La città di San Frediano. Lucca fra VI e VII secolo: un itinerario archeologico

martedì 15 novembre 2011

Giorni della vita e giorni della morte nell'Ottocento. Per chi cerca le Emersioni ...
















Giulio Ciampoltrini, Silvio Fioravanti, Paolo Notini, Consuelo Spataro

I giorni della vita e i giorni della morte nella Garfagnana dell’Ottocento:
le testimonianze archeologiche

È dato ormai acquisito che l’archeologia di tutela non può che attenersi agli ambiti cronologici previsti per l’applicazione della normativa di legge: stratificazioni e materiali d’età contemporanea, fino alla soglia dei cinquanta anni ‘dal presente’, come specifica in più punti il vigente Decreto Legislativo 42-2004. Accanto alla prescrizione di legge, esiste tuttavia una crescente e diffusa sensibilità che da qualche decennio ha fatto sì che l’attenzione dell’archeologo non discriminasse in base alla datazione, né nella cura rivolta a documentare le stratificazioni, né per quanto attiene alla conservazione dei materiali.
Grazie a questa strategia di tutela, accresciuta dalla tradizionale vocazione del validissimo volontariato archeologico della Garfagnana alla salvaguardia del patrimonio culturale inteso come esito globale ed omogeneo della storia del territorio, in cui distinzioni cronologiche o per classi di oggetti e di monumenti non hanno ragion d’essere, già nel convegno del 2003 dedicato alla Garfagnana nell’Ottocento era possibile fare il punto sul contributo che l’archeologia offriva per la ricerca su questo momento storico[1]; non sfuggiva in quella sede, né può sfuggire oggi, la reale portata del dato di scavo, rispetto all’infinita quantità di informazioni che le fonti documentarie aprono anche in campi nei quali tradizionalmente l’indagine archeologica ha un ruolo rilevante.
La progressiva maturazione dell’archeologia d’età contemporanea, dopo le ricerche pionieristiche di Marco Milanese, in Toscana[2], fa tuttavia accumulare una serie di contesti e di dati che permettono almeno di giustapporre la fonte archeologica ad altre, soprattutto negli aspetti della vita quotidiana per la cui ricostruzione, accanto ai materiali documentari, alle testimonianze giunte per tradizione diretta, alle fonti iconografiche, è oggi possibile avvalersi anche dell’immagine riflessa da stratificazioni o da contesti di scavo.

I giorni della vita

I giorni della vita e i giorni della morte: la quotidianità dell’Ottocento e dei primi del Novecento vista attraverso discariche e cimiteri, integrando le testimonianze della Garfagnana con quelle che l’archeologia di tutela, soprattutto in questi ultimi anni, ha fatto emergere a Lucca; a questo proposito si deve sottolineare come uno dei più rilevanti campi dell’indagine di scavo degli ultimi due anni sia stato nell’ottocentesca Officina del Gas di Lucca, a San Concordio, esplorata e tutelata in vista di una possibile valorizzazione dei resti o, almeno, della loro testimonianza[3].
Se già i recuperi di Gallicano e della fornace per laterizi e ceramiche di Marcione, a Castiglione di Garfagnana, avevano consentito, nel 2003, di valutare la rimodulazione delle tradizionali botteghe ceramiche nei decenni di esplosione del processo di industrializzazione[4], il recupero – dovuto alla pazienza e all’impegno di Paolo Notini e di Silvio Fioravanti – della discarica accumulata a ridosso di un edificio di Pontardeto (fig. 1, A) demolito fra 2009 e 2010 per far posto alla variante di Castelnuovo (fig. 1, B-C)[5], ha offerto una straordinaria massa di materiali la cui capacità di fornire informazioni è singolarmente potenziata dal confronto con un coevo contesto esplorato nel suburbio lucchese, nell’area del Nuovo Ospedale di Arancio-San Filippo.
L’indagine di emergenza condotta nell’area ha documentato una prima frequentazione fra Quattro- e Cinquecento e una sostanziale continuità di vita fino alla metà del Novecento[6], ma è dall’ultimo quarto dell’Ottocento, in particolare, che si deposita a ridosso dal muro che costeggiava l’attuale strada una discarica di ceramiche e di vetri di notevole consistenza, che è stato possibile recuperare ampiamente, seppure in circostanze di piena emergenza.
Grazie alla tradizione orale, è stato possibile individuare la famiglia i cui scarti d’uso la alimentarono sin quasi al momento dell’abbandono, intorno agli anni Sessanta del Novecento: i Bacci, detti ‘Trivella’. Alessandro Bacci, di ottantasei anni, ancora (autunno 2011) ricorda che nel 1936 nella casa vivevano tredici persone, nella famiglia di suo padre; contadini, come contadini erano stati il nonno e il bisnonno, con i quali si può giungere allo scorcio finale dell’Ottocento. Le attività agricole – che comprendevano anche la coltivazione di vivai di piante da frutta e del tabacco – erano integrate dalla pratica della norcineria, e il potenziale produttivo della famiglia era occasionalmente integrato da lavoranti, ovviamente ospitati nella casa. Le dimensioni della discarica trovano dunque, con ogni probabilità, nel numero degli occupanti – una grande famiglia agricola della Garfagnana – la più plausibile delle motivazioni.
È la massa di bolli delle manifatture ceramiche che dominano il mercato italiano nei decenni a cavallo fra Otto- e Novecento ad assicurare solidi punti di riferimento cronologico (fig. 2): dominano i manufatti della Società Ceramica Richard (fig. 2, A), fondata come tale nel 1873, e progressivamente dilatata con fusioni ed incorporazioni fino a quella con la nobilissima manifattura sestese dei Ginori, del 1897, che, assieme alla pressoché contemporanea acquisizione della fabbrica di Felice Musso a Mondovì – i cui manufatti sono comunque attestati (fig. 2, B)[7] – permetterà alla Richard-Ginori di conoscere una straordinaria fioritura[8]. I bolli – stando almeno al repertorio di Zühlsdorff[9] – sembrano riferibili soprattutto alla fase ottocentesca, ma non mancano esemplari (come quello con dicitura Made in Italy, invalsa ormai negli anni Venti del Novecento) che tradiscono il lungo arco di tempo in cui si accumulò la discarica, che del resto ha restituito anche monete del secondo dopoguerra.
Ancora testimonianze delle imprese industriali dell’Italia di fine Ottocento e dei primi del Novecento sono i capi bollati con l’elefantino della Società Ceramica Lombarda, fondata nel 1903 (fig. 2, C)[10], o con l’aquila della Società Ceramica Italiana di Laveno, il Verbanum Stone (fig. 2, D), di gran successo ancora per gran parte del Novecento[11]. Le puntuali sovrapposizioni con i contesti di Larciano, editi quindici anni fa da Marco Milanese, esaltano l’omogeneizzazione imposta del primo boom industriale dell’Italia post-unitaria.
Alla fase ancora ottocentesca della discarica possono essere ascritti capi che tradiscono modelli e schemi di questo processo. I piatti di robusta terraglia bianca che avevano gran successo a Pontardeto – come nei contesti cittadini di Lucca, o a Gallicano – ripetono in sequenza infinita il ‘tema del salice’, Willow pattern, una figurazione cinesizzante in realtà ‘inventata’ dalle manifatture inglesi della seconda metà del Settecento, con scene di paesaggio allusive ad una romantica storia d’amore (fig. 3)[12]. I piatti sono ovviamente non importazioni inglesi, ma imitazioni che si spingono sino a clonare lo stemma reale inglese che certificava la qualità degli originali; la Società Ceramica Richard, tuttavia, ‘firma’ i suoi capi (SCR), con un cartiglio impiegato anche dalle botteghe di Mondovì, che segnala la classe (Indo-Chinese: fig. 2, E; 3, B); il grosso di questa produzione era concentrato nella sede milanese di San Cristoforo, che sul finire dell’Ottocento sfornava una massa di ‘terraglia all’inglese’, gli stoni (all’inglese)[13]. Fra le varie imitazioni ‘anonime’, sembra di riconoscere anche capi di Felice Musso da Mondovì, caratterizzati dalla incomprensibile legenda Ronston China, degenerazione dell’originale Royal Ironstone China dei modelli inglesi (fig. 2, G)[14]; rimane oscura la bottega che aggiunge le lettere G M allo stemma reale inglese (fig. 2, H; 3, B)[15].
Se vogliamo cogliere il gusto ‘popolare’ del tempo, tuttavia, più che al bianco e blu delle decalcomanie Willow pattern, o al marrone del tipo Colandine, occorre passare alle massicce testimonianze dei tipi con decorazione a spugnetta, a merletto, a mascherina che permettevano alle officine di Mondovì – come a quelle del Vicentino – di produrre su scala industriale capi vivacemente colorati, con un tema ornamentale (vegetale o geometrico) sulla tesa, e una variegata gamma di motivi decorativi nel fondo (fig. 4, A)[16].
Con un bollo non identificato (fig. 4, C) è contrassegnato un servizio che, a mascherina, campisce il fondo con scritta Buon Appetito entro una corona floreale (fig. 4, B). L’invito augurale è applicato – in una variegata serie di cornici o elaborazioni – nei principali centri manifatturieri dello scorcio finale dell’Ottocento, da Mondovì a Pordenone[17], ma poteva essere applicato da centri produttivi che replicavano soggetti e forme delle manifatture più famose, e che attendono ancora un’adeguata definizione. Delle fabbriche pisane (Malloggi, Pera) progressivamente eliminate dall’espansione della Richard-Ginori anche a Pisa, ad esempio, solo di recente è stata tratteggiata una sintetica storia[18]; la Toro Società che contrassegna con una mano aperta entro corona un piccolo servizio (fig. 2, F; 4, D) è sconosciuta anche al citato repertorio di Zühlsdorff, oltre che a Google, insostituibile strumento per navigare nella massa dei dati sull’età contemporanea.
Le peculiarità del mercato e della domanda, in una singolare metafora della metamorfosi dell’Italia umbertina e d’età giolittiana, in cui botteghe artigianali strutturate secondo una tradizione secolare riescono ancora a convivere con il processo produttivo industriale, ritagliandosi nicchie di mercato, traspare dalla massiccia presenza, accanto ai piatti di terraglia, di forme profonde (scodelle: fig. 5, A-C; piatti profondi: fig. 5, D-F) modellate in una pasta arancio, ingobbiate e invetriate con una copertura (l’‘arcifullo’ del lessico tecnico di Savona e Albissola) in modo da ottenere in cottura una colorazione giallo-vivo; la decorazione è una speditiva sequenza di sfatte rosette o motivi vegetali distribuiti sulla tesa e al centro, in marrone. Alla ben nota produzione ligure, di Albissola[19], è probabile che si aggiungesse quella di altri centri, per rispondere alla domanda ancora apprezzabile di manufatti che non imponevano – come le terraglie – il processo di produzione industriale, e i conseguenti altissimi investimenti.
Con invetriatura rossa, del tutto priva di decorazioni, sono invece prodotte soprattutto scodelle (fig. 6), che sembrano continuare la tradizione ottocentesca documentata nella stessa Garfagnana, a Marcione, nel vicino territorio di Castiglione, dove sono stati almeno in parte esplorati imponenti residui dell’attività di una fornace in cui venivano prodotti sia laterizi, che ceramica da mensa e da cucina, con metodi – come la cottura con l’impiego di zampe di gallo e muffole per l’impilamento – che nei decenni centrali dell’Ottocento ripetevano pressoché immutate le strutture produttive del Rinascimento[20].
Le peculiarità del contesto di Pontardeto risaltano dal confronto con i materiali finiti nei livellamenti drenanti di un manufatto di ciottoli legati da una povera malta grigiastra individuato ed esplorato fra 2009 e 2010 nell’area del Nuovo Ospedale di Lucca, fra San Filippo e l’Arancio (fig. 7). Il ruolo della struttura (fig. 7, A) è del tutto oscuro, ma non la sua cronologia, grazie alla massa di minuti frammenti ceramici scaricata assieme ai ciottoli alle spalle del paramento murario (US 11/57 e 11/55: fig. 7, B-C), da cui è stato possibile recuperare un coerente complesso di forme da mensa e da fuoco scaglionate fra lo scorcio finale dell’Ottocento e – al più tardi – i primi del Novecento, nell’ambito del progetto di realizzazione di un percorso espositivo che, negli spazi del Nuovo Ospedale, è destinato a presentare la successione di sepolcreti e insediamenti messi in luce dall’attività di tutela, dal Villanoviano all’età etrusca arcaica ed ellenistica, fino alla mansio della prima età imperiale e alle significative testimonianze dell’occupazione tardoantica, medievale, rinascimentale, infine, d’età contemporanea[21].
Spiccano affinità e dissonanze: alla marginale presenza nel complesso lucchese di piatti con Willow pattern fa da contrappunto l’esuberante sequenza di decorazioni a stampino e a mascherina (fig. 8, A), che accomuna Lucca a Pontardeto, assieme al marchio che compare su un isolato esemplare di tazza (fig. 8, B), attestato in almeno due esemplari anche a Pontardeto (fig. 2, E), e sconosciuto allo Zühlsdorff. Gli esaurienti censimenti delle fabbriche di Mondovì che l’attenzione degli studi per questo centro produttivo ha messo a disposizione parrebbero comunque invitare ad assegnarlo ad altre manifatture, oscure almeno per chi scrive.
Ai fiori e ai soggetti resi a mascherina sui piatti di terraglia, si associano anche a Lucca piatti profondi e scodelle con copertina a vetrina gialla (fig. 9, A) o rossa (fig. 9, B) identici a quelli appena visti a Pontardeto, a dimostrazione della sostanziale omogeneizzazione del mercato nella città e nei distretti di montagna.
Alla massa di ceramiche da mensa – integrata anche da forme in vetro – nella discarica di Pontardeto fa riscontro una sottile presenza di forme da fuoco, che, per contro, hanno un ruolo di rilievo nel complesso di Lucca.
Ai grandi tegami invetriati con decorazione in giallo e nero (fig. 10, A) – una tradizione rinascimentale conservata come quella delle forme da mensa invetriate[22] – si associa un articolato campionario di forme, prodotte soprattutto in terra refrattaria: casseruole con invetriatura prevalentemente riservata all’interno; tegami e tegamini (fig. 10, B), spesso con invetriatura più generosa; pentole (fig. 11, A). Tradizioni delle forme da fuoco settecentesche, come quelle appena viste nei residui della fornace di Marcione, si fondono con i tipi diffusi dalle reti commerciali che partono – forse intrecciandosi con quelle liguri[23] – dalle coste della Provenza: Vallauris[24] è un grande centro manifatturiero, in cui è possibile trovare modelli per tutti i tipi ceramici da fuoco presenti a Lucca, e che, come dimostra un inedito frammento da Palazzo Poggi, alimentava il mercato lucchese[25]; tuttavia il solo marchio attestato nel complesso lucchese – sul manico di presa di una casseruola (fig. 10, C-D) – è di una F(abbrica) Stoviglie Camigliano – verosimilmente la località del Capannorese – che celebra la sua produzione ‘in terra di Francia’, il refrattario essenziale per l’efficacia della ceramica da fuoco. Anche questa bottega è per il momento oscura, sia per la difficoltà di esplorare l’attività di manifatture spesso effimere, che per lo stato nascente della ricerca su queste classi di oggetti; ma emerge comunque che i modelli propagati e affermati dai grandi centri manifatturieri – Mondovì per la ceramica da mensa, l’ancora vivace Albissola, la costellazione di botteghe per ceramiche da fuoco dell’area delle Alpi Marittime e della Liguria, con i tipi ampiamente studiati a Vallauris o con le invetriate da fuoco in giallo e nero di provenienza ligure, marginalmente presenti a Lucca[26] – potevano essere emulati, ad un adeguato livello tecnologico, anche da un pulviscolo di botteghe ‘locali’.
Di sicura manifattura toscana – anche in questo caso rispecchiando una tradizione secolare – sono i grandi catini maculati sotto vetrina, prodotti nel Valdarno (ben noto è il centro di San Giovanni alla Vena) fino all’avanzato Novecento, per vastissimi usi nella vita quotidiana (fig. 11, B)[27].
Il contesto di Lucca Nuovo Ospedale, in conclusione, riflette assai meglio di quello di Pontardeto il ruolo che la ceramica conservava ancora nella quotidianità domestica della fine dell’Ottocento, e che ha un’immediata evidenza – più che in qualsiasi valutazione documentaria – negli scatti che Filippo Del Campana Guazzesi dedicò al mercato di San Miniato, intorno al 1895 (fig. 11, C-D)[28]. La suppellettile ceramica occupa nel mercato uno spazio analogo a quello che aveva, più di un secolo e mezzo prima, nella Fiera di Poggio a Caiano resa dal pennello del Crespi[29], ed un’articolazione che risponde alle esigenze della mensa, della conservazione e dell’uso dell’acqua, della cucina, in spazi distinti; si potrà osservare la sequenza di contenitori di forma chiusa e aperta (fig. 11, B) e il settore dedicato alle ceramiche da fuoco (fig. 11, C). È emozionante vedere le contadine di San Miniato (distinte dal fazzoletto, rispetto alle signore della società cittadina) che valutano tegami (fig. 11, C, al centro) e casseruole (fig. 11, C, a destra) identici a quelli restituiti dallo scavo del Nuovo Ospedale, e poi li acquistano.
Per l’Artusi, che scrive il suo trattato pressoché negli stessi anni in cui Filippo Del Campana Guazzesi registrava uno straordinario album fotografico in un centro della Toscana, «le pentole di terra essendo poco conduttrici del calorico sono da preferirsi a quelle di ferro o di rame, perché meglio si possono regolare col fuoco, fatta eccezione forse per le pentole in ghisa smaltata, di fabbrica inglese, con la valvola in mezzo al coperchio»[30]. È possibile dunque che le contadine e le signore di San Miniato, come quelle i cui incidenti di cucina alimentarono i livellamenti di San Filippo, fossero dedite – per inveterata tradizione, più che per adesione ai consigli del maestro – alla cucina in piccoli o medi contenitori invetriati che miglioravano grazie alla ‘terra di Francia’ l’efficacia della risposta al fuoco del contenitore invetriato.
A Pontardeto, per contro, si doveva essere passati alla suppellettile da fuoco in metallo, data la scarsità di ceramica da cucina; domande, tuttavia, alle quali potrà dare risposte più articolate il progresso della ricerca.






I giorni della morte

Giorni della vita, con le mense che riflettono anche nelle dimore contadine l’eco delle finezze della terraglia inglese, assieme ai colori della tradizione popolaresca italiana, e giorni della morte, si è annunciato.
L’indagine archeologica sta offrendo il concreto contributo dell’evidenza di scavo ad un aspetto della vita quotidiana che fra Settecento ed Ottocento subisce un drammatico mutamento: la fine delle sepolture in area urbana, all’interno degli edifici di culto, l’affermazione finale, dopo decenni di resistenze, negli anni dell’Unità d’Italia, dei cimiteri extraurbani. Il costume funerario cristiano, più che millenario, subisce una impressionante cesura per precise disposizioni di legge, anticipate nelle Toscana lorenese già nel 1784[31], imposte dalle normative giacobino-napoleoniche rese celebri dai Sepolcri foscoliani.
Ancora nella prima metà dell’Ottocento, tuttavia, benché venisse favorita la pratica della sepolture nei cimiteri extraurbani, continua ad essere ampiamente conservata la procedura tradizionale della sepoltura in edifici sacri intramuranei; l’indagine condotta dal Dipartimento di Paleopatologia dell’Università di Pisa a Benabbio ha dimostrato che il sepolcreto extraurbano aperto nell’antico castello – tuttavia a ridosso di una chiesa – è strettamente legato all’epidemia di colera del 1855, e alle esigenze sanitarie legate a questa particolare contingenza[32].
Nel territorio lucchese i riti funerari degli anni dell’Unità d’Italia hanno trovato nel 2011 una tangibile documentazione archeologica nella pur limitatissima esplorazione del sepolcreto che negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta dell’Ottocento occupò l’ala meridionale, a ridosso della chiesa, del chiostro del San Francesco cittadino[33]: tombe individuali, formate da casse di laterizi, con copertura per lo più a volta (fig. 12, A), contrassegnate direttamente o indirettamente da iscrizioni (come quella del barghigiano Giuseppe Carlini, morto nel 1860: fig. 12, B-C) o cifre; la deposizione è entro bara di legno, in cui il defunto è posto abbigliato e con i segni della devozione – in primo luogo il rosario – stretti fra le mani. Anche se il sepolcreto del San Francesco è destinato alla fascia medio-alta della società cittadina di Lucca, come emerge da una cursoria lettura del repertorio epigrafico, è evidente l’evoluzione rispetto alla pratica settecentesca della ‘sepoltura murata’, collettiva e riutilizzabile, nella transizione verso la procedura usuale nei cimiteri extraurbani dello scorcio finale dell’Ottocento. Le condizioni ambientali hanno fatto conservare gli oggetti della devozione nella loro giacitura originale, come nel caso del Rosario dell’Addolorata (o dei Sette Dolori della Vergine) ancora fra le mani del Carlini (fig. 12, C), o del crocifisso ligneo e del rosario tradizionale che un sacerdote non identificato teneva rispettivamente sul petto e nelle mani (fig. 13, A-C). In questo caso l’umidità dell’ambiente ha conservato veste e calzari del defunto, mentre l’apparato osseo si presenteva pressoché disgregato.
Gli oggetti devozionali sono un indice della religiosità popolare che la documentazione delle sepolture collettive (le ‘sepolture murate’, con il termine tecnico usato fra Seicento e Settecento) sta permettendo di apprezzare con particolare puntualità; ai materiali del territorio lucchese e della Valdera è stata dedicata una mostra dal marzo al settembre 2011 nel Museo della Cattedrale di Lucca[34]. La mirabile sintesi offerta della Gallamini, ormai di più di venti anni fa, resta un significativo filo conduttore in questo aspetto della vita quotidiana[35], che la fonte archeologica permette di correlare con progressiva finezza ai contesti territoriali e, in parte, cronologici, facendo risaltare aspetti – ovviamente ben noti anche dalle altre fonti – nella trasformazione della sensibilità popolare.
La Garfagnana dell’Ottocento contribuisce alla ricerca con i materiali recuperati nella discarica di Castiglione di Garfagnana, esplorata nel 2006 fra le mura e la chiesa di San Pietro (fig. 14, A: cerchiello) in cui finirono in accumuli indistinti resti umani rimossi da sepolcreti per ora non individuati (fig. 14, D-E). Almeno due sepolture collettive (una integra, l’altra crollata: fig. 14, B-C) emerse sotto la discarica attestano la destinazione funeraria di quest’area, ma sembra poco plausibile che i resti ossei derivino da esumazioni da queste ‘sepolture murate’ tradizionali. Gli oggetti devozionali, in effetti, indicano che le deposizioni manomesse devono essere circoscritte fra l’avanzato Settecento e la prima metà dell’Ottocento; tuttavia, valutando la lunga conservazione, anche per evidenti motivi affettivi, di rosari e medaglie, sembra più probabile che le tombe demolite siano interamente riferibili alla prima metà dell’Ottocento, e forse da porre in un’area sepolcrale esterna al San Pietro e distrutta poco dopo gli anni dell’Unità d’Italia.
Gli oggetti devozionali, in effetti, tradiscono pratiche del culto e sensibilità religiose mutate rispetto a quelle settecentesche: non tanto per i crocifissi terminali di Rosario (fig. 15, A) – fra i quali può essere segnalato l’esemplare con San Tommaso d’Aquino sul diritto, e sul verso la preghiera con incipit crux mihi certa salus est ... tradizionalmente attribuita al santo filosofo domenicano, ma di origini assai più antiche, nota già fra V e VI secolo (fig. 15, B)[36], quanto per il tradizionale rosario con grani di pasta vitrea azzurra e medaglia con simboli della Passione su entrambi i lati, associato a versetti della preghiera Anima Christi: Corpus Christi salva nos, Passio Christi conforta me (fig. 15, C). Il tipo di San Pietro ha una replica in un esemplare privo di dati di ritrovamento, riferito all’avanzato XVIII secolo, anche se i soggetti sono di duratura fortuna[37].
Anche la medaglia con Vergine Lauretana e santo in preghiera (forse Sant’Antonio) può essere datata fra l’avanzato XVIII e i primi decenni del secolo successivo (fig. 16, B), quando il culto lauretano viene progressivamente messo in ombra dalle nuove forme della devozione mariana che trovano una bella dimostrazione nelle medaglie devozionali con cui scese nella tomba dell’oratorio familiare di Mammoli una signora intorno al 1865: la medaglia miracolosa di Santa Caterina Labouré, le immagini con l’Immacolata Concezione[38].
Significative della religiosità ottocentesca sono piuttosto altre evidenze: le medaglie pertinenti a Rosari dell’Addolorata (fig. 16, A)[39], già in uso nei secoli precedenti ma sin qui marginali nei contesti sei-settecenteschi, con i grani intercalati a medaglie caratterizzate su un lato dall’Addolorata, trafitta dalle Sette Spade, e le figurazioni dei Sette Dolori della Vergine sull’altro; culti ottocenteschi, come la devozione per la Beata Vergine della Fossetta di Novellara, affidata ad una medaglia datata al 1846, con un tipo già noto per questo culto della terra emiliana (fig. 16, C)[40]; la Madonna celebrata come Vergine del Rosario e del Carmine, in un tipo datato dal poderoso repertorio del Martini agli anni 1846-1860 (fig. 16, D)[41]; Santa Filomena, una inventio del 1802 destinata ad una immediata fortuna, fino alla recente revisione critica del culto, con la santa con i simboli del martirio, che quasi si solleva nella teca che la accoglie (fig. 16, E)[42].
Un rapido viaggio in un Ottocento visto con gli occhi dell’archeologo, in testimonianze che trovano nella possibilità di essere riferite a precisi contesti cronologici, culturali, sociali, i suoni più convincenti: è dalla massa di dati che nel convegno del settembre 2011 si sono accumulati sulla Garfagnana di questi decenni che i piatti di Pontardeto e i ‘segni della devozione’ di Castiglione trovano la luce capace di farne un vivace documento di un mondo che è tanto vicino – il mondo delle generazioni che alcuni di coloro che scrivono hanno conosciuto, padri e nonni – ma ormai anche molto lontano.


[1] G. Ciampoltrini – P. Notini, Per l’archeologia del XIX secolo in Garfagnana (1796-1861), in La Garfagnana dall’arrivo di Napoleone all’Unità d’Italia, Atti del Convegno di Castelnuovo Garfagnana 2003, Modena 2004, pp. 403-431.
[2] Ancora fondamentale è l’indagine sui contesti d’età contemporanea di Larciano: Larciano. Museo e Territorio, a cura di M. Milanese, A. Patera, E. Pieri, Roma 1997, in particolare pp. 100-125 (M. Milanese), oltre ai vari contributi in «Archeologia Post-Medievale». Si vedano anche le edizioni dei contesti di Massa e Cozzile (Il castello e l’uliveto. Insediamento e trasformazioni del paesaggio dalle indagini archeologiche a Massa in Valdinievole, a cura di M. Milanese e M. Baldassarri, San Giovanni Valdarno 2004); di Calcinaia (Dal castello alla “terra murata”. Calcinaia e il suo territorio nel Medioevo, a cura di A. Alberti e M. Baldassarri, Firenze 2004); Santa Maria a Monte (G. Ciampoltrini – R. Manfredini – C. Spataro, Il lavatoio di Valle Fontana a Santa Maria a Monte. Archeologia di un monumento del secolo XIX, Ponte Buggianese 2004, in particolare pp. 7 ss.: G. Ciampoltrini; pp. 45 ss.: G. Ciampoltrini – R. Manfredini).
[3] Scavi 2009-2010, condotti grazie alla disponibilità della Polis S.p.A. proprietaria dell’area, e documentati da Elisabetta Abela e Susanna Bianchini, con la collaborazione di Sara Alberigi, Serena Cenni, Maila Franceschini, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana (Giulio Ciampoltrini).
[4] Ciampoltrini – Notini, art. cit. a nota 1, pp. 404 ss.
[5] Le riprese aeree disponibili nel sito di cartografia Geoscopio, della Regione Toscana (http://web.rete.toscana.it/sgr/webgis/consulta/viewer.jsp) documentano puntualmente la demolizione dell’edificio tra 2009 (fig. 1, B) e 2010 (fig. 1, C, con la pista stradale già tracciata).
[6] Anticipazioni in P. Notini, Pontardeto e la casa che non c’è più, «Corriere di Garfagnana», XX, 5, maggio 2011, p. 6.
[7] D. Zühlsdorff, Keramik-Marken Lexicon: Porzellan und Keramik-Report 1885-1935, Stuttgart 1994, p. 565, 3.851.
[8] Si veda la bella sintesi di La terraglia italiana, note di G. Morazzoni, a cura della Società Ceramica Italiana Laveno, Milano s.d. (1958), pp. 147 ss.; per la Toscana, Larciano, cit. a nota 2, p. 123 (M. Milanese).
[9] Zühlsdorff, op. cit. a nota 7, p. 564, 3.842 (con altri riferimenti).
[10] Zühlsdorff, op. cit. a nota 7, p. 545, 3.692; Larciano, cit. a nota 2, p. 123, fig. 28/124-125 (M. Milanese).
[11] Zühlsdorff, op. cit. a nota 7, p. 564, 3.841; La terraglia, cit. a nota 8, pp. 161 ss.
[12] Larciano, cit. a nota 2, pp. 122 ss. (M. Milanese).
[13] La terraglia, cit. a nota 7, p. 152.
[14] Per questo C. Fissore, La ceramica a Mondovì nell’Ottocento. Piemonte Italia Europa, a cura di S. Pettenati, Torino-Londra-Verona-New York 2009, p. 149; Larciano, cit. a nota 2, pp. 122 ss., fig. 26/115 (M. Milanese).
[15] Si veda G M in C. Baggioli, La ceramica “Vecchia Mondovì”. Appunti per una storia delle ceramiche del Monregalese, Cuneo 1973, p. 161, ma di cronologia decisamente anteriore, e apposto ad impressione.
[16] Per le produzioni di Mondovì, dopo il classico lavoro di Baggioli, op. cit., si veda M. Meli – M. Guiddo – L. Menegati, La ceramica monregalese del ’900. Dalla ‘vecchia Mondovì’ ai giorni nostri, Terzo d’Acqui 2003; per la diffusione in Toscana, si rinvia ai cenni di Ciampoltrini – Manfredini – Spataro, Il lavatoio, cit. a nota 2, p. 10; pp. 45 s., con altri riferimenti bibliografici. Per le produzioni vicentine (ma anche di San Giovanni Valdarno, strettamente esemplate su questi modelli) si rinvia a Ceramica popolare vicentina dell’Ottocento. La collezione della Banca Popolare di Vicenza, a cura di F. Rigo, Ginevra-Milano 2007.
[17] Rispettivamente Fissore, op. cit. a nota 14, p. 204, n. 154; La ceramica Galvani di Pordenone. Storia e sviluppo di una manifattura, a cura di A. Rosa, Pordenone 2004, p. 53, n. 54, con altri riferimenti.
[18] P. Di Sacco, La fabbrica della ceramica: la Richard-Ginori in San Michele degli Scalzi a Pisa, Pisa 2005.
[19] F. Marzinot, Ceramica e ceramisti di Liguria, Genova 1979, pp. 327 ss.; Nero & giallo. Ceramica popolare ligure dal Settecento al Novecento, a cura di V. Fagone e S. Riolfo Marengo, con schede di A. Cameirana, Milano 1989, pp. 25 ss., schede 89-112.
[20] Ciampoltrini – Notini, l. cit. a nota 4.
[21] Scavi 2009-2011, condotti nell’ambito del progetto di costruzione del Nuovo Ospedale, con l’attività di documentazione affidata alla Cooperativa Archeologia – cui si devono rilievi e immagini di fig. 7 – e in una seconda fase ad Alessandro Giannoni, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana (Giulio Ciampoltrini).
[22] Si veda ad esempio G. Ciampoltrini – M. Cosci – C. Spataro, I paesaggi di Peccioli e della Valdera dal Medioevo all’Ottocento tra scavo e ricerca aerofotografica, in Peccioli e la Valdera dal Medioevo all’Ottocento. Itinerari archeologici fra Pisa e Volterra, a cura di G. Ciampoltrini, p. 28, fig. 35.
[23] Si veda ad esempio, per Albissola, Nero & giallo, cit. a nota  19, pp. 10 ss.
[24] Si veda il repertorio di J. F. Petrucci, Les poteries et les potiers de Vallauris 1501-1945, II, Thèse de doctorat 1999.
[25] Per la diffusione di queste classi di ceramica da fuoco, si rinvia a Ciampoltrini – Manfredini – Spataro, Il lavatoio, cit. a nota 2, p. 10.
[26] Se ne veda per contro la fortuna nel Valdarno: Ciampoltrini – Manfredini – Spataro, Il lavatoio, l.c.
[27] Per questo si veda Ciampoltrini – Cosci – Spataro, Paesaggi di Peccioli, cit. a nota 22, p. 28, fig. 34; M. Milanese, Da Pisa a Montelupo: aspetti e problemi della produzione ceramica nel Basso Valdarno (XV-XIX secolo) tra monolinguismo dell’ingobbio e serialità tipologica, in I Maestri dell’Argilla. L’edilizia in cotto, le produzioni di laterizi e di vasellame nel Valdarno Inferiore tra Medioevo ed Età Moderna, a cura di M. Baldassarri e G. Ciampoltrini, San Giuliano Terme 2005, pp. 89-103.
[28] Il silenzio del negativo: Filippo del Campana Guazzesi fotografo a San Miniato, a cura di G. Marcenaro, Genova 1982, pp. 103-115.
[29] Per questo come fonte documentaria delle tipologie ceramiche fra Sei- e Settecento, si veda Castelfranco di Sotto fra Cinquecento e Settecento: un itinerario archeologico, a cura di G. Ciampoltrini e R. Manfredini, Bientina 2007, p. 51 (G. Ciampoltrini).
[30] P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, a cura di P. Camporesi, Torni 2001, p. 35.
[31] Utile in merito l’analisi documentaria condotta da P. MORELLI, La Compagnia dei SS. Iacopo e Filippo di Alica e la sua “sepoltura murata”, in Alica Castello della Valdera, a cura di P. Morelli, Pisa 2002, pp. 79-85.
[32] Per il momento si veda la sintesi di A. Fornaciari, Indagini archeologiche al castello di Benabbio in Val di Lima, in La Rocca di Villa Basilica. Archeologia e restauro, Atti del Convegno di Villa Basilica 2008, a cura di G. Ciampoltrini e E. Romiti, Lucca 2009, pp. 93-103.
[33] Scavi 2010-2011, nell’ambito del progetto di recupero funzionale, promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, documentati da Elisabetta Abela, con la collaborazione di Serena Cenni, Maila Franceschini, Silvia Nutini, Kizzy Rovella, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana (Giulio Ciampoltrini).
[34] I segni della devozione. Testimonianze da sepolture murate fra Lucca e la Valdera (XVII-XVIII secolo), a cura di G. Ciampoltrini e C. Spataro, Bientina 2011.
[35] P. Gallamini, La medaglia devozionale cristiana: secoli XVII-XVIII-XIX (parte II, secolo XVIII), «Medaglia», 18, 1990, pp. 60-124; Ead., La medaglia devozionale cristiana: secoli XVII-XVIII-XIX (parte III, secolo XIX), «Medaglia», 19, 1990, pp. 93-120 (in seguito citato Gallamini, Medaglie III).
[36] Si veda ad esempio, con bibliografia, A. Manfredi, Un altro codice per Zanobi da Strada, in L’antiche e le moderne carte. Studi in memoria di Giuseppe Billanovich, a cura di A. Manfredi e C.M. Monti, Roma-Padova 2007, pp. 362 s.
[37] Reperibile all’indirizzo http://lamoneta.it/topic/64774-medaglia-passione.it.
[38] G. Ciampoltrini – S. Cenni, Lucca. Mammoli: deposizione del XIX secolo nell’Oratorio della Madonna, «Notiziario Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana», 3, 2007, pp. 67-71.
[39] Gallamini, Medaglie III, p. 75; R. Martini, Collezione TAM: medaglie devozionali cattoliche moderne e contemporanee (1846-1978), 1-2, Milano 2009, pp. 819 ss.
[40] R. Martini, op. cit., p. 120, n. 865: al D/ Beata Vergine della Fossetta di Novellara, e legenda b. v. della fossetta di novellara 1846; al R/ Cuori di Gesù e Maria, e legenda sacri cuori di gesù maria; per questi Martini, op. cit. a nota 36, pp. 115 ss.
[41] Martini, op. cit., pp. 217 ss., nn. 1414-1415.
[42] Gallamini, Medaglie III, p. 98, fig. 104; Martini, op. cit., p. 567, n. 407.

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