta tradizione tardoantica
(fig. 4, D, 3), parrebbe semmai un indizio a favore di una cronologia precoce,
ancora nel secolo VII, della fase iniziale di frequentazione dell’area[21].
Anche tra Casatico e Vitoio (fig. 1, A; 5,
A) le attività metallurgiche si distribuiscono sui ripiani che già avevano
conosciuto l’insediamento d’età romana, accompagnando un rinnovato sfruttamento
agricolo che potrebbe andare di pari passo con le attività di disboscamento;
queste, d’altronde, mettevano a disposizione la materia prima per il primo
trattamento del minerale, il legname da ridurre in carbone. Ovviamente rimane
aperto – anche in relazione allo status
delle risorse minerali e per l’assenza di documenti in merito – il contesto
giuridico-ammistrativo in cui l’attività minerario-metallurgico si svolgeva; le
memorabili pagine dedicate da Riccardo Francovich e Roberto Farinelli a delineare una complessa strategia di
ricerca sull’evidenza archeologica della metallurgia altomedievale[22] pongono domande alle quali si aggiungono
ora anche quelle sollevate dagli insediamenti della Garfagnana che provvedevano
alla trasformazione del minerale in semilavorato. Questo poteva alimentare sia
le attività dei fabbri d’area urbana, che quelle collegate alle strutture delle
curtes, ben documentate – anche per
una struttura pertinente al vescovo di Lucca – alla cospicua serie di obblighi
alla fornitura di manufatti in ferro che risalta dagli inventari altomedievali[23].
Villaggi
e chiese nei secoli centrali del Medioevo: riflessioni sui capitelli del Sant’Agostino
di Vagli
Pur con le riserve appena descritte, il dato
archeologico permette comunque di integrare il quadro dell’economia e della
società della Garfagnana altomedievale quale emerge dai documenti arcivescovili
di Lucca con il ruolo non marginale che dovette avere la disponibilità del
minerale apuano, capace di indurre un vero e proprio distretto produttivo nel
bacino dell’Edron ma anche – come progressivamente emerge dalle ricerche in
atto, in particolare nel territorio di San Romano – in vasti settori della
valle.
Più volte si è segnalato, per Lucca, che ai
tratti conservativi della produzione ceramica corrispondono, nei secoli dell’Alto
Medioevo, dall’VIII all’XI, aspetti non meno legati al tenace rispetto delle
tradizioni nelle tecniche costruttive, e una lentissima evoluzione anche nelle
arti figurative[24].
I frammenti scultorei recentemente
recuperati a Vitoio (fig. 5, B-C)[25], con la sequenza di crocette ancora
eccellentemente leggibili, ripropongono il tema della lunga conservazione di
formule iconografiche e cifre stilistiche proprie della scultura altomedievale,
sino all’XI secolo, posto dalla recensione dei rilievi della Garfagnana dovuta
ad Augusto Ambrosi[26], e dalle successive acquisizioni.
Non meno inquietanti dei rilievi di spoglio
di Careggine (fig. 1, A), nella cui decorazione con cerchi allacciati (fig. 5,
D) è ineludibile la suggestione di riconoscere un relitto del San Pietro
fondato nel secolo VIII dalla famiglia del vescovo di Lucca Peredeo[27], sono i capitelli in opera in uno dei più
suggestivi monumenti del romanico di Garfagnana, il Sant’Agostino di Vagli
(fig. 1, A), nel cuore del distretto metallurgico in cui è forte la suggestione
di cercare in testimonianze architettoniche e artistiche un’eco del complesso
tessuto insediativo altomedievale ora tratteggiato dal dato archeologico (fig.
6)[28].
I due capitelli, segnati alla base da un
collarino reso con un cordone plastico, e lisci su due facce, distribuiscono su
due lati contigui, in distinte figurazioni, due soggetti zoomorfi spesso
associati nell’iconografia altomedievale, come attesta anche nel territorio
lucchese il rilievo dei decenni centrali del secolo VIII giunto da San
Concordio a Villa Guinigi[29]: il leone e l’unicorno (fig. 6).
In questo caso, l’unicorno – divenuto già
nella Tarda Antichità simbolo cristologico, come hanno ampiamente illustrato le
ricerche del Bisconti e della De Maria sul bestiario altomedievale dell’area
aquileiese e veneta[30] – si muove in una vigna, riconoscibile come
tale per i poderosi grappoli che pendono da un tralcio filiforme posto sotto
una sequenza di tre rosette; la foglia di vite e il kantharos del modello iconografico, compiutamente reso ancora ai
primi del secolo IX nella base romana di Santa Prassede[31], sono invece divenuti meri riccioli (fig.
6, A). Nell’altro capitello un leone dalle fauci spalancate e dalla lingua pendente,
caratterizzato dalla coda desinente in un complesso girale che va a campire la
parte superiore del rilievo, è contrapposto ad una composizione geometrica che
comprende al centro un motivo a volute identico a quello da cui sorge, nell’altra
figurazione, il tralcio di vite; le rosette e il nastro che completano la
decorazione sono a rilievo entro campo ribassato (fig. 6, B).
I soggetti zoomorfi sono resi dal marmorario
attivo per Vagli con cifre stilistiche che sono eco non remota della pratica d’età
longobarda e carolingia, sia nelle soluzioni del rilievo, piatto e parallelo al
piano di fondo, che nei particolari – l’occhio o le scansioni anatomiche – resi
con una linea incisa[32]. L’esplorazione della scultura d’ambito
lucchese dei secoli centrali del Medioevo condotta da Annamaria Ducci per
comporre la griglia stilistica ed iconografica cui riferire l’enigmatico
monumento di Gello di Camaiore[33] ha potuto far conto anche sui capitelli di
Vagli, inserendoli nella piccola serie che precede comunque le forma pienamente
romaniche; i temi a rilievo su campo ribassato che si affacciano sul capitello
con leone, in particolare, sono coerenti con la pratica del marmorario cui si
deve questo enigmatico monumento.
Davanti alla continuità delle tradizioni
scultoree o alla vera e propria operazione di recupero di temi iconografici e
stilistici altomedievali che connota i decenni centrali del secolo XI anche a
Lucca[34], occorrerà notevole prudenza per evitare di
cedere alla suggestione di cogliere nei rilievi dei capitelli di Vagli un’immagine
delle vivaci comunità di cercatori di minerali e di metallurghi attivi nel
territorio nell’Alto Medioevo. Certo lo stile, ormai decisamente romanico,
delle fiere che generano tralci sulla lunetta di Santa Maria di Brancoli,
datata al 1095[35], offre un convicente terminus ante quem per le figurazioni del Sant’Agostino.
Nell’enigmatico quadro dell’insediamento
altomedeievale nel territorio di Vagli proposto dalle scarne menzioni di Vallis nei documenti già del secolo IX[36] non è naturalmente possibile né attribuire
i due elementi architettonici ad una prima redazione dell’edificio nel quale
sono oggi in opera, né ipotizzarne il recupero da altri edifici ecclesiastici,
come la perduta chiesa di Santa Maria, forse riferibile al castello di Vagli[37].
Il
castello: il Castelvecchio di Piazza al Serchio tra indagini di scavo e fonti
documentarie
Castelli e incastellamento, già al centro di
due convegni, hanno di nuovo conosciuto l’attenzione degli incontri di
Castelnuovo nel 2009[38]. Il completamento dell’attività sui
materiali permette di sintetizzare in questa sede i dati delle attività
diagnostiche condotte al Castelvecchio di Piazza al Serchio nel 2004, in
relazione all’impegno – avviato proprio in quell’anno dal Comune di Piazza al
Serchio e ormai prossimo alla conclusione – per il recupero e la valorizzazione
delle strutture monumentali di questo punto-chiave della Garfagnana, alla
confluenza dei due corsi d’acqua che generano il Serchio.
Le campagne di scavo che hanno assecondato i
lavori di recupero dei ruderi del castello, condotti a partire dal 2003-2004
(figg. 7-8)[39], hanno infatti consentito di delineare una ‘storia
archeologica’ dell’area, che per alcuni momenti storici – in particolare il XII
e XIII secolo – può essere percorsa in dialettico parallelo con quella che
propone la scarna, ma significativa documentazione conservata nell’Archivio
Arcivescovile (oggi denominato Diocesano) di Lucca.
Con l’altro pinnacolo di basalto della
Capriola di Camporgiano, e in sequenza con l’insediamento d’altura che a Pieve
San Lorenzo di Minucciano si dispone quasi ai confini tra Lunigiana e
Garfagnana, il Castelvecchio (fig. 1, A; 7) viene occupato in maniera stabile,
per la prima volta, in un momento avanzato del Bronzo Finale, da un abitato che
segna una tappa dell’itinerario transappenninico punteggiato anche da
ripostigli di bronzi, in modo particolare dalla diffusione dell’armilla ‘tipo
Zerba’[40]. Le sequenze cronologiche proposte per il
Protogolasecca, in effetti, consentono di riferire i contesti di Pieve San
Lorenzo, Castelvecchio, Camporgiano, alla fase conclusiva delle culture
padano-occidentali del Bronzo Finale (Protogolasecca 3), in sostanziale
contemporaneità con la rete di abitati di matrice ‘tirrenica’ che negli stessi
frangenti si dispone nel Valdarno Inferiore, da Stagno a Pisa, e nella Piana
dell’Auser, a Fossa Cinque di Bientina[41].
Di nuovo la rupe del Castelvecchio torna ad
essere occupata fra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C., quando pare
‘guidare’ le fasi iniziali della formazione del sistema di insediamenti
ligure-apuano nell’Alta Valle del Serchio[42], per essere infine trascurata a favore dei
terrazzi che lungo l’Acqua Bianca, forse sulla via publica registrata nel tardoantico Itinerarium Antonini come via
Luca Parmam[43], accolgono gli abitati d’età romana e
altomedievale sui quali nascerà la plebs
de Castello, esplorata nella sua estrema realizzazione bassomedievale nel
1983[44].
Il Castelvecchio appare già con questa
denominazione nella documentazione del XII secolo, sottoposta ad una minuziosa
revisione, con ampia edizione anche di carte inedite, dal Savigni nella sua
indagine sui rapporti fra episcopato lucchese e Garfagnana in età comunale[45].
Se l’atto del 1110 è, come risolutivamente
dimostrato dal Savigni stesso, un apocrifo prodotto nel Duecento per
ricostruire la storia della famiglia dei ‘Nobili di San Michele’, le
pattuizioni registrate nel 1179 a San Pietro a Vico (Vico Asulari), fra Guglielmo, vescovo di Lucca, Ugo conte di
Lavagna, e Cunimundo e Superbo, detto de
Castrovetere, dei Cunimondinghi, o filii
Guidi, permettono di entrare non solo nelle forme giuridiche con cui l’episcopato
lucchese gestiva i suoi diritti su un ampio tratto di Alta Valle che aveva il
cuore dove oggi si distende l’agglomerato di Piazza al Serchio, e sul castello
che ne tutelava il possesso, ma anche nella concreta articolazione degli spazi
del pianoro che si distende, alla quota di 578 m s.l.m, sulla sua sommità (fig.
7, A)[46].
Il titolo esibito da Superbo, de Castrovetere, rammentava
evidentemente i diritti sul sito già acquisiti nell’883 dal capostipite
Cunimondo[47], ma ancora nel 1164, quando il sito è
citato – per la prima volta nei documenti superstiti – come arx de Sala, Federico I riconosceva al
vescovo di Lucca pienezza di diritti sul castello[48], costruito con l’impegno delle curtes di Sala, Castelvecchio, San
Michele, San Donnino, (Monte) Croci («pro curte de Sala et in tota curte de
Castrovetreri sive in curtibus illarum terarrum et castrorum ex quibus Castrum
Vetus edificatum est, videlicet de Sancto Michaele et Sancto Donnino et de
Cruci»).
Con l’atto del 1179, dunque, il vescovo
ribadiva il suo ruolo di primazia nel rapporto con la consorteria dominante nel
territorio, riservandosi i due terzi del dongione,
castello e poggio di Castelvecchio – nel lato settentrionale, come
esplicita l’atto – e concedendo al conte di Lavagna e ai signori di San Michele
il rimanente terzo, ritagliato nel versante meridionale della rupe. A questi
viene riconosciuto il diritto di edificare una torre, alta non più di quaranta
braccia – dunque quasi 24 m, al braccio lucchese di circa 59 cm, decisamente
rilevante per l’area e per l’epoca – e la possibilità di subentrare in una
parte dell’area di competenza vescovile, se questa fosse rimasta non locata, di
lì ai dodici anni successivi.
È probabilmente alla scadenza di questa
pattuizione, o piuttosto di una successiva di ugual durata, che dopo
venticinque anni, nel 1204, l’accordo viene riformulato, stavolta con il
vescovo Roberto da una parte e la sola consorteria dei signori di San Michele
dall’altra. Per il vescovo è prevista la possibilità di costruire non solo una
torre – diritto confermato anche ai signori di San Michele – ma anche «domos
habitabiles citra murum et extra dolionem», per «tot familias quot sunt apud Salam
vel plus ad voluntatem episcopi»: all’esterno del castello è dunque possibile
costruire un borgo, in cui insediare le famiglie dei fideles del vescovo[49].
L’esplorazione estensiva del pianoro sommitale del Castelvecchio, definito da un circuito murario che segue il ciglio tattico (fig. 7, B; 8, A) e si apre con una porta sul lato meridionale – visibile in uno stipite (fig. 9, A) ancora sulla fine del Novecento, e poi andata perduta – e una postierla in quello settentrionale (fig. 9, B-C)[50], ha messo in luce strutture e stratificazioni ben datate fra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo, sia grazie alle indicazioni ormai offerte dai tipi ceramici, sia per l’evidenza numismatica[51], che offrono la possibilità di valutare concretamente gli scenari suggeriti dai due documenti appena citati.
Il circuito castellano – ampiamente
sviluppato in elevato nei lavori del passato decennio, sì da farne di nuovo un
segno del paesaggio (fig. 8, B) – è riferibile nel suo perimetro all’impianto
del XII secolo, ma già aveva ricevuto un primo restauro nel Quattrocento,
quando per qualche tempo gli Estensi progettarono di fare della rupe del
Castelvecchio un caposaldo della loro strategia di controllo con fortificazioni
della Garfagnana appena acquisita. Come appare dalla lettera del marchese di
Ferrara ancora affidata all’edizione del Pacchi[52], la strenua opposizione del vescovo di
Lucca, che pur nella perdita del potere politico della città su gran parte
della Garfagnana vigilava risolutamente alla salvaguardia dei propri antichi
diritti signorili sul territorio di Piazza[53], impedì che il progetto estense procedesse.
I lavori vennero dunque abbandonati quasi subito, e uno schizzo di Francesco
Porta del 1558[54] permette di apprezzare lo stato di
abbandono in cui la cinta muraria del Castelvecchio rimase, mentre Camporgiano
e le Verrucole completavano, con Castelnuovo, capoluogo amministrativo del
territorio, il ‘triangolo’ di rocche che – con strutture satelliti di minore
impegno – entro la fine del secolo formò il ‘nocciolo’ della rete di
fortificazioni, integrata nella seconda metà del Cinquecento da Montalfonso e
sopravvissuta fino all’età napoleonica[55].
La tecnica muraria, nonostante la continuità
nell’impiego del ciottolo fluviale per il paramento esterno del corpo cementizio
che la sostanzia veli le distinzioni tecniche, permette di distinguere i
ricorsi delle mura bassomedievali, caratterizzati dalla presenza prevalente di
ciottoli sbozzati – regolarmente sulla faccia in vista nel paramento e spesso
anche in quelle laterali – e dalla disposizione per filari tendenzialmente
regolari e comunque orizzontali (fig. 10, A, 30: 1), da quelli che ad essi si
sovrappongono, affidati a ciottoli regolarizzati per spacco solo sulla faccia
esterna, di dimensioni eterogenee, integrati da schegge e tasselli per guidare
l’orizzonte di posa dei ricorsi (fig. 10, A, 30: 2). È immediato attribuire questa fase dell’apparato murario all’effimero
ed incompiuto recupero quattrocentesco, a cui dovrebbero, di conseguenza,
essere riferite anche le finestrelle e le feritoie – arciere o balestriere –
ancora conservate nel tessuto murario (fig. 9, D-E) e infine ampiamente
restaurate (fig. 8, A-B).
Il dato stratigrafico conferma invece la
datazione bassomedievale della tecnica (1) fra XII e XIII secolo. L’ordito
delle mura, infatti, pur senza ammorsarvisi, è coerente con quello con cui è
realizzato nun ambiente (A: fig. 7, B; 10) che ad esse (30) si addossa, nel
settore sud-occidentale dell’area castellana la cui esplorazione ha concesso
preziose indicazioni.
Il vano, sub-trapezoidale, largo tra i 5 e i
5,5 m, lungo 7,2, è chiuso a settentrione da una struttura (40) realizzata a
faccia vista all’interno, in trincea rispetto alla roccia di base sul lato
opposto; a ovest dal muro 41, fondato e appoggiato sulla roccia di base; a sud
dalla struttura 45, di spessore leggermente inferiore rispetto alla parete
settentrionale (75 cm, contro gli 80 dell’altra), in cui è ben riconoscibile
una superficie di decapitazione (44). L’ambiente era dunque depresso rispetto
al piano di vita esterno, e vi si accedeva da un’apertura risparmiata nel
settore occidentale del lato meridionale, presto tamponata (53).
Lo scavo ha messo in luce una complessa
sequenza stratigrafica, alla cui base è un sottile sedimento (49)
caratterizzato da pietrisco centimetrico di basalto e da terriccio fine,
nerastro per la componente organica, forse di foglie o paglia, vista l’assenza
di carboni (fig. 10, C), formatosi sulla superficie (50) di spianamento del
pietrisco di base (51) e della stessa roccia viva (52), e da una successione di
riporti (fig. 10, B-C).
È possibile distinguere nei livelli
inferiori uno strato di scaglie eterogenee con qualche pietra (47); su questo,
un riempimento sciolto (48), caotico, di pietre e pietrisco, con sabbia, calcinacci
o sfatticci di mura, scaglie da spacco di pietre, terriccio, e alcune schegge
di blocchi squadrati (46), probabilmente formato dalla demolizione di strutture
murarie. Infine, un orizzonte di terreno marrone, sciolto, composto da
pietrisco con terriccio, sabbia, ciottoli, malta sfatta, scaglie di pietra,
suggella e livella l’edificio (43), andando a sovrapporsi anche alla parete
meridionale (45), nettamente tagliata.
Un corposo letto di malta, che aggetta dal
filo della parete (42), copre la sequenza dei livellamenti, e segna il limite
dello zoccolo presistente a partire dal quale si provvide alla ricostruzione
delle mura, con una tecnica sottilmente, ma manifestamente distinguibile da
quella medievale. I sedimenti finiti all’interno dell’ambiente, e quelli
esplorati immediatamente all’esterno (90-93) sono infatti omogeneamente
caratterizzati da materiali ceramici e monete che ne pongono la formazione nel
corso del XIII secolo.
L’olla d’impasto con minuti inclusi
sabbiosi, con corpo ovoide e labbro modanato (fig. 12, 5; 13, 7), inglobata nel lato
meridionale della struttura 45 è tipo conosciuto a Lucca, in Garfagnana e
ancora nel Valdarno in contesti duecenteschi[56]. Poco aggiungono il bicchiere in vetro con
fondo convesso (fig. 15, A, 1), dalla US 51; un contesto da Pieve Fosciana la
cui datazione fra avanzato XII e inizi del XIII secolo ha il conforto delle
associazioni numismatiche, testimonia l’ampia diffusione del vetro nella
Garfagnana del Basso Medioevo[57]. Fra le restituzioni ceramiche dallo strato
90 spicca un frammento di forma aperta d’importazione magrebina (fig. 15, A,
2), verosimilmente tunisina, con decorazione in blu di cobalto e manganese,
classe diffusa – sia pure in misura marginale – anche a Lucca e nel territorio
nel corso del Duecento[58].
Una sola altra struttura (B) è stata
individuata ed esplorata all’interno del perimetro castellano, ancora
leggermente spostata verso la metà meridionale (fig. 7, B; 11). L’ambiente,
scavato nella roccia di base per una profondità di poco superiore al metro, con
pianta subrettangolare (lati maggiori di 4,4/4,2 m, minori di 3,2/3,1), ha
pareti con un paramento di ciottoli e schegge, la cui irregolarità – tanto nell’allestimento
della materia prima che nella disposizione dei ricorsi – avrebbe dovuto essere
celata dall’intonaco di malta idraulica, la cui stesura tuttavia fu solo
iniziata. Il tritume di laterizi che è parte dei livelli di riempimento
indicherebbe infatti che nelle adiacenze si iniziò almeno a preparare un ‘cocciopesto’
di rivestimento, che tuttavia non fu mai messo in opera.
La struttura deve essere ragionevolmente
interpretata come cisterna, forse mai completata, ma che poteva comunque essere
utilizzata grazie alla impermeabilità della roccia in cui era stata scavata.
Una congettura suggestiva, ma assolutamente priva del conforto di dati di
scavo, è che la cisterna fosse stata predisposta in funzione della successiva
costruzione di un edificio (una torre?) che avrebbe potuto inglobarla al suo
interno, garantendo alla struttura l’indispensabile autonomia idrica.
Nelle pareti è riconoscibile una superficie
di spoglio (3) che potrebbe essere riferita ad epoca rinascimentale dai
frammenti di ingobbiata e graffita cinquecentesca presenti nello strato che la
copre (2), suggellando il completo riempimento della struttura. Questo (fig.
11, B) è stato asportato per tagli successivi, che hanno permesso di
distinguere – dall’alto verso il basso –
terriccio con pietrisco (4a), che associa materiali medievali e
rinascimentali, e copre il paramento della parete settentrionale e di quella
orientale; pietrisco di basalto (4b) con abbondanti ciottoli e schegge di
lastre di arenaria; terriccio sabbioso con pietrisco minuto (4c); infine, alla
base (4d), un livello eterogeneo, di corpi lenticolari spesso intrecciantisi.
La distribuzione dei frammenti ceramici
pertinenti agli stessi capi nei vari tagli e la morfologia dei successivi
apporti dichiarano la sostanziale omogeneità dell’opera di livellamento della
struttura B, conseguita attingendo a stratificazioni formatesi all’esterno dell’area
castellana, sbancate per colmarla, dopo che sul suo pavimento, a contatto con
lo zoccolo di roccia su cui si fondano le pareti, si erano già sedimentati due
sottili livelli (5-6) di terriccio e pietrisco.
I materiali ceramici restituiti dallo strato
4 sono coerenti con le sequenze tipologiche oggi disponibili per la Garfagnana
e il territorio lucchese, fra XII e XIII secolo, come attesta in maniera
esemplare il boccale d’argilla fine con minuti inclusi sabbiosi restituito da
frammenti distribuiti nei vari tagli (fig. 12, 1; 13, 3). Con corpo ovoide,
fondo piano, collo appena distinto, ansa a nastro impostata poco sotto il
labbro e sul punto di massima espansione del corpo, aderisce al tipo egemone
nel citato contesto di Pieve Fosciana, ma ricorre negli stessi decenni anche a
Lucca e nel Valdarno[59].
Se si esclude la modesta presenza di residui
riferibili ad un orizzonte altomedievale ‘tipo Vagli-Bivio’, anche il complesso
dei materiali restituiti dai due saggi – come sottolineano le non episodiche
presenze di monete – è coerente con le tipologie duecentesche già note nella
Garfagnana della prima metà del Duecento.
Boccali e olle quasi esauriscono il
repertorio ceramico, i primi nella redazione esemplificata dal tipo dello stato
4 (fig. 12, 2), le seconde prodotte in un impasto ‘vacuolato’ per dissoluzione
di inclusi calcitici, nelle versioni con corpo ovoide, labbro estroflesso,
talora semplicemente arrotondato (fig. 12, 3; 13, A, 5) o con l’orlo tagliato a
spigolo vivo (fig. 12, 4: 13, A, 6) che prelude all’evoluzione morfologica che
porta alle versioni modanate ‘a becco di civetta’ (fig. 12, 5; 13, A, 7), o con
labbro diritto ingrossato (fig. 12, 7) che connotano gli orizzonti della prima
metà del Duecento[60]. Da segnalare la redazione miniaturistica,
dallo strato 4 (fig. 12, 8), e la presenza del tegame, forma non rara nei
contesti duecenteschi della Toscana nord-occidentale, ma inconsueta in
Garfagnana[61].
Alcuni aspetti della vita quotidiana, legati
in modo particolare all’attività di guaita del castello, emergono da altre
restituzioni.
La presenza di punte in ferro, di varie
dimensioni, per frecce da arco o dardi da balestra (fig. 14, 1), in un caso
forse deformate dall’urto con una superficie solida (fig. 14, 2), è usuale nei
castelli duecenteschi del territorio[62]; la lama di piccolo coltello appartiene a
un manufatto di uso corrente, anche nella pratica della mensa[63].
La presenza di arredi o attrezzature in
legno è indicata dai chiodi per ferratura, nella versione di piccolo formato
con testa schiacciata ‘a chiave di violino’ (fig. 14, 4)[64], e in quelli di formato decisamente
maggiore, con capocchia subquadrangolare o circolare, stelo a sezione quadrata
(fig. 14, 5); la chiave bernarda con presa anulare (fig. 14, 6) è probabilmente
pertinente ad una serratura da porta, piuttosto che da cassetta[65].
L’uso di cavalcature lascia traccia nei
frammenti di ferri equini (fig. 14, 7) e probabilmente anche negli anelli per
bardatura, subcircolari (fig. 15, 9) o semicircolari (fig. 14, 8)[66].
L’abbigliamento personale è testimoniato
dallo spillone in bronzo con capocchia poliedrica campita da occhi di dado
prodondamente impressi (fig. 15, 1) e dalle fibbie – per cintura o per
calzatura – in bronzo, con ardiglione mobile in ferro, o in ferro con
ardiglione in bronzo (fig. 15, 2)[67]; un pendente in bronzo (fig. 14, 9; 15, 3)
potrebbe essere un terminale di cintura[68].
Le lamine in verga di bronzo con doratura
provviste di espansione circolare pervia (fig. 14, 10; 15, 5), stando ad una
brillante ipotesi[69] potrebbero essere interpretate come
elemento metallico di chiusura di scarselle. Ad attività che richiedevano la
protezione delle dita – non necessariamente alla cucitura, come nell’uso
moderno – erano infine funzionali i ditali in lamina di bronzo ripiegata,
campiti da picchiettature (fig. 15, 8)[70].
Alcuni manufatti restano di interpretazione
dubbia, come un elemento in ferro con dente di ritegno (fig. 14, 6), o
generica, come le lamine in bronzo funzionali al rivestimento di oggetti in
altro materiale (fig. 14, 12; 15, 6-7).
Come le fuseruole fittili (fig. 13, 4; 14,
14), le lastre d’arenaria opportunamente ritagliate sì da acquisire una
morfologia tendenzialmente subcircolare, di varie dimensioni (fig. 12, 10),
sono una presenza usuale – ancorché di interpretazione incerta – nei contesti
medievali della Garfagnana[71].
Il gioco – fondamentale diversivo nei lunghi
periodi della guardia – lascia traccia nel dado d’osso finito proprio a
contatto con la roccia di base nell’edificio A (fig. 13, C)[72] e nella pedina cilindrica con faccia
superiore semisferica in cui è immediato riconoscere un pedone per gioco degli
scacchi, nella redazione aniconica che connota i tipi fino al XIII secolo[73]. Gioco ‘d’azzardo’ e gioco ‘di sapienza’,
come nella prassi affidata all’iconografia del mosaico di San Savino a Piacenza[74] si alternavano dunque nella vita delle
guaite, forse talora integrandosi, se questi sono gli anni in cui l’impiego dei
dadi per disciplinare le mosse sulla scacchiera è pratica diffusa. Proprio nel
gioco potrebbero essere andate perdute le monete che – come si è detto – sono
un tratto distintivo e risolutivo, anche per la cronologia, dei contesti del
Castelvecchio.
Dall’indicatore archeologico sembra dunque evidente che negli
anni in cui il vescovo e i suoi interlocutori registravano le pattuizioni per
il Castelvecchio, la arx o rocha de Sala – denominazioni
alternative per la struttura castellana, in riferimento alla sottostante Sala, ‘cuore’
della gestione economica della curtis
– era un semplice circuito murario che definiva la sommità della rupe, con
strutture adatte ad un ruolo ‘di rappresentanza’, non certo poliorcetico. Le
torri previste dai documenti del 1179 e del 1204 rimasero una potenzialità
giuridica mai concretata, si direbbe neppure necessaria in un contesto in cui il
castello era poco più di una muraglia che incorniciando una vetta ben visibile
da larga parte dell’Alta Valle ne faceva il segno del potere signorile, il
luogo fisico in cui ‘rappresentare’, agli attori e agli spettatori (i fideles), la consociazione di interessi
di consorterie locali e di un potere relativamente remoto, quale quello del
vescovo di Lucca, nel gioco di equilibri che le pagine del Savigni delineano
con ricchezza di particolari nel Duecento della Garfagnana.
Se si dovesse prendere alla lettera il
documento del 1179, le due sole strutture che occupavano la vetta del
Castelvecchio – il dongione –
parrebbero disposte nel settore di pertinenza dei beneficiari del vescovo,
meridionale, quasi che a loro competesse l’effettiva cura delle pur esigue
potenzialità ‘militari’ della rocca, o fossero i soli interessati a completare
la rete di strutture castellane di loro competenza, da San Michele a San
Donnino, sfruttando la facoltà riconosciuta dal patto del 1179. La cisterna,
pur nella sua realizzazione come semplice vasca, è indispensabile ad assicurare
una pur modesta autonomia alle guaite che potevano trovare ricetto nell’ambiente
addossato al lato sud-orientale della cerchia, un edificio le cui pareti hanno
uno spessore certamente inadatto a farne una torre, ma sufficiente a farlo
comunque spiccare oltre le mura castellane, sì da imporsi – integrato
eventualmente da un apparato ligneo – a chi veniva da Lucca, risalendo sulla
sinistra del fiume, e a San Donnino – al limite meridionale della curia controllata dai ‘nobili di San
Michele’[75], i filii
Guidi – poteva immediatamente riconoscere il centro di potere del
territorio in cui stava entrando.
Come emerge dagli atti per Sala e
Borsigliana del 1255, voluti dal vescovo Guercio, con i quali gli uomini dei
due villaggi ‘rimodularono’ i loro obblighi verso l’episcopato, mantendendo
quelli ‘militari’, ancora dopo la metà del Duecento i fideles della curia erano tenuti all’obbligo delle guaite, la cui
immagine archeologica è evidente nelle restituzioni delle stratigrafie[76].
Si potrà semmai valutare se anche in questi
anni, mentre lo stato territoriale lucchese si stava consolidando anche in
Garfagnana, ridimensionando progressivamente i relitti delle strutture
signorili, la guardia al castello che sembra ormai tornato nel controllo
esclusivo del vescovo fosse un’ipotesi teorica, da conservare negli atti
giuridici, piuttosto che una concreta esigenza; sullo scorcio finale del secolo
comunque il dato archeologico certifica che le strutture sono abbandonate e
livellate di macerie.
Concludendo, alla straordinaria varietà dei
tipi di castelli, minuziosamente analizzati per la Garfagnana dalla Giovannetti[77], i documenti e di dati di scavo del
Castelvecchio/rocha de Sala
aggiungono il concreto caso di un castello nato e vissuto, forse per pochi
decenni, come testimone di pietra dell’intreccio di ruoli fra vescovo e
famiglie ‘egemoni’ nell’Alta Valle, per eclissarsi infine con l’affermazione
definitiva del Comune di Lucca nella Garfagnana.
Ancora al ruolo minore di ‘segno del potere’
vescovile in questo lembo di Garfagnana si deve, verosimilmente, l’assenza del
Castelvecchio, seppure ancora citato come rocha
de Sala nei documenti della metà del Trecento[78], nella struttura militare della Garfagnana
lucchese del Tardo Medioevo, perfettamente ricostruibile con la documentazione
d’archivio più ancora che con l’evidenza monumentale[79].
Da questa sua connotazione scaturì forse l’impegno
con cui, nell’ottobre del 1445, gli abitanti della contrada, dissoltosi il
potere lucchese, si diedero a demolirlo[80], per poi doverlo di nuovo ricostruire, sia
pur senza giungere ad alcun risultato per l’effetto dei reclami del vescovo di
Lucca e per l’intervento del Pontefice, qualche anno dopo[81].
I
paladini: divagazioni e suggestioni per il rilievo di Careggine
Come per l’Alto Medioevo si è tentato di
ricercare nei rilievi di Vitoio o di Vagli immagini da affiancare a quella
proposta dal dato degli insediamenti metallurgici, così non si può sfuggire
alla suggestione di giustapporre al dato di scavo dei castelli una delle più
enigmatiche testimonianze figurative della Garfagnana medievale: il rilievo
ancora inserito nel campanile della chiesa di Careggine, oggetto di ripetuto
interesse (fig. 16, A-B)[82].
I dati d’archivio della Soprintendenza per i
Beni Archeologici per la Toscana[83] confermano che la lastra fu ritrovata nel
maggio del 1923, e salvata – appunto – con il reimpiego già osservato l’anno
successivo dal Soprintendente Edoardo Galli, quando poté finalmente procedere
al sopralluogo di controllo della segnalazione, dovuta all’Ispettore Onorario
di Castelnuovo.
La nota da Castelnuovo Garfagnana del 28
giugno 1923, con cui l’Ispettore Onorario per i Monumenti, Giovanni Giorgi,
comunica il ritrovamento, è sintetica ed esauriente: «Mi viene riferito che nel
paese di Careggine, comune di Garfagnana, nelle adiacenze del campanile, è
stato scoperto un sarcofago antico scolpito. Ne ignoro l’importanza artistica e
l’epoca, ma perché non debba andare perduto o rimosso, anche ciò che può
contenere, l’avverto subito acciocché Ella possa prendere i provvedimenti del
caso. Io a buon conto ho scritto al Sindaco del paese pregandolo di occuparsene
e sentiremo che cosa risponderà.
Si deve attendere non poco perché il
Soprintendente Galli possa provvedere al sopralluogo. Il 4 agosto 1924 infine –
pochi giorni dopo il viaggio a Careggine – dà conto del suo sopralluogo in una
missiva indirizzata, per competenza, al «R. Soprintendente per l’Arte (Galleria
degli Uffizi)». Dopo aver fatto cenno alla segnalazione del Giorgi, il Galli si
addentra nell’analisi delle circostanze del ritrovamento e della figurazione:
«Il monumento in questione, per sottrarlo
alle ingiurie dei ragazzi del paese, era stato intanto murato dietro il
campanile, dalla parte della strada; ma non trattasi di sarcofago, sibbene di
una lastra rettangolare, che potrebbe aver costituito il fronte di un
sarcofago.
Per verificare la cosa occorrerebbe però
togliere dal muro la lastra, ed esaminarla a tergo.
Il lastrone in parola non è di marmo, ma di
un calacre molto compatto, di color giallognolo, e misura m. 1,55 di lunghezza;
m. 0,68 in altezza; e circa 7 centimetri di spessore[84]: lo spigolo destro superiore è perduto.
Il lastrone fu scoperto nel Maggio del 1923
a ridosso della chiesa, e copriva in senso normale, cioè con la parte rilevata
volta all’esterno, una specie di loculo, ad una certa altezza da terra e
nascosto da una scala, il quale conteneva uno scheletro benissimo conservato.
L’interesse principale di questo monumento è
costituito però dalla strana ed oscura figurazione che porta scolpita a
bassorilievo.
Come mostra la fotografia da me eseguita e
che allego [= fig. 16, A], la scena
consiste di due sommarie figure di prospetto, rese con concezione e tecnica del
tutto infantile, con una prospettiva rudimentale ed errata, con caratteri e
particolari insomma che pur non trovando riscontri nella scultura dell’età
classica, suscitano vivo interesse, perchè denotano un’arte decadente con
ritorno a concezioni ed a schemi primitivi.
È probabile quindi che si abbia in questa
scultura un tentativo artistico del periodo barbarico o dell’età romanica[85].
Nell’intenzione dell’artista i due
personaggi sono differenziati per il sesso: quello a destra, evidentemente
maschile, è nudo, e nella mano sinistra alzata stringe una lancia; mentre l’altro
– femminile – veste una specie di camicia aperta sul petto e fra le anche, e
con la destra pure alzata impugna una spada, ora quasi del tutto perduta ma
avente la caratteristica guardia ad S, ignota nelle armature greco - etrusche e
romane.
Le teste di entrambi i personaggi sono
tondeggianti e piatte senza i particolari dei capelli; quella della donna
mostra, ad un piano inferiore, le orecchie grandi e deformi; gli occhi sono
circolari ed infossati; il naso quasi rettangolare; il taglio orizzontale della
bocca pure infossato. Queste due strane figure hanno i piedi divergenti sulla
medesima linea prospettica, e portano grosse scarpe contadinesche di tipo non
classico.
Sebbene i due personaggi, evidentemente
antitetici per le armi che impugnano e per il sesso, si tengano per mano (la
mano sinistra alzata della donna stringe infatti quella dell’uomo), è certo
tuttavia che essi esprimano una reciproca minaccia e stiano per azzuffarsi.
Quale possa essere il recondito significato
di tale lotta non resta agevole capire: è probabile che si tratti di una
rappresentazione allegorica, però concepita e resa in schema ben definito.
Nessuna traccia infatti notai sul lastrone
che potesse far pensare ad altri elementi concomitanti e poi abrasi.
Tanto ho creduto opportuno e doveroso di
riferire alla S.V. per i provvedimenti che crederà di adottare al riguardo,
aggiungendo – per norma di codesto Ufficio – che il parroco della schiesa di
S.Pietro in Careggine è il rev. Don Domenico Bertolini».
A parte il fascino del tormento esegetico
che il rilievo di Careggine indusse nel Galli, la relazione poco aggiunge a
quanto sin qui noto, ma conferma che il rilievo non ha subito perdite – se si
esclude qualche incisione – nel novantennio trascorso dal ritrovamento. È
altrettanto evidente che la lastra, seppure ritrovata in opera in una
sepoltura, non era parte di un ‘sarcofago’, a meno che questo non fosse formato
da più lastre indipendenti; d’altronde, non è da escludere che la collocazione
in cui fu ritrovata nel 1923 non fosse originaria, mentre la perfetta
conservazione del rilievo, e la posizione stessa della lancia esibita dal
personaggio di destra, che segue esattemente la linea obliqua dell’angolo
superiore destro del rilievo, inducono a sospettare che questo fosse destinato
ad una collocazione in cui la morfologia non perfettamente rettangolare della
lastra non induceva particolari problemi.
La massa dei materiali oggi disponibili
sulle produzioni artistiche della Valle del Serchio del XII secolo, con i
rilievi che traducono le innovazioni della plastica romanica in un linguaggio
spiccatamente popolare – ‘plebeo’, per ripetere la lucida definizione di
Ranuccio Bianchi Bandinelli per l’età romana – caratterizzato dalla tradizione
altomedievale del rilievo piatto integrato da particolari incisi, assurgendo
peraltro a collocazioni ‘di prestigio’, come nella facciata di San Cassiano di
Controne[86], permette oggi un comodo inquadramento
cronologico del rilievo di Careggine.
Per la tormentata esegesi della figurazione,
chiaramente formata da due immagini di guerrieri, uno nudo, l’altro abbigliato,
si potrà segnalare che gli esametri dedicati da Raoul di Caen (Radulphus
Cadomensis), attivo entro il 1118, alle imprese eroiche di Ugo di Vermandois e
di Roberto conte delle Fiandre a Dorileo, nel 1097
Rollandum
dicas Olliveriumque renatos,
si
comitum spectes hunc hasta, hunc ense furentem,
riprendendo dalla Chanson de Roland l’invito di Orlando a Oliviero, per l’ultima
battaglia[87]
fier
de la lance et jo de Durendal
parrebbero una vera e propria didascalia del
rilievo di Careggine, con i due guerrieri che tenendosi per mano, in segno
iconografico del compagnonnage
cavalleresco, si gettano nella mischia, uno con la spada, l’altro con la
lancia.
Rimane enigmatica la nudità del guerriero di
destra – il possibile Oliviero, data la connotazione dell’arma.
In effetti, una delle rare figurazioni di
nudo maschile del XII secolo del Romanico di Toscana, il San Nicola del Primo
Lavacro firmato da Biduino, poco dopo il 1180, per l’architrave del San
Salvatore di Lucca (fig. 16, C) non lascia dubbi sull’esegesi della figura
nuda, ed è plausibilmente la fonte ‘colta’ cui lo scultore attivo per Careggine
attinse anche lo schema iconografico, fin nella scansione della mano e dell’avambraccio
ottenuta con una linea incisa, e nel minuzioso trattamento dei genitali. Si
annoterà, inoltre, che la nudità della figura di destra è integrale, giacché
anche i piedi non sono calzati: il profilo continuo della gamba, infatti, è un
tratto iconografico nettamente distinto dal risalto delle calzature del
guerriero armato di spada.
Se dunque la suggestione di Biduino invita a
collocare il rilievo di Careggine sul finire del XII secolo, quando del resto i
temi iconografici propagati dalle opere cavalleresche compaiono con qualche
frequenza anche nella scultura, è il cavaliere nudo con olifante del mosaico
della cattedrale di Otranto, voluto vent’anni prima dal presbitero Pantaleone[88] ad aprire una possibile chiave di lettura.
La nudità del paladino potrebbe infatti essere intesa come segno della
purificazione ritrovata, quasi che l’ultima mischia fosse una sorta di nuovo
battesimo.
La proposta esegetica è ovviamente da
verificare e valutare, ma sembra indubbio che il rilievo di Careggine, fosse o
meno destinato ad un monumento funerario che nella fronte figurata richiamava i
sarcofagi romani – come quello allestito per il pievano Lieto, a Lammari, da
Biduino, o dalla sua scuola – aderisce alle tematiche cavalleresche in cui i domini dei castelli di Garfagnana del XII
e XIII secolo potevano riconoscere e proiettare i loro ideali. (G.C. – P.N. –
S.F.)
Appendice: le monete del Castelvecchio
Nel corso degli scavi del Castelvecchio sono stati rinvenuti
nove esemplari, appartenenti alle zecche di Lucca (4), Bologna (1), Parma (2) e
Pisa (2), databili tra la II metà del XII e la prima metà del XIII secolo.
Nonostante il loro numero sia piuttosto esiguo, rispetto ad altri complessi
monetali attestati nella stessa Garfagnana od in zone limitrofe[89], essi appaiono comunque in grado di fornire
interessanti indicazioni riguardo alla circolazione nell’area ed anche alla
natura stessa del sito di indagine, come vedremo. I pezzi più antichi sono
forse alcuni enriciani della zecca di Lucca, e potrebbero risultare non troppo
distanti dalle prime citazioni del Castelvecchio nella documentazione
archivistica (anni ’60 del XII secolo)[90]. Purtroppo la conservazione di tali pezzi,
nonché le difficoltà di classificazione proprie di questa serie lucchese,
rendono difficile avere certezze in proposito, ma gli esemplari nn. 1 e forse 2
sembrano appartenere al tipo H5a della classificazione di Matzke, che
porterebbe la loro cronologia al 1181/2-1200[91]. Solo poco più tarde le altre monete
lucchesi (nn. 3-4), la cui datazione non dovrebbe spingersi oltre il 1216/7[92]. Al XII secolo appartiene anche il denaro
di Bologna, il famoso ‘bolognino’ (n. 5). Tradizionalmente questa serie
monetale viene datata molto genericamente dal 1191 al 1337 (così nel Corpus, ad esempio), perché non offre
elementi certi di seriazione cronologica, ma recentemente è stata meglio
definita, sulla base di elementi stilistici nel complesso validi. L’esemplare
qui attestato dovrebbe appartenere alla prima serie, caratterizzata dalla
lettera A del dritto sormontata da un apice a forma di ‘capriolo’ (o ‘scaglione’:
una specie di V molto larga) rovesciato, serie che è stata datata dall’apertura
della zecca di Bologna all’introduzione del grosso (1191-1236)[93]. Ai primi decenni del XIII secolo
appartengono certamente anche i due denari di Parma, visto che portano il nome
dell’autorità emittente, nel caso in esame Filippo di Svevia (1198-1208) ed
Ottone di Brunswick (1198-1218, imperatore dal 1209) (nn. 6-7). L’analisi delle
fonti e dei rinvenimenti ha consentito una datazione ancora più stretta,
riportata nelle schede, riguardo alla quale permangono però ancora delle
piccole incertezze[94]. Leggermente più tarde risultano le due
monete pisane (nn. 8-9), denari piccoli di una serie caratterizzata da un
cerchietto centrale al rovescio che solo recentemente è stata oggetto di
approfondite analisi, che ne hanno fissato la cronologia complessiva dagli
inizi agli anni ’60 del XIII secolo[95]. Le condizioni di conservazione non sono
tali da consentire per il primo esemplare un’attribuzione ai sottogruppi individuati
dalla bibliografia precedente, mentre il n. 9, con un bisante tra le braccia
della F al dritto, appartiene ad una rara variante individuata recentemente,
per la quale è stata ipotizzata una cronologia successiva al 1252, sia pure con
qualche dubbio[96]. Questa data dovrebbe quindi costituire
anche il tpq per la possibile
cessazione di un’attività monetaria nel sito.
Come abbiamo accennato, per quanto poco numerosi, gli esemplari
rinvenuti possono dare comunque qualche informazione riguardo alla natura del
contesto. Qualche anno fa abbiamo approfondito il tema della circolazione
monetaria nelle regioni alpine ed appenniniche settentrionali, per giungere
alla conclusione che questa si presenta molto più varia e ricca che nelle
apparentemente ben più floride regioni di pianura. Una possibile spiegazione
appare quella che l’economia delle regioni montuose fosse piuttosto povera, e
quindi al notevole afflusso di moneta, dovuto al continuo passaggio di uomini,
non facesse riscontro una pari disponibilità di beni nei mercati locali. Di
conseguenza le monete lì affluite avrebbero teso a svalutarsi per eccesso di “offerta”,
al punto da essere poi utilizzate nei piccoli scambi e quindi perse con
maggiore facilità che altrove[97]. In effetti questa varietà appare testimoniata
anche nelle vicinanze di Piazza al Serchio, sia nella stessa Garfagnana come a
Pieve Fosciana[98] ed al Castello di Verrucchio[99], ad esempio, sia sull’altro versante a
Vairo[100]. Quindi la presenza di ben quattro diverse
zecche su nove monete potrebbe imputarsi, anche nel sito del Castelvecchio, al
passaggio di uomini e merci. Tuttavia le monete qui rappresentate, alcune della
quali assai rare in altri siti di questo versante appenninico meridionale, come
i denari parmensi, appaiono legate dall’avere lo stesso valore di conto pari un
terzo dell’imperiale, valore di conto che all’epoca probabilmente cominciava ad
essere registrato in queste aree lucchesi periferiche con il nome anche di ‘bolognino’,
non più solo di ‘lucchese’, come è ben attestato nella documentazione relativa
alla vicina località di Soraggio[101]. Si potrebbe quindi ritenere che questi
pochi spiccioli, più che frutto di traffici di lungo percorso, fossero parte
del peculio conteggiato in denari lucchesi e poi bolognini degli addetti al
castello, ai quali sicuramente non dovevano mancare occasioni di scambiarlo e
di perderlo, nella lunghe giornate, possiamo immaginare piuttosto monotone,
vissute entro «un semplice circuito murario che definiva la sommità della rupe,
con strutture adatte ad un ruolo ‘di rappresentanza’, non certo poliorcetico»[102]. (A.S.)
Schede (fig. 13, C)
1) US 4b (area edificio B, ‘cisterna’)
Lucca,
a nome di Enrico imperatore
denaro,
1181/2-1200
D/
[IM]PER[ATOR] nel campo, monogramma di Otto in forma di H
R/
[ENRIC]V[S] nel campo, [LV]C[A] disposto a croce attorno a bisante
MI,
g 0,64, mm 1,64; Matzke 1993, gruppo
H 5a.
2) Sporadico, terra di discarica area C numero
3
Lucca,
a nome di Enrico imperatore
denaro,
1181/2-1200?
D/
[IMPERATOR] nel campo, monogramma di Otto in forma di H
R/
[ENRICVS] nel campo, [LVCA] disposto a croce attorno a bisante
MI,
g 0,55 (rotta), mm 1,60; Matzke 1993,
gruppo H 5a.
3) Sporadico, terra di discarica area C, numero
2
Lucca,
a nome di Enrico imperatore
denaro,
1200?-1216/7
D/
[IMPERA]TOR nel campo, monogramma di Otto in forma di H
R/
EN[RICVS] nel campo, LVCA disposto a croce attorno a bisante
MI,
g 0,44, mm 1,59; Matzke 1993,
gruppo H 5b.
4) Area C US 47
Lucca,
a nome di Enrico imperatore
denaro,
1200?-1216/7
D/
[IM]PERA[TOR] nel campo, monogramma di Otto in forma di H
R/
EN[RICVS] nel campo, LVCA disposto a croce attorno a bisante
MI,
g 0,68, mm 1,63; Matzke 1993,
gruppo H 5b.
5) US 93 (area edificio A)
Bologna,
a nome di Enrico VI imperatore
Denaro
bolognino, 1191-1236
D/
+ ENRICVS nel campo, IPTR disposto a croce tra bisanti
R/
+ •BO•NO•NI•. nel campo, A
MI,
g 0,49, mm 1,52; Chimienti 2009,
n. 1.
6) US 4 a (area edificio B, ‘cisterna’)
Parma,
a nome di Filippo di Svevia re
denaro
1207-1208 (?) oppure 1211-1220 (?)
D/
+ FILIPVS porta urbica tra bisanti
R/
+ •P•A•R•M•A nel campo, RE / X tra bisanti
MI,
g 0,49, mm 1,54; CNI IX, p. 396, n.
2; per la cronologia v. Bazzini
2006, cit. nota 37, p. 266, n. 192.
7) Sporadico, a fianco muro a nord area A
Parma,
a nome di Ottone IV di Brunswick re
denaro
1206-1207 (?) oppure 1209-1210 (?)
D/
+ OTTVS porta urbica tra bisanti
R/
+ •P•A•R•M•A• nel campo, RE / X tra bisanti
MI,
g 0,49, mm 1,49; CNI IX, p. 397, n.
2; per la cronologia v. Bazzini
2006, p. 266, n. 192.
8) Mucchi di terra di discarica area C, numero
1
Pisa,
a nome di Federico imperatore
denaro,
1216/7-1260 c.
D/
[IMPERATOR] nel campo, F
R/
[FREDERICVS] nel campo, [PISA] disposto a croce attorno a cerchietto
MI,
g 0,57, mm 1,50; Baldassarri 2010, gruppo
F IV.
9) Sporadica, esterno cinta muraria
Pisa,
a nome di Federico imperatore
denaro,
1252 (?) -1260 c.
D/
IMPERATOR nel campo, F, bisante tra le due braccia
R/
[FREDERICVS] nel campo [PISA] disposto a croce attorno a cerchietto
MI,
g 0,57, mm 1,50; Baldassarri, gruppo
F IV; per la cronologia, v. Saccocci 2012, p. 74. (A.S.)
Abbreviazioni bibliografiche
Alberigi
– Ciampoltrini 2012: S. Alberigi - G. Ciampoltrini, Le Acque e il Vino. Gli scavi 2010-2011 alla
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1980: C.A. Willemsen, L’enigma di Otranto. Il mosaico pavimentale
del presbietro Pantaleone nella cattedrale, Lecce 1980.
Didascalie alle figure
Fig. 1. A. siti menzionati nel testo,
riferiti alla Carta Mirandoli del Ducato di Lucca (1846, per gentile
disponibilità della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca); B: veduta dell’area
della Villetta-Aiaraccia, durante i lavori di costruzione della RSA (la freccia
indica l’area di scavo); C: sequenza con stratificazioni altomedievali.
Fig. 2. Materiali dallo scavo della
Villetta-Aiaraccia: restituzione grafica (A: Silvio Fioravanti) e vedute (B).
Fig. 3. Materiali da Vagli-Bivio: ceramiche
(A); scaglie di ematite, scorie di lavorazione del ferro (B):
Fig. 4. A: denaro pavese di Ottone II da
Cima La Foce; B: armilla in bronzo da Roccalberti; C: siti con affioramenti di
resti di attività metallurgiche e ceramiche altomedievali a Roggio; D:
ceramiche altomedievali da Roggio: D: scaglie di ematite e scorie di
lavorazione del ferro da Roggio (E).
Fig. 5. A: siti con affioramenti di resti di
attività metallurgiche e ceramiche altomedievali a Vitoio; rilievi con
decorazioni geometriche da Vitoio (B-C) e Careggine (D).
Fig. 6. Capitelli figurati nel Sant’Agostino
di Vagli.
Fig. 7. Il rilievo del Castelvecchio di
Piazza al Serchio nella veduta aerea successiva al completamento dei lavori di
restauro, riferita alla Carta Mirandoli del Ducato di Lucca (A); planimetria
complessiva dell’area castellana e dei saggi di scavo (B):
Fig. 8. La cinta muraria del Castelvecchio
prima (A) e dopo (B) i lavori di sreaturo; il saggio dell’area B nell’estate
2004 (C).
Fig. 9. La porta meridionale del
Castelvecchio negli anni Novanta del secolo scorso (A); la postierla
settentrionale, vista dall’interno (B) e dall’esterno (C); particolare dell’elevato
murario, con feritoia arciera, prima dei lavori di restauro (D-E).
Fig. 10. Il saggio dell’Area A: vedute.
Fig. 11. Il saggio dell’area B: vedute.
Fig. 12. Materiali ceramici e litici dai
saggi del Castelvecchio. Restituzione grafica di S. Fioravanti.
Fig. 13. Materiali ceramici e vetro (A);
dado in osso (B); monete (C), dai saggi del Castelvecchio.
Fig. 14. Reperti in metallo, osso e
fuseruole dai saggi del Castelvecchio. Restituzione grafica di S. Fioravanti.
Fig. 15. Reperti in metallo dai saggi del
Castelvecchio.
Fig. 16. Rilievo con figurazione di armati
inserito nel campanile del San Pietro di Careggine: lastra fotografica dell’Archivio
della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, 1924 (A); stato
attuale (B); Biduino, architrave con Primo Lavacro di San Nicola, Lucca, chiesa
di San Salvatore (particolare, C).
[1] Si veda l’edizione in Ciampoltrini – Notini 2011.
[2] Ciampoltrini
– Notini – Fioravanti – Spataro 2012, in particolare pp. 15 ss.
[3] Sintesi in Ciampoltrini
– Notini – Fioravanti 2013.
[4] Rispettivamente Notini – Raggi – Rossi – Vangi 1998; Ciampoltrini – Notini – Rossi 1996; Ciampoltrini – Notini – Rossi 1998.
[5] Notini
– Raggi – Rossi – Vangi 1998.
[6] Per Lucca ancora Ciampoltrini 2003, pp. 149 ss.; per l’area lucchese del
Valdarno, si veda Ciampoltrini –
Manfredini – Spataro 2007, in particolare pp. 33 ss., con altri
riferimenti bibliografici.
[7] La terminologia è quella di Ciampoltrini 1998.
[8] Ciampoltrini
2003, pp. 153 ss.; p. 157 per un’anticipazione sui materiali della Loggia dei
Mercanti.
[9] Per questi Ciampoltrini
2011, pp. 42 ss., con riferimento a Ciampoltrini
1998, pp. 293 ss.
[10] Si veda a tal proposito, dopo Notini – Raggi – Rossi – Vangi 1994, il
contributo di Notini 2009.
[11] Notini
– Raggi – Rossi – Vangi 1998, pp. 329 ss.
[12] Si veda già Ciampoltrini
2003, p. 158.
[13] Ciampoltrini
– Abela – Bianchini – Zecchini 2003,
pp. 286 ss.
[14] Ciampoltrini
– Notini – Rossi 1998, pp. 278 ss., fig. 21; Notini – Raggi – Rossi – Vangi 1998, pp. 329 s.
[15] Per la cronologia si veda Saccocci 2001-2002, pp. 173 s.
[16] Per le risorse minerarie delle Apuane, si
rinvia al classico lavoro di Carobbi –
Rodolico 1976, con le aggiunte bibliografiche di Francovich – Farinelli 1994.
[17] Se ne vedano le anticipazioni puntualmente
proposte da Paolo Notini sul Corriere di
Garfagnana, in particolare nelle annate 2012-2013.
[18] Possibile affinità con i tipi d’area
nord-italica che dalla media età imperiale giungono sino alla Tarda Antichità,
caratterizzati dalla decorazione incisa che modella l’estremità ‘a testa di
serpente’: si rinvia, ad esempio, a Bolla
1996, in particolare pp. 62 ss., fig. 14.
[19] Per l’ambito della Toscana
nord-occidentale, si rinvia da ultimo a Alberigi
– Ciampoltrini 2012, pp. 25 s.
[20] Supra,
nota 17.
[21] Si rinvia a Ciampoltrini
1998, pp. 42 ss., passim.
[22] Francovich
– Farinelli 1994.
[23] Inventari
1979, passim.
[24] Ciampoltrini
2003, p. 158.
[25] Il loro recupero si deve alla sensibilità
dei sigg. Battista e Fabio Corrieri, proprietari dell’immobile in cui sono
messi in opera, che si ringrazianop per la segnalazione e l’invito alla loro
valutazione; anticipazioni in Notini
2009, anche per le valutazioni sull’evidenza documentaria altomedievale per
Vitoio.
[26] Ambrosi
1960.
[27] Ambrosi
1960, pp. 170 ss.
[28] Per il Sant’Agostino di Vagli, dopo le
pagine di Conti 1960, si veda la
silloge di Verdigi 1991.
[29] Edizione in Belli
Barsali 1959, pp. 37 s.; per la cronologia, si veda la proposta di Ciampoltrini 1991, p. 47, nota 66.
[30] Bisconti
– De Maria 1988, pp. 454 ss.
[31] Per questa si veda ad esempio Longobardi 1991, p. 303, VII.1 (C. Ghisalberti).
[32] Per questa si rinvia ancora a Ciampoltrini 1991 a; Ciampoltrini
1991 b.
[33] Ducci
2010, p. 180 ss., in particolare p. 182.
[34] Si vedano le valutazioni di Ciampoltrini 1992, p. 721, figg. 29-30,
a proposito dei rilievi emersi dagli scavi in Santa Giustina di Lucca.
[35] Baracchini
1992, passim.
[36] MD
1838, p. 273, doc. 457 (823); p. 277, doc. 463 (824); p. 430, doc. 715 (855),
ecc.
[37] Per questa si rinvia a Giovannetti – Romiti 2010, p. 89, n. 39.
[38] Garfagnana
2010, in particolare con i contributi di Savigni
2010; Giovannetti – Romiti 2010; Angelini 2010.
[39] La documentazione è stata affidata a Paolo
Notini, con la collaborazione di Silvio Fioravanti, e la direzione scientifica
della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Preziosa è stata,
oltre alla disponibilità continuamente assicurata dall’Amministrazione Comunale
di Piazza al Serchio, la collaborazione di Guido Rossi, Nicola Salotti, Massimo
Gaddini.
[40] Si veda ad esempio Pearce 1995, pp. 195 ss.
[41] Per la presentazione dei materiali del
Bronzo Finale di Castelvecchio si veda Ciampoltrini
– Notini 2008, pp. 565 ss.; da ultimo Ciampoltrini
2010, pp. 81 s.
[42] Ciampoltrini
– Notini 2005, pp. 67 ss.
[43] Per questa nella Garfagnana, e per la sua
possibile costruzione in età augustea, si rinvia a Ciampoltrini – Notini – Spataro 2006, in particolare
pp. 61 ss.
[44] Ciampoltrini
1984, pp. 297 ss.
[45] Savigni
1998, pp. 74 ss.
[46] Il documento è in Archivio Arcivescovile di
Lucca (oggi Archivio Diocesano di Lucca, in seguito AAL), ++Q 6, 1179 novembre
14; per le edizioni Savigni 1998,
pp. 75 ss., nota 118.
[47] Giovannetti
1998, p. 293, nota 16; ancora utile De
Stefani 1925, pp. 95 s.
[48] Giovannetti
1998, p. 293, nota 16.
[49] Savigni
1998, pp. 76 ss., con riferimento ad AAL, +P 39, 1204 giugno 25.
[50] Per la planimetria dei ruderi della
cerchia, sostanzialmente non modificata dai lavori degli anni Duemila, si veda
già Giovannetti 1998,
fig. 6.
[51] Saccocci,
Appendice.
[52] Ciampoltrini
– Notini – Rossi 2000, p. 284, nota 3, con riferimento a Pacchi 1785, p. LXIII.
[53] Una sintetica rassegna in Seghieri 1980; per l’esaurimento dei
diritti feudali del vescovo di Lucca nel territorio di Piazza, del 1787, si
veda De Stefani 1925, p. 200. Da
ultimo recensione delle fonti e dell’evidenza monumentale in Angelini 2010.
[54] Bertuzzi
– Vaccari 1993, fig. 1, ripreso da Giovannetti
1998, fig. 4.
[55] Si veda Ciampoltrini
– Notini – Rossi 2000, pp. 283 s.
[56] Ciampoltrini
– Notini – Rossi 1996, pp. 302 ss., figg. 5-6; Ciampoltrini – Notini – Rossi 1998, pp. 249 ss., figg. 7-8; Alberigi – Ciampoltrini 2012, p. 40,
fig. 65.
[57] Ciampoltrini
– Notini – Rossi 1996, pp. 307 ss., figg. 8-9.
[58] Si rinvia da ultimo a Ciampoltrini 2012, p. 19.
[59] Ciampoltrini
– Notini – Rossi 1996, in particolare figg. 5-6; in generale, si veda da
ultimo Alberigi – Ciampoltrini
2012, p. 36, fig. 63, 1.
[60] Alberigi
– Ciampoltrini 2012, p. 40, fig. 65.
[61] Alberigi
– Ciampoltrini 2012, p. 40, fig. 64; per la presenza in Garfagnana, si
rinvia a Ciampoltrini – Notini – Rossi
1998, p. 253, fig. 8, 4.
[62] Per la Garfagnana, da ultimo Ciampoltrini – Notini 2007, pp. 25 s.,
figg. 17 e 20, con altri riferimenti al territorio e tipologici; in generale,
si veda la tipologia di Campiglia 2003, pp. 395 ss. (D. De Luca).
[63] Si veda la redazione di formato maggiore
dall’area della Pieve, nella stessa Piazza: Ciampoltrini
1984, p. 306. Per gli esemplari di Pieve Fosciana, Ciampoltrini – Notini – Rossi 1996, p. 297. Altri
riferimenti in Campiglia 2003, pp.
424 s. (M. Belli).
[64] Per la Garfagnana Ciampoltrini – Notini 2007, p. 25, fig. 17, 14-15; in
generale Campiglia 2003, p. 430 (M. Belli).
[65] Campiglia
2003, p. 429 (M. Belli)
[66] Per i ferri da cavallo medievali nel
territorio, riferimenti in Alberigi –
Ciampoltrini 2012, p. 45, fig. 71, con altri riferimenti; per gli
elementi di bardatura Ciampoltrini –
Notini – Rossi 1998, p. 281, fig. 24.
[67] Per la Garfagnana, ad esempio Ciampoltrini 1984, pp. 304 ss., e, in
generale, la tipologia proposta in Campiglia
2003, pp. 425 ss. (M. Belli).
[68] Si veda l’analogo esemplare dalle
Verrucole: Ciampoltrini – Notini
2007, p. 25, fig. 17, 13, con ulteriori riferimenti.
[69] Poggio
Imperiale 1996, pp. 332 ss. (C. Cicali – C. Felici).
[70] Campiglia
2003, pp. 427 s. (M. Belli).
[71] Da ultimo Ciampoltrini
– Notini 2007, p. 26, fig. 22, con altri riferimenti
[72] Per il tipo, peraltro di lunghissima
durata, si rinvia a Campiglia 2003,
pp. 456 s. (G. Bianchi).
[73] Comoda sintesi in Cassavoy 2004, in particolare pp. 333 s., GP 6,
[74] Classico Tronzo
1977.
[75] Per la perimetrazione di questi ambiti
ancora utile De Stefani 1925, pp.
95 s.
[76] Savigni
1998, p. 79, nota 127: è prevista la «custodiam et chiusuram Roche de Sala».
[77] Giovannetti
1998, in particolare pp. 300 ss., con le
osservazioni di Savigni 2010 e Giovannetti – Romiti 2010.
[78] Savigni
1998, pp. 80 s.
[79] Ciampoltrini
- Notini - Rossi 2000, pp. 283 s.; da ultimo Savigni 2010.
[80] De
Stefani 1925, p. 197, nota 197.
[81] De
Stefani 1925, pp. 199 s.; Angelini
2010.
[82] Si veda Ambrosi
1960, pp. 172 ss.; Lera 1985, pp.
9 ss.
[83] Archivio SBAT, Anno 1920-1925, pos. 9,
fascicolo Massa Carrara 34.
[84] Misure attuali, reali: lunghezza 144 cm,
altezza 68.
[85] «dell’età romanica» aggiunto, manoscritto.
[86] Per questa Taddei
2004.
[87] Rispettivamente Radulphus Cadomensis, Gesta
Tancredi in expeditione Hierosolymitana, cap. XXIX; Chanson de Roland, v. 1120.
[88] Willemsen
1980.
[89] Ci riferiamo ad esempio ai siti della
Chiesa di San Giovanni a Pieve Fosciana in Garfagnana (Ciampoltrini – Notini –
Rossi 1996, pp. 299 e 322 ss.) e di Vairo in Val d’Enza nel Parmense (Bacchini 2000). Il numero di esemplari
di Castelvecchio, comunque, appare in sintonia con quello di gran parte dei
rinvenimenti da siti della Garfagnana; si veda Rossi
1998.
[90] V. sopra, testo corrispondente alle note 46-49.
[91] Matzke
1993, p. 191, nn. 53-55.
[92] Perché da quella data dovrebbe iniziare la
serie successiva secondo le ricerche più recenti; cfr. Saccocci 2012,
pp. 75 s., e bibliografia ivi citata.
[93] Chimienti
2009, p. 91.
[94] Bazzini
2006, pp. 266 s., nn. 192-193.
[95] Si veda Baldassarri
2010, pp. 92 ss., e 193 ss., nn. F.IV.1-5; l’inizio di queste emissioni è stato
ipotizzato al 1216/7 da Matzke
1993, p. 178 e successivamente Saccocci
2012, p. 74.
[96] Saccocci
2012, pp. 74 s. e 79, nn. 125-127.
[97] Saccocci
2005; un tema simile, ma con maggior
attenzione agli scambi di lungo percorso, anziché alla circolazione in ambito locale,
è stato quasi contemporaneamente affrontato da Coativy
2003.
[98] Cfr. sopra, nota 89.
[99] Rossi
1998, pp. 368 ss.
[100] Cfr. sopra, nota 89.
[101] Ciampoltrini
– Notini – Rossi 1998, pp. 254 ss..
[102] Ciampoltrini
– Notini – Fioravanti, supra.
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