Guaita, guaita male: non mangiai ma' mezo pane.
A differenza dei loro male avventurati colleghi di Travale, festosi solo nel ritmo, non si sa qual pane ricevessero gli uomini di Piazza al Serchio e dintorni che salivano alla guaita del Castello del Vescovo e dei suoi consorti, diviso per tre sul doglione della Rocca di Sala, possente cuneo fra le acque genitrici del Serchio, o roccia spezzata dalla forza loro, a scelta.
Un po' di vino, si direbbe dai boccali, un po' di zuppa, per le olle delle paste di Garfagnana che Paolo e Silvio or molti anni sono estrassero dalla rupe, con le vestigia dei Liguri-Apuani e prima ancora degli anni intorno al 1100 a.C. o giù di lì, il Bronzo Finale dell'Alta Valle, le due rupi della Capriola e del Castelvecchio, la terza di là dal giogo, ormai in Lunigiana. Storie tutte narrate, qua e là, presto dimenticate, ma la terza dovrà pur esserlo, per rispetto della fatica loro e degli inciuci degli anni del primo Federico registrati da pergamene oblique e ambigue, o da una cisterna un po' sfatta e dal rifugio degli uomini di Sala e Livignano, nelle ore della guaita, casupola a ridosso di un muro alto quel tanto che bastava a rammentare ai viandanti verso Lombardia o Toscana il vescovo remoto e il suo potere, e motivare le fatiche della guardia. Nitidi segni dal cielo, tagliati a perfezione, forse un po' troppo.
Ma si svagavano, di certo, ci racconta il minimo dado che gli archeologi han tratto dalle terre sfatte, e giocavano (s'immagina) le monete con la F e con la H, e quelle venute di Lombardia.
Notti del 1190 o 1220, fatiche inutili, forse, affidate non ai versi non trascritti dal notaio di Maremma, ma alle storie scritte nella terra, decifrate da Paolo&Silvio.
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