venerdì 31 dicembre 2010
L'anno dell'acqua e della ghiaia
Son morte le ghiaie del cimitero, ingannevoli come Muse di Esiodo, che l'archeologa sagace, anfibiamente trasformata in Salamandra al nascere dell'inverno, vide dove ci si attendevano cimeli etruschi; ed etrusche sono, come etrusco era l'Auser padre di mille capanne e cento villaggi, sparsi dall'Esarulo all'Arno, dall'aggere che Paolo con Silvio scava, sino al Castellare sognato sette anni fa con Marcello e Consuelo.
Morte ghiaie di un fiume vivo più in là, spostato ad occidente, come dicon faccian tutti i fiumi, e chi qui lascia intrecciati canali (ambiente braided, dice Augusto) di rotte o divagazioni, mentre stavan sicuri un po' più in là, sul dosso di sinistra, gli Etruschi dell'Arancio. Ed Elisabetta e Serena e Silvia e Patrizia, e poi Kizzy con Maila, di qua, le Salamandre, e Domenico e Silvia ed Elena là, e tanti altri che la Rossa Struttura ruota, vecchi compagni sempre sospettosi del mutar di parere del Politburo.
L'anno delle ghiaie, quello che chiude il decennio, misteriose, inquietanti, quasi che un De Chirico perverso avesse proposto per gli archeologi della Terra dell'Auser un ventre pieno di ciottoli e ciottoletti, e sabbie, che escono in differenziata sequenza. Le ghiaie ambigue di San Filippo, le solide ghiaie della via di Sara, che canta parole all'Anno Nuovo, trovate in luoghi inattesi sulle rive dell'Arno vagante, ambigue per gli anni che raccontano, solido manto di una via che andava al grande fiume che l'archeologo giovane abbracciava sotto l'occio del padre che avrebbe ricordato i suoi cent'anni, da domani.
E infine, ambiguità suprema, supremo connubio dell'acqua che le genera le seppellisce le trasforma, le ghiaie che un sagace ed inconsapevole escavatore del Consorzio di Bonifica dell'Auser – segno ultimo del destino – ha giustamente scavato, guidato dalle Ninfe del Frizzone nei sogni alimentati da strade perdute, e ci regala poco prima del solstizio, quando le ombre infinite velano ed accendono il gorgoglio dell'Arpino su ciottoloni misteriosi che paiono quelli della via voluta dai coloni di Augusto per andare da Lucca a Firenze, i capisaldi del regime in una terra inquieta. Son loro, se lo dicono anche Augusto ed Alessandro non c'è dubbio, lì vicine, irraggiungibili, protette dalle Ninfe veloci dell'Arpino, le ghiaie di Quinto. metafora estrema dei sogni di un archeologo, che chiude il decennio, che quasi chiude il trentennio, senza rimpianti, come i parà di Algeri, ma con infinita nostalgia per le acque che per sempre scorreranno sulle ghiaie, e ricordando – con gli amici antichi persi su solide colline fra i fiumi di là dal Grande Fiume – tutti i compagni del viaggio nel Passato.
giovedì 23 dicembre 2010
Natale francescano nella campagna di Lucca
Non doveva essere difficile imitare San Francesco, nella povertà, nelle oggi ridenti colline di San Martino in Colle, che di qua guardano Lucca, di là la Valdinievole, fra Seicento e Settecento. Il Sant'Antonio con il Bambin Gesù avrà consolato o rassicurato gli ultimi giorni di qualche francescano in spirito e nei fatti, ed era fresco, appena appena consumato dalla preghiera.
Oggi ci ricorda un altro Natale, che è anche un Natale perenne, nei sentimenti dell'ignoto contadino che lo strinse mentre scivolava nella tomba affollata dei suoi compagni di vita e di devozione.
Auguri a chi crede in ciò in cui credeva Sant'Antonio, ma anche a chi rispetta i sentimenti del contadino di San Martino in Colle, vissuto trecento anni fa più o meno.
lunedì 20 dicembre 2010
Argentee devozioni
Sono d'argento le devozioni dei Guinigi, nel segno del Volto Santo dell'anno 1564 o un po' dopo, moneta divenuta segno sacro, lucida dal tatto delle preghiere degli anni della Controriforma, quando dalla città tra Serchio ed Auser si migrava anche per Ginevra; o si consumava il Salvator Mundi, l'antico segno giunto d'Oriente sulle rive del Tirreno, forse portato da mercanti, forse da pirati, negli anni delle devozioni longobarde per il Santo Salvatore, e dei Siriaci pontefici romani.
Poco interessa l'altra faccia, le quattro lettere in croce della città protetta dalla sacra icona; quello che conta è l'immagine della sofferenza, trasfigurata dalle vesti regie che ovattano il dolore. Forse la speranza del Guinigi (o della Guinigi) che se lo portò nell'ultima dimora, da cui due o tre volte cambiò stato, fino alle mani della Compagnia dell'Anello. Quindici bolognini d'argento, per alcuni; per altri viatico estremo.
mercoledì 15 dicembre 2010
Il presepe etrusco nella Terra dell'Auser (ovvero: gli Etruschi di Porcari e a Porcari)
Ricorda tanto, troppo, i presepi di un'infanzia perduta, mai goduta, negli anni in cui ancora s'andava a prender l'acqua alla fonte con il secchio (bella Toscana dei versi di Fucini) e il povero calore di inverni perduti era di legna del bosco tagliata e comprata nell'antro di Vulcano. Cinquant'anni che sono un secolo, e sembrano due ...i comunisti erano comunisti (ora sono subneodemocristiani e anche il compagno Massimo ama Pound, che delusione) e i democristiani andavano in chiesa (ci vanno ancora, con i comunisti a bubbolare fuori). Ma il presepe era amato da tutti, un giocattolone, fra misticismo e ritorno ad un'infanzia sempre più in là, che quasi aveva i colori del giallo e nero delle marmitte tipo Alpes Maritimes (ossessione dell'archeologo).
Ed a Porcari, in questo Natale tra Wikileaks e Weltschmerz di chi tanto ha i cinque o diecimila euro di stipendio di professore ordinario assicurati, e poi piange perché è così fine piangere, ohi l'Italia un disastro nelle mani di questi cialtroni, forse arriveremmo a ventimila, con qualche consulenza, e i figli e le amiche bisognose, non c'è bisogno di pelliccia per Natale (politically uncorrect) ma un viaggetto fa sempre comodo, amplia gli orizzonti.
La Cristina e gli amici di Grosseto, forse con Weltschmerz da IVA+IRPEF+Contributo INPS+Commercialista (i professori chic & snob pensano allo spin-off, nuova strategia dei dotti post-fichtiani) impastano un presepe per Etruschi, a Porcari, vagheggiato da un archeologo che si è rotto abbastanza di Weltschmerz e Professori da diecimilalamese, dopo trent'anni a inseguir ghiaie di fiume e strade (o viceversa). Ma il Fiume trionfa, l'Auser padre di tutti gli amori e di molti Fregnoni (il blog ha le sue regole), con un dosso un po' troppo alto (censurerebbe Augusto), ma che fa effetto, un fiume un po' stretto (ma sarà d'estate, il fiume è in secca, non come in questo autunno quasi inverno del 2010, che il Dio delle Vette impera).
La tomba è giusta, il pozzo anche, la capanna come la vedemmo con Paolo Pallino (ora assassino, ahinoi, ci mancava anche questa) e Bruno che più non c'è, con la sapienza fredda ed acida di tanti anni fa, quando non c'era Wikileaks e scarseggiava Weltschmerz, l'edonismo reaganiano e gli anni da bere (primo o poi li apprezzerà ancher Massimo ...).
Mancano ancora i personaggi, nel presepe etrusco di Porcari, ma oggi lo popolano, pochi, come negli anni del V secolo a.C., ma buoni, validi.
E l'archeologo lo popola, in attesa di un Natale meno rompino, chissà, con Sant'Anastasio e la sua testa delle Tre Fontane a curare un po' di nevrosi e depressioni di chi non accetta per sé un po' di Selbstschmerz, e vuole Weltschmerz per tutti, dei compagni di viaggio di questi venti e più anni, da quando la capanna del Chiarone, palo su palo, si rivelò al monde dei tre sodali più il quarto in Lada Niva che affrontavano pantani e melme per trovare l'ansa del grande fiume, e la sua storia di milleduecento anni, fra Etruschi e Romani.
Paolo, che vide i pali, e li vede, quando vuole; non ci son più Pallino, mite e bravo, tanto da schiantare dopo infiniti anni di pazienza, e Bruno, ucciso dall'artrosi e dal lavoro, ma almeno aveva goduto le gioie del fuoristrada e dell'Islanda. Ed Augusto, che troverebbe qualcosa da dire. E con Paolo, Silvio, perché la vita e l'archeologia continuano.
E poi non credono al Natale, non credono a nulla (speriamo almeno in se stessi questo sì, perché son bravi, ma non è sicuro), gli amici che negli anni dei pali del Chiarone erano altrove: Alessandro che fa il museo, Sara che trova la strada, Consuelo mulher rendeira che ricama i cocci e li lustra, e poco manca che ci prepari la zuppa povera dei nonni. E le sei archeologhe sei (più una, a meditare) della Compagnia dell'Anello, corifea Elisabetta necrofora Serena, mater Irene, Maila che vuol diventar madre, e Silvia e Kizzy, che chissà che vogliono, mentre lustrano i muri francescani.
E popolato il presepe con i duri subneocomunisti della mitica Coop, struttura staliniana avvezza ai paduli, che trovò il tumulo ma non il cippo, l'archeologo zio che da giovane studiava il russo e la lingua di Mosé saluta tutti, e ritorna al trobar clus.
domenica 12 dicembre 2010
Dal Verde & Nero al mattone: la sera del Medioevo a Castelfranco (ovvero: Castelfranco di Sotto nel Medioevo)
Si ritrovano antichi amici e nuovi appassionati, nella sera decembrina distratta dal Natale ma non per quei quaranta che riempiono la sala nuova dell'antico Consiglio Comunale, a Castelfranco, settecento anni ed oltre di vita pubblica di documenti. È archeologia pubblica, dice Guido venuto da Firenze per amicizia e passione, anche se non sa di esserlo, quella che si fa stasera a Castelfranco, per presentare il Medioevo ritrovato e ricucito in centododici pagine scarse di caratteri e ricche di figure, tutte a colori, di un Medioevo archeologico che inizia con la monocromia arancio delle sigillate venute d'Africa, e finisce nei volti tardogotici o protorinascimentali dei pittori di Montelupo, che di nuovo, come i remoti predecessori della Proconsolare o della Bizacena, lavoravano per il mondo e lo sapevano.
Il signore della sera e del Medioevo è il mattone, figlio delle fornaci lungo il fiume, la materia in cui terra fuoco acqua si fondono per elevare al cielo il 'castello perfetto', sognato dai fondatori vissuti per mille e duecento anni nei villaggi nati dai fundi dei veterani di Augusto. Mattone liscio, o nei ghirigori misteriosi che sfidano l'esegesi di chi è avvezzo più ai colori di Berlinghiero o di Coppo, che agli intagli visti nelle antiche case di legno, chissà.
Splende l'insegna che sarà del Comune, ed è ancora di San Pietro, e l'archeologo che trentacinque anni fa rubava alla terra i volti tardogotici di misteriose figure incappucciate sente rombare, come nell'Arno in piena, le correnti del tempo.
venerdì 10 dicembre 2010
Il filo d'Arianna dell'architetta appassionata nel labirinto della perduta cattedrale di Lucca
Non ruggisce, ma stride piuttosto l'antico leone della savana, incerto se seguire il fiume o la strada, dopo che il pasto fornito dalla tribù dei Legumi, pur lauto e comodo, bufale ben macellate, in tagli freschi, è finito. Giovani leonesse si aggirano dove suonano le acque dell'Auser, argentine su greti scintillanti o plumbee in gore palustri, e sanno chi scegliere per generare leoncini.
Ma è dolce aggirarsi nel Labirinto dell'antica cattedrale, in questi giorni d'inverno, in pia compagnia di dame passionevoli ed appassionate, capaci di accogliere sempre con un garbato sorriso, anche quando ulula lo scirocco che prepara la tramontana. Donne garbate e signori perbene, qualche volta capita, celebrano la fatica di chi ha ridato colore ai pavimenti che volle Maximus a Tuscia de Luca, e che una Soprintendente gradevole quando era il caso, e amica degli archeologi, volle rifulgessero, Gianna Piancastelli, che presto se ne è andata. E fresche luci, gelide e severe, sul ritrovato verde, sul poco rosso, sul bianco e sul nero che all'archeologo ricorda la passione non ricambiata di venti anni fa, la passione conquistata dieci dopo, in giornate romane che si perdono nelle nebbie della memoria, per i colori d'autunno di Piazza Navona, nei giorni di studio dell'AIEMA, novembre 2001.Ma fra tutti eccelle, come avrebbe celebrato Alcmane, per passione ed appassionato coinvolgimento l'architetta che traccia un amabile filo d'Arianna nel labirinto che non è quello del San Martino, ma fiero di scabre pareti rosse e di pietra, di pezzi di pavimenti che galleggiano sul Leca. Vola leggera, Ilaria da Fucecchio, al secolo Barnini, fra i pannelli che ha dipinto, figli conquistati in giorni infiniti di telefonate non sempre gradite dal vecchio archeologo, troppo vinto tuttavia dalla passione altrui per non indulgere ad una meritata celebrazione.
Esistono anche persone perbene, sulla faccia della terra (e alla faccia di qualcuno).
domenica 5 dicembre 2010
I Capponi cotti dalle archeologhe di Lucca (e dintorni)
Il pranzo domenicale è con i Capponi, forse un po' indigesti per l'archeologa perseguitata dalla sindrome ossessivo-compulsiva dell'archeologo rimba (dicono gli antichi dotti di archeologia di Lucca e i seguaci loro, inseguendosi su pagine stanche di gazzette troppo veloci per apprezzare il quieto scorrere dei fiumi etruschi, o troppo lenti per goderne le sonorità di ciottoli e terra). Ma Sara è gentile, e veloce giunge lo stemma robbiano che esalta sui muri di Pescia i Maestri capponiani dell'Altopascio, specchiandosi nel piatto montelupino di foglie gotiche, che ne asseverano il committente nel Guglielmo che riempiva volte di mattoni risuscitati dalle macerie con lo stemma di famiglia. Ma qui s'inorgoglisce del tau d'argento, e l'uomo bestiale e temerario che malmenava i confinanti (dice il Guicciardini, beninteso) trasfigura l'orgoglio della schiatta nella crux patibularis degli antichi cultori dell'accoglienza, dei ponti, della questua (e dei prestiti, dice Meyer).
giovedì 2 dicembre 2010
Da Altopascio all'Eufrate, passando per i rilievi di Sara e i sogni di al-Wasiti
Guizzano in alto e s'annodano d'archi i pilastri impastati di ciottoli quarzite malta e terra che Sara estrasse dalla piazza di Altopascio in anni in cui le cose sembravano diverse, ed erano come sono ... guizzano come gli archi che i Cavalieri del Tau, che non erano cavalieri ed erano frati un po' strani, innalzarono con i denari d'Italia, di Francia, d'Inghilterra, di Spagna e di Germania, negli anni di Federico II, per riscaldare i pellegrini e i loro amici sulla via di Roma e sulla via di Santiago. Sopravvissuti al bestiale e temerario Guglielmo Capponi (come lo vide il Guicciardini), vescovo strano come erano strani i Rettori del Duecento che intrecciavano tresche con Federico e Pier delle Vigne, e manovravano quintali di soldini perdendone qualcuno in qua e in là nelle acque del lago, trovano colore inaudito negli archi moreschi di al-Wasiti, dipinti per al-Hariri più o meno negli stessi anni. Si rincorre il Medioevo d'Oriente e d'Occidente, si scambia beni e merci, fra qualche scontro e un po' di massacri, nelle logge d'Oriente e d'Occidente, fanadiq e pandocheia, logge e chiostri di frati e di mercanti.
Un Medioevo a colori, ogni tanto.
sabato 27 novembre 2010
La neve sugli Etruschi della Garfagnana, al tramonto dell'autunno
Sale con passo saldo, Paolo, sulla prima neve dell'anno, che per un giorno protegge e seppellisce gli Etruschi della Murella, tre volte scoperti, due volte scavati, in un intreccio fantasmagorico di colori e pietre e cave del Settecento e buche di palo, pesi taralli cocci iscrizioni che fanno spuntare case di legno sul sonoro sfondo del Serchio e dell'Esarulo, vie che salgono verso passi innevati dai quali s'illumina la terra dell'Eridano. Oggi due soli colori, il livido riflesso della terra, il bianco pastoso di una neve che cerca il suo regno.
È il tramonto dell'autunno, un autunno condiviso dai due amici dei Segni della Terra, trent'anni dopo, dopo la primavera nel fresco fango di un sepolcreto etrusco salvato in un remoto novembre per essere risepolto in un museo, con sobrio decoro di luci, e l'estate sui castella dei Liguri e sui castelli dei signori di montagna e degli Estensi.
L'autunno ci lascia nella speranza e nell'attesa delle lame di sole dell'inverno.
lunedì 15 novembre 2010
Cantar di mura e suonar di cocci. Ritornando ad Altopascio
Si vorrebbe sentir Raimbaut o ripetere i versi e il suono di Jaufré, veder villanelle languide attendendo l'alba o dame inattingibili come funzionari di Direzioni Superiori uscire e rientrare da ferree pareti, davanti alle mura che il viandante bramava al tramonto, il contadino affittuario paventava tutto il giorno. Solo un sogno è questo per l'archeologo che per sindrome ossessivo compulsiva, senza più saper perché lo faccia, venticinque anni dopo indaga strato di ardesia su strato di terra e livelletti e livellini, cuciti da Paolo su pietre di quarzite con la pazienza sapiente delle montagne antiche, illuminati in verde e nero quando la sorte è benigna, più spesso nel bruno e nell'avana di un Medioevo a colori solo nelle miniature e nelle tavole di Berlinghiero.
Certo, non come quello del Romeo, o di chi lasciava la dolce terra di Toscana per cercar Saint Gilles o Santiago, è faticoso il viaggio dell'archeologo per Altopascio, dismesso da un anno, una sosta fra le paludi e i boschi umidi di querce e ontani, sfuggendo banditi e i cavalieri dell'Imperatore, peggio forse dei banditi. Preparare spartiti per mura concertanti, documenti equivoci, le storie viste e amate da Giuseppe, attendendo i riquadri di Sara e i dobloni dell'amico delle Venezie ... quasi come confezionare accompagnamenti per improbabili filmini su Garage Band ...
Ma il suono, infine, è sconvolgente, nello stridore attutito da sfumati e distinguo, che ne fanno un impasto gregoriano. E si segue il cavaliere e il pezzente, sotto la torre, davanti allo spedale, scrutato dal Palazzo del Rettore, per sceglier sua dimora nel chiostro con gli affreschi o sulla paglia sotto le mura.
sabato 6 novembre 2010
Olive e Frutti della Terra nell'autunno del Valdarno
Sullo spigolo di terra che tocca il cielo, scivolando dall'una e dall'altra parte nel verde pregno di giallo dell'autunno novembrino, in una sera illuminata dal sole e dall'entusiasmo, in attesa della pioggia e del disincanto del domani, c'è chi sottrae al bacio del sole olive ripiene di umori e di storia, e chi traccia segni sulla sabbia in cui s'affissano olivi giovani e olivi antichi.
Sono antichi anche gli amici che intrecciano suoni con la comitiva che celebra i Giorni dell'Olio, sacro e rinnovato rito della terra toscana, di queste colline del Valdarno, in cui i due fluidi generati dall'argilla e dalla sabbia in questi giorni celebrano le ultime feste della stagione e dell'anno, dopo che le piscine in cui si sono rigenerate le vetuste dimore dei mezzadri son chiuse, è finita l'epoca delle migrazioni, se non per gli aironi che vanno di bolina verso le rinate paludi dell'Auser.
Tanti da non contarli più sono gli anni condivisi a cercare, più amati dei tartufi, nel suolo devastato dall'erpice o nelle scarpate volute da padroni e mezzadri, cocci e coccetti, risibili prede per chi non sa quanto sia devastante la suggestione del passato, la voglia di ritrovare se stessi nei Segni della Storia. E ora di nuovo, tanti anni dopo e dopo tante occasioni, le pie donne di Marti e gli amici di Segni dell'Auser, carichi come lui della fatica degli anni ma come lui ancora spinti come i sodali di Ulisse dalla curiosità del sapere, si chinano scricchiolando le ossa sotto gli olivi, a grattare una sabbia dorata come le foglie che si preparano all'ultimo volo, per riconoscere il rosso del coccio, il bianco della pietra, il nero dell'uomo e della sua vita.
E quando un coccio più ricurvo degli altri, con un buco che spunta sotto le squame della sabbia, dichiara «Bronzo Medio», più o meno 2 o 2A poco importa, la festa è grande.
domenica 31 ottobre 2010
La zuppa di Alessandro (e di Elena): ritrovar tabernae degli anni della tormenta
Non il vino di Sara, imbottigliato in anfore di Empoli, ma quello del Tosso poteva acompagnare, negli anni di Alessandro Severo, dei Gordiani e di Massimino, di Decio e Gallieno, della guerra alle porte d'Italia e in Italia, dei curatores rei publicae impegnati a salvare nei ruderi di città morenti i segni del potere, la zuppa che ci cucina, mirando dall'alto il frutto delle sue fatiche autunnali, Alessandro; ed Elena, nella forza serena del suo sorriso mirato altrove, assicura il suo sostegno.
Ceci lenticchie chicchi che attendono dotti paleobotanici si spandono intorno ai segni del fuoco, nel cortile della taverna spersa nella campagna che era di Luca ed ora è orgogliosamente di Capannori, il profumo delle verdure e dei legumi che si scaldano alla brace per accompagnare il pane, seppur non ancora in zuppe longobarde, par quasi tornare in una giornata d'autunno in cui i cammelli e le musiche del circo migrante, lì vicino, evocano straordinarie suggestioni delle feste di campagna, delle nundinae, in cui servi e coloni e qualche militare di passaggio potevano riscaldarsi un attimo al fuoco che nella pentola, con il vino del Tosso o del Valdarno, aiutava ad arrivare al domani, fidando nelle legioni esaltate nel sarcofago Ludovisi, i succinti pastori e contadini del sarcofago di Iulius Achilleus.
venerdì 29 ottobre 2010
Il lacus di Sara e i giorni di Dioniso fra l'Arno e l'Era
Per il verde esangue dei pantani fra l'Arno e l'Era e il remoto Arme, andando verso il verde delle Cerbaie, si arriva all'archeologa che estrae dall'impasto di limi generato dai tre fiumi memorie inattese di un atteso passato. Tracciate dalle invisibili linee dei decumani e dei kardines di una centuriazione appena sognata seguendo lo stanco profilo di un veterano di Augusto, emergono dal fango le faglie di strati che con i colori delle terre sepolte evocano gli anni di guerre civili di Roma, e le masse cementizie che disegnano il lacus che in giorni come questi o poco prima avrebbe generato il vino dell'Arno, il Florentinum della Coena Cypriani o il frutto della uva Pariana di Pisa celebrato da Plinio.
Quasi volando sul fango che impasta i relitti del granturco e le trincee di nuovi acquedotti, Sara dà conto del suo impegno, mentre porta luce nel bianco del cementizio e nel rosso del signinum o come vogliano i raffinati esegeti dei segni del passato chiamare l'impasto di cocci tritati e cementi che accoglie il catino purificatore.
È questa la stagione del vin novello, la vendemmia è appena passata, la festa rurale di Dioniso che rigenera il mondo dall'uva spremuta e dal vino che dà tregua ai dolori della vita.
Un autunno festoso, con i verdi colori della primavera, per Sara che celebra i giorni del Vin Nuovo.
domenica 24 ottobre 2010
L'archeologo tra Paese dei Balocchi e il Tramonto sulla Valdera
Si conclude al tramonto, in Valdera, sotto cieli increspati di pioggia, la sera del ricordo, per l'archeologo carico di anni: dove folleggiavano i deliri del '68, nella sala che vide i fasti della Preistoria e Protostoria in Valdera in una magica sera del 2003, pochi amici celebrano e onorano il loro impegno, fatto di immagini nutrite dalla luce delle colline e della pianura fra l'Arno e l'Era, di cocci che ricordano storie antiche, ritrovate per la scienza e per la curiosità. Il Gruppo Tectiana si riconosce in queste vetrine di legno e vetro, scansie sottratte al rigattiere, dove stecche di legno scandiscono cocci amati e desiderati, figli di una passione comprensibile solo a chi ama i Segni della Terra.
Una sera intima, dimessa, mentre l'agitazione all'esterno rievoca altri momenti e altri movimenti, scavando colori e suoni perduti nella memoria, sepolti come l'ambigua traccia di quegli anni.
E appena qualche giorno prima, il Paese dei Balocchi, festoso di Autorità di Suoni di Luci, LuBeC 2010, celebrazione di tecnologie che arrivano nell'austera esposizione di Pontedera depurate di ogni esuberanza.
Feste e fasti, e la quotidianità della terra. Il tramonto sulla Valdera, che fonde il profilo dei castelli medievali e dei castella etruschi, le tracce delle capanne dell'Età del Bronzo che altri amici vecchi e non stanchi continuano a cercare, con immutata passione da trent'anni e quasi quaranta, esalta, ritagliati sul cielo, i Segni della Terra.
Una sera intima, dimessa, mentre l'agitazione all'esterno rievoca altri momenti e altri movimenti, scavando colori e suoni perduti nella memoria, sepolti come l'ambigua traccia di quegli anni.
E appena qualche giorno prima, il Paese dei Balocchi, festoso di Autorità di Suoni di Luci, LuBeC 2010, celebrazione di tecnologie che arrivano nell'austera esposizione di Pontedera depurate di ogni esuberanza.
Feste e fasti, e la quotidianità della terra. Il tramonto sulla Valdera, che fonde il profilo dei castelli medievali e dei castella etruschi, le tracce delle capanne dell'Età del Bronzo che altri amici vecchi e non stanchi continuano a cercare, con immutata passione da trent'anni e quasi quaranta, esalta, ritagliati sul cielo, i Segni della Terra.
domenica 17 ottobre 2010
I giorni dell'anfora a Empoli
Trionfa l'anfora di Empoli, per tre giorni, sotto la Cena degli Agostiniani, in Empoli. Trionfa con bordi e colli, puntali e pance, notomizzati in tipi e gruppi infiniti, in contesti ben datati e in contesti frullanti nei secoli, scanditi in fasi rigorose o fusi.
Se ne esce travolti da una massa di dati, testimoni di una disciplina viva e affollata di giovani, quando il sentore dell'accademia pervade le stanze dei convegni.
Vecchi testimoni degli anni in cui il misterioso contenitore turbava di tipi e di cronologie gli studi assistono un po' compiaciuti e un po' crucciati all'ininterrotto flusso del vino del Valdarno, e, come vuol qualcuno assai amante dell'agro pisano, delle colline tra Cecina e Fine, bianco dell'Empolese e bianco di Montescudaio, rosso del Chianti e rosso delle colline pisane, e chissà quale altro vino che deliziava le ciurme delle barche che portavano Rutilio, e ciondolavano fra Roma e Pisa, Arelate e Tarraco, fermandosi anche sulla spiaggia di Torre Tagliata ad assopirsi nel tramonto sul mare del Giglio e di Giannutri.
E si vorrebbe sceneggiare la puntigliosa sequenza di orli tondi o larghi, appiattiti o dilatati, di anse a orecchio o a orecchione, allargate come quelle di Dumbo o allungate asininamente, con i nipoti e i subnipoti dei vorticosi vendemmiatori e naviganti delle vigne e delle navi che l'ansia di sopravvivere di un mercante di Firenze o di Ostia, o di chissà dove, e gli oscuri sogni di un architetto romanico ci hanno lasciato nel Battistero di Firenze.
Se ne esce travolti da una massa di dati, testimoni di una disciplina viva e affollata di giovani, quando il sentore dell'accademia pervade le stanze dei convegni.
Vecchi testimoni degli anni in cui il misterioso contenitore turbava di tipi e di cronologie gli studi assistono un po' compiaciuti e un po' crucciati all'ininterrotto flusso del vino del Valdarno, e, come vuol qualcuno assai amante dell'agro pisano, delle colline tra Cecina e Fine, bianco dell'Empolese e bianco di Montescudaio, rosso del Chianti e rosso delle colline pisane, e chissà quale altro vino che deliziava le ciurme delle barche che portavano Rutilio, e ciondolavano fra Roma e Pisa, Arelate e Tarraco, fermandosi anche sulla spiaggia di Torre Tagliata ad assopirsi nel tramonto sul mare del Giglio e di Giannutri.
E si vorrebbe sceneggiare la puntigliosa sequenza di orli tondi o larghi, appiattiti o dilatati, di anse a orecchio o a orecchione, allargate come quelle di Dumbo o allungate asininamente, con i nipoti e i subnipoti dei vorticosi vendemmiatori e naviganti delle vigne e delle navi che l'ansia di sopravvivere di un mercante di Firenze o di Ostia, o di chissà dove, e gli oscuri sogni di un architetto romanico ci hanno lasciato nel Battistero di Firenze.
venerdì 8 ottobre 2010
Riflessioni francescane di un archeologo sfinito: excerpta da Luk, 2009, ringraziando le ospitali amiche della Fondazione Ragghianti
È noto che le grandi campagne di rinnovamento urbanistico, se condotte aderendo allo spirito della normativa di tutela archeologica, sono una delle migliori occasioni per recuperare i segni del passato, esaltata anche dalla possibilità di leggere il nuovo volto dei paesaggi urbani nella sequenza di metamorfosi che un tessuto urbano vitale deve necessariamente affrontare, per aderire al contesto sociale e culturale che lo genera e che lo esprime.
Esemplare, in questa prospettiva, è stata la sequenza di interventi che fra 2005 e 2009 ha trasformato il cuore del quadrante nord-orientale di Lucca. L’articolata successione di imprese edilizie che hanno fatto della dismessa caserma Mazzini un complesso cui il grande parco pubblico pensile sul parcheggio sotterraneo conferisce tratti sorprendentemente coerenti all’ala orientale del San Francesco e agli edifici residenziali che ne profilano il prospetto settentrionale, è divenuta anche uno straordinario viaggio nel passato, dall’età romana sino al Settecento e alla vita della caserma ottocentesca. La realizzazione del parcheggio sotterraneo, ad opera della Polis, fra 2005 e 2007, poi il recupero della cosiddetta ‘Stecca’ della caserma come sede dei servizi dell’IMT, attuata dall’impegno diretto della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, infine la costruzione – ancora per opera della Polis – del complesso residenziale in cui si sono rigenerati i volumi dei fatiscenti servizi della caserma, hanno di volta in volta rivelato un limes della centuriazione romana, gli assetti ortivi e agricoli del Basso Medioevo, travolti dalle fosse di coltivazione dell’argilla per le fornaci di Tracchiassi, ai primi del Duecento; e infine gli aspetti ‘di servizio’ – il cellarium e gli Orti – del complesso del San Francesco che tanto ha inciso sulle vicende cittadine, e la loro vita, sino alla trasformazione ottocentesca in caserma.
La massa di materiali emersi e la complessità dei dati stratigrafici in cui si sovrappongono e si intrecciano duemila anni di storia rinviano – come si suol proclamare in questi casi – al compimento di una ‘riflessione’ dai tempi difficilmente precisabili la valutazione analitica delle acquisizioni di quattro anni quasi ininterrotti di impegno sul cantiere; tanto più che se le esigenze dell’attività edilizia dischiudono allo scavo archeologico risorse adeguate, è dato di fatto quasi acquisito che alla conclusione dei lavori le disponibilità finanziarie si estinguano, e di conseguenza le attività sui materiali – dal semplice lavaggio preliminare alle attività di lettura, per non parlare della documentazione e dello studio – restino affidate al mero volontariato o a quel che sopravvive del senso di responsabilità dell’archeologo di fronte alla comunità scientifica di cui fa parte, sempre meno impellente da quando l’archeologo che opera nelle Soprintendenze è stato messo al margine della stessa comunità. E dunque può accadere che l’apprezzamento di scavi costati centinaia di migliaia di euro finisca per essere compromesso dall’impossibilità di esaminare con la necessaria attenzione le associazioni di materiali e i contesti, e che la semplice proposta di presentare in una struttura ‘museale’ i risultati di tante fatiche e di tanto impegno finanziario anneghi nella ‘mancanza di risorse’.
Sotto questo aspetto il San Francesco di Lucca ha segnato una – seppure assai parziale – eccezione: grazie alla disponibilità della Polis e del Comune di Lucca, dapprima, e poi della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, è stato possibile almeno intervenire sulla selezionatissima parte dei materiali essenziale per l’inquadramento cronologico dei principali contesti di scavo, e proporre al pubblico di Lucca, in due mostre tenute negli spazi messi a disposizione dell’archeologia cittadina dal Comune, nel deposito della ex caserma Lorenzini (o, per meglio dire, dell’antico complesso del San Domenico) i momenti nodali della storia degli Orti del San Francesco: l’assetto suburbano d’età augustea; le vicende dei ‘giardini sepolti’ del San Francesco, dal Trecento al Settecento.
Un corposo resoconto dello scavo nell’area della Stecca, infine, è stato ospitato nel volume Il complesso conventuale del San Francesco in Lucca, in cui l’analisi dei contesti stratigrafici e delle strutture ha potuto far conto sulle attività condotte sui contesti di scavo nel corso dei lavori.
[1] I giardini sepolti. Lo scavo degli Orti del San Francesco in Lucca, a cura di G. Ciampoltrini, Lucca 2005; Ad limitem. Paesaggi d’età romana nello scavo degli Orti del San Francesco in Lucca, a cura di G. Ciampoltrini, Lucca 2007. I testi sono disponibili in rete, all’indirizzo http://www.segnidellauser.it/giardinisepolti
[2] Il complesso conventuale di San Francesco in Lucca. Studi e materiali, a cura di M.T. Filieri e G. Ciampoltrini, Lucca 2009, cui si rinvia per ogni riferimento. Una sintesi del dato archeologico in http://www.segnidellauser.it/sanfrancescodilucca.
giovedì 7 ottobre 2010
Il sorriso di Marcello (Cosci) sui fiumi del Valdarno
Sorrideva Marcello, ieri, nel rovente pomeriggio di Pisa, con Riccardo. Sorrideva vedendo amici e congiunti affollarsi in un capace androne, irrorato dal sole e dai colori sgargianti dei suoi fiumi, di blu di rosso di giallo di verde, pennellate informali in un sapiente gioco di curve.
Amicum cum vides obliscere miserias, inimicus si es commentus nec libens aeque. Il vecchio Appio Claudio avrà ricordato il suo detto, a Marcello, sentendo il borbottio di fondo alle parole di Letizia, con chi aveva seguito il fluire delle sue curve per ricavarne i paesaggi sepolti e chi le vedeva come segni dionisiaci, intrecciati a commentare i raggi del sole rimbalzati sui colori delle sue immagini trasognate e sapienti.
Sorrideva e qualcosa di più, Marcello, dionisiaco quando lo voleva, apollineo e tecnologico quando era il caso, con Riccardo, apollineo e dionisiaco. Vedono il mondo dall'alto, popolato di fiumi e castelli, sepolti e vitali, e dimenticano, come chi ne condivise le tormentate passioni, le miserie della terra, salutando gli amici e i meno amici.
Amicum cum vides obliscere miserias, inimicus si es commentus nec libens aeque. Il vecchio Appio Claudio avrà ricordato il suo detto, a Marcello, sentendo il borbottio di fondo alle parole di Letizia, con chi aveva seguito il fluire delle sue curve per ricavarne i paesaggi sepolti e chi le vedeva come segni dionisiaci, intrecciati a commentare i raggi del sole rimbalzati sui colori delle sue immagini trasognate e sapienti.
Sorrideva e qualcosa di più, Marcello, dionisiaco quando lo voleva, apollineo e tecnologico quando era il caso, con Riccardo, apollineo e dionisiaco. Vedono il mondo dall'alto, popolato di fiumi e castelli, sepolti e vitali, e dimenticano, come chi ne condivise le tormentate passioni, le miserie della terra, salutando gli amici e i meno amici.
lunedì 4 ottobre 2010
Archeologia apollinea e archeologia telchinia, sotto forma di inno a Paolo ed epicedio per gli archeologi B-series
Archeologia apollinea, delfica, intrisa dei colori del cielo, che fan predire quel ch'è sotto terra, appena appena assaporando i vapori del suolo; ma si sa, un po' di sniffaggio aiuta, in certe circostanze. Questa è la novella archeologia, l'archeologia preventiva, che allieta le festose turbe dell'accademia e i lor maestri, sagaci dispensatori di profezie celebrate dal GIS, illuminate da infiniti corsi di mistica ascesa, che all'estremo grado e dopo tutte le iniziazioni tutte fan predire quel che la terra asconde. È l'archeologia preventiva, bellezza, ci vogliono tutti i bollini blu, i timbri, il bacio di Apollo e il casto (almeno lei, ci pensino pur le Ninfe, semmai) sorriso di Artemide, il favore di Letó.
E poi gli archeologi telchini, deformi per il lungo chinarsi sulla vanga, ridotti al colore degli ocracei terreni ai quali sottraggono i Segni della Storia. Non predicono dal volo degli uccelli o dall'esegesi dei mistici pareri della Pizia, al massimo s'impregnano le mani del Sangue della Terra e riscoprono l'aruspicina degli avi antichi. È finita l'ora dei Telchini, vecchi, deformi; se ne vadano negli antri al cupo servizio di Efesto, se pure il dio conobbe il coatto sorriso di Afrodite. Il vecchio e stanco archeologo, sfinito da trent'anni di fatiche telchinie, lo sa, e quasi benedice la Benefica Dirigenza che gl'impedisce, con i Sacri Cavilli sotto forma di glossa al Decreto, di correre su per i luoghi delle telchinie sofferenze infliggendo torture alla schiena storta, alla caviglia gonfia, agli occhi incerti se veder lontano o vicino.
Ma Paolo non lo sa, e continua, zolla su zolla, vivendo i Giorni dell'Acqua dopo quelli del Sole, a sottrarre righe di storia, sotto forma di cocci immersi negl'impasti della terra che fecero Etruschi di Montagna duemilacinquecento anni fa, alla Madre Terra. I suoi vaticini non sono apollinei, i Sorridenti Numi dell'Accademia, che con lor Ninfe sono pronti a divinare su quello che Paolo vuol narrare sulla sua fatica, volgono altrove lo sguardo, dacché i Sommi Amministratori benignano loro e lor Ninfe.
Paolo non lo sa, e forse non gl'importa nulla di saperlo. Il vecchio archeologo lo sa, ma forse non gl'importa nulla di saperlo, quando la Fatica Telchinia di Paolo, compagno di trent'anni di fatiche sulle aspre e solatie terre che vedono nascere l'Auser, gli regala le immagini di uno scavo straordinario.
Non è apollineo, ma Apollo lo benigna dei suoi colori, e le Ninfe della Terra vanno a trovarlo.
E poi gli archeologi telchini, deformi per il lungo chinarsi sulla vanga, ridotti al colore degli ocracei terreni ai quali sottraggono i Segni della Storia. Non predicono dal volo degli uccelli o dall'esegesi dei mistici pareri della Pizia, al massimo s'impregnano le mani del Sangue della Terra e riscoprono l'aruspicina degli avi antichi. È finita l'ora dei Telchini, vecchi, deformi; se ne vadano negli antri al cupo servizio di Efesto, se pure il dio conobbe il coatto sorriso di Afrodite. Il vecchio e stanco archeologo, sfinito da trent'anni di fatiche telchinie, lo sa, e quasi benedice la Benefica Dirigenza che gl'impedisce, con i Sacri Cavilli sotto forma di glossa al Decreto, di correre su per i luoghi delle telchinie sofferenze infliggendo torture alla schiena storta, alla caviglia gonfia, agli occhi incerti se veder lontano o vicino.
Ma Paolo non lo sa, e continua, zolla su zolla, vivendo i Giorni dell'Acqua dopo quelli del Sole, a sottrarre righe di storia, sotto forma di cocci immersi negl'impasti della terra che fecero Etruschi di Montagna duemilacinquecento anni fa, alla Madre Terra. I suoi vaticini non sono apollinei, i Sorridenti Numi dell'Accademia, che con lor Ninfe sono pronti a divinare su quello che Paolo vuol narrare sulla sua fatica, volgono altrove lo sguardo, dacché i Sommi Amministratori benignano loro e lor Ninfe.
Paolo non lo sa, e forse non gl'importa nulla di saperlo. Il vecchio archeologo lo sa, ma forse non gl'importa nulla di saperlo, quando la Fatica Telchinia di Paolo, compagno di trent'anni di fatiche sulle aspre e solatie terre che vedono nascere l'Auser, gli regala le immagini di uno scavo straordinario.
Non è apollineo, ma Apollo lo benigna dei suoi colori, e le Ninfe della Terra vanno a trovarlo.
sabato 2 ottobre 2010
L'Impresa del Diamante: in lode della Compagnia dell'Anello, con sigillo papale
In lode alla Femminile Compagnia dell'Anello, che nel buio che sa di storie del Trecento, e delle avventure di Andreuccio, grano su grano sottrae alla lor pace, per dar la Pace degli Antropologi curiosi di artrite e reumatismi, bramosi di sapere quale fu l'ultima bistecca cucinata nella brace degli incendi del Medioevo, le ossa del Signore con l'Impresa del Diamante, gotiche foglie intrecciate sulla cuspide che evoca i segni dei Rucellai, dei Medici, degli Estensi. Per seicento o più anni, forse, sfuggito a infiniti esumatori, col sorriso del Santo Povero sul Santo Anello e sulla Bolla del Papa che fece il gran rifiuto. Rifulge per un attimo, per la timida grazia di una delle Signore della Compagnia, e poi riposa fra i Beni Culturali.
giovedì 30 settembre 2010
Segni del suolo, segni dal cielo. Ricordando Marcello Cosci, un anno dopo
Sarebbe piaciuto, a Marcello, vedere le radici dei segni visti dal cielo, ombre sull'erba o fra le zolle.
Ed è accaduto, in una frastornata periferia di Lucca, che l'eco dei suoni della storia attutita dall'erba divenisse arida scacchiera di terra e di mura, con le ombre che s'incarnano in pietra e calce, in schegge di un edificio miracolosamente scampato a secoli di vita di una campagna ormai morta, ritrovato per l'impegno di un povero archeologo di confine, e di amici che nell'ardore dell'estate sono stati capaci di non soccombere al riverberante biancore della terra riflesso da elmi rossi o gialli..
E mentre ci si accinge a celebrarlo nelle sedi che da vivo mai lo celebrarono, se non per il sorriso aspro di un amico di Siena che ci ha lasciato anche lui, troppo presto, l'amico che con lui condivise la passione per i Segni dell'Auser lo ricorda con immagini che Marcello vedrà con noi, perché la sua lezione e le sue battute sono ancora con noi.
Ed è accaduto, in una frastornata periferia di Lucca, che l'eco dei suoni della storia attutita dall'erba divenisse arida scacchiera di terra e di mura, con le ombre che s'incarnano in pietra e calce, in schegge di un edificio miracolosamente scampato a secoli di vita di una campagna ormai morta, ritrovato per l'impegno di un povero archeologo di confine, e di amici che nell'ardore dell'estate sono stati capaci di non soccombere al riverberante biancore della terra riflesso da elmi rossi o gialli..
E mentre ci si accinge a celebrarlo nelle sedi che da vivo mai lo celebrarono, se non per il sorriso aspro di un amico di Siena che ci ha lasciato anche lui, troppo presto, l'amico che con lui condivise la passione per i Segni dell'Auser lo ricorda con immagini che Marcello vedrà con noi, perché la sua lezione e le sue battute sono ancora con noi.
sabato 18 settembre 2010
Munere mortis: la mostra aperta a Villa Guinigi in Lucca, in una sera di settembre fra amici
E in un pomeriggio che ha ancora il sapore dell'estate, e anticipa sul tardi il sentore dell'autunno, dolce come il suono del diaulo (dice Kizzy) che dovrebbe accompagnarlo, il blu su azzurro della mostra tanto faticata si apre ad amici che festeggiano passioni comuni, sogni comuni, l'impegno a fare dei segni della terra testimonianze vitali della storia dell'uomo, e degli uomini del nostro tempo. Una lira stralunata asseconda il fluire dei versi di Catullo, di Virgilio, degli epigrammi restituiti dalla pietra, immagini che in pochi minuti sintetizzano anni di fatiche, e le pagine policrome e asciutte di note con cui si testimonia un impegno di venti e più anni. Gli amici che s'affacciano sulle teche in blu partecipano, testimoni del loro impegno, all'impegno altrui, e questo basta a raggiungere il colore del tramonto ... e domani si attendono nuovi amici, che nelle pagine in blu riescano a percepire l'emozione e la passione di chi le ha composte.
giovedì 16 settembre 2010
Lo sciroppo di Sara, ovvero delle inusitate meraviglie del suolo di Lucca
Fra sepolti paesaggi medievali, bramosi del pennello di Pisanello, più che delle icone del Puccinelli, spunta improvvisa, sotto la mestola di Sara, una buca che narra storie di dolore e morte. Munere mortis non solo nel mondo romano, ma anche in quello dei nonni, storie (si direbbe e dice Sara, erudita dal coniuge erudito) di tubercolosi, di lustrationes post mortem, direbbe l'archeologo del mondo antico, o di semplice eliminazione dei mortiferi cimeli di un familiare di cui tutto viene affidato alla terra, integro o quasi. Catinelle e vetri, bacini, bicchieri, il rasoio, e le bottiglie per sciroppo e le fiale e le siringhe che narrano nel crudo e atemporale linguaggio dell'archeologo una storia di sofferenza malattia e morte invano da cercare nei referti medici, nascosta alla letteratura che non sia quella trombonesca (quasi di certe gazzette locali coeve) del trombonesco romanticismo-positivismo di un'età che sognava Tripoli, e ora Tripoli paventa. E Sara e gli altri amici, protetti dal giallo elmetto, catafratti e luminosi come i cavalieri di Pisanello, dal paesaggio del Tardo Medioevo e dalle pagine del Sercambi ci trascinano repentinamente nelle sofferenze dimenticate dei nostri (per il vecchio archeologo) nonni.
domenica 12 settembre 2010
La tomba del cane e i sognanti paesaggi di Pisanello, nel clangore dei vecchi tromboni di Lucca
La brava archeozoologa, pur travolta dalla macelleria dell'Ottocento, ha colto nell'accartocciato intreccio di ossa in una fossa ovale, visto in un'immagine giallastra, i segni del cane. E il Medioevo in verde e nero che lo seppellisce si colora repentinamente, con qualche decennio di rilassamento consentito al sogno dell'archeologo, dei mutevoli cani di Pisanello, scene gotiche di dame cervi paesaggi devastati dalle ultime pestilenze ai quali la natura dà la forza dei suoi colori.
Si vorrebbe tinteggiare degli infiniti verdi di Pisanello la caotica e ribalda periferia di Lucca dove il cane fu onorato di amorosa sepoltura, un po' più in là delle case che vedevano gli aranceti e la Casa dell'Arancio voluta e pagata dal Comune nergli anni della servitù pisana, alla metà del Trecento, e che ancora accolse il Sercambi ... e poco ci manca agli anni di Pisanello, quasi che Sant'Eustachio fosse il Paolo Guinigi sfortunato come la sua sognante sposa, noto per lei e per il palazzo tanto amato dall'archeologo che in queste righe versa le sue estreme illusioni, per sé e per la compagnia di amici (molte amiche, anzi quasi tutte) che lo allieta e lo asseconda nei viaggi nei paesaggi perduti.
Si sente echeggiare il primo fiorir di madrigali, sullo sfondo dei gotici prati fioriti di Pisanello, che dan colore all'arida terra in cui ha riposato per seicento anni un cane che poi l'archeozoologa ci dirà se maschio o femmina o quale artrosi lo devastasse, e se e quanto correva dietro ai cervi di Paolo, fra gli aranci di una periferia di Lucca in cui qualcuno ritorna a suonare, dalle pagine effimere di gazzette, vecchi tromboni dismessi da anni, dal suono arrugginito, stanco, quasi patetico. Suoni piuttosto il concento che allietava Pagolo, di ritorno dalla caccia, fra le braccia di Ilaria, di certo non bella come quella sognata da Iacopo, e che anche i villici, nelle loro dimore di pietra (poca) e di terra, nel Medioevo in verde e nero della maiolica arcaica, immaginavano o tendendo le orecchie potevano sentire, nel palazzo di Pagolo, non molto lontano, appena distinto dalle mura di mattoni ...
lunedì 6 settembre 2010
Virgilio a Lucca: i riti funebri dell'Italia romana tra testi poetici ed evidenza archeologica (Munere mortis, II: la mostra)
Nec minus interea Misenum in litore Teucri
flebant et cineri ingrato suprema ferebant.
principio pinguem taedis et robore secto
ingentem struxere pyram, cui frondibus atris
intexunt latera et feralis ante cupressos
constituunt, decorantque super fulgentibus armis.
pars calidos latices et aëna undantia flammis
expediunt, corpusque lavant frigentis et unguunt.
fit gemitus. tum membra toro defleta reponunt
purpureasque super vestis, velamina nota,
coniciunt. pars ingenti subiere feretro,
triste ministerium, et subiectam more parentum
aversi tenuere facem. congesta cremantur
turea dona, dapes, fuso crateres olivo.
postquam conlapsi cineres et flamma quievit,
reliquias vino et bibulam lavere favillam,
ossaque lecta cado texit Corynaeus aëno.
idem ter socios pura circumtulit unda
spargens rore levi et ramo felicis olivae,
lustravitque viros dixitque novissima verba.
at pius Aeneas ingenti mole sepulcrum
imponit suaque arma viro remumque tubamque
monte sub aërio, qui nunc Misenus ab illo
dicitur aeternumque tenet per saecula nomen.
(AENEIS, VI, vv. 212 ss.)
Nel frattempo sulla riva del mare i Troiani piangevano /
per Miseno e gli rendevano gli estremi onori. /
Per prima cosa eressero una grande pira /
di legno di quercia e di alberi resinosi /
rivestendone i lati con fronde nere e rami di cipresso; /
l’adornarono sulla sommità di armi lucenti. /
Alcuni preparano l’acqua bollente in caldaie di bronzo, /
lavano il rigido corpo e lo cospargono di unguenti. /
Si levano lamenti. Poi depongono il cadavere /
su un letto, su cui stendono vesti di porpora.
Altri, volgendo le spalle, si avvicinano al triste feretro /
– compito doloroso – con le fiaccole accese /
secondo il costume degli antichi. Si accumulano /
e si ardono le offerte di incenso, di cibi e di vasi colmi d’olio. /
Dopo che la pira crollò e la fiamma si spense /
bagnarono di vino le ceneri e la brace stridente /
e Corineo raccolse le ossa in un vaso di bronzo. /
Lo stesso Corineo tre volte asperse con l’acqua /
i compagni, con un ramo d’olivo /
purificò gli amici e pronunciò l’estremo saluto. /
Il pio Enea eresse un tumulo imponente /
con le armi, il ramo e la tromba /
sul monte che da lui si chiama Miseno /
e per sempre ne conserva il nome.
I riti funebri figurati in un sarcofago del II secolo d.C. con scene del mito di Meleagro (come indica il personaggio con cani al guinzaglio sulla destra di chi guarda) sono una precisa ‘illustrazione’ dei momenti cruciali del rituale romano dell’incinerazione, del quale Virgilio dà una descrizione poetica proiettandolo nel mondo mitico dell’Eneide.
Gli onori funebri resi a Miseno dai compagni prevedono:
- la costruzione della pira, fatta di varie essenze lignee e rivestita da rami della pianta ‘funebre’ per eccellenza: il cipresso;
- la purificazione del cadavere, lavato con acque calda e profumato con unguenti;
- la collocazione del cadavere sul ‘letto’ funebre, allestito sulla pira;
- la collocazione sul rogo o intorno ad esso degli oggetti più cari al defunto e di offerte alimentari;
- la cremazione, innescata con fiaccole tenute volgendo al rogo le spalle;
- la deposizione dei resti del rogo entro un cinerario (in questo caso di bronzo);
- la purificazione dei partecipanti alla cerimonia;
- la costruzione della tomba che accoglie le ceneri.
Con il testo di Virgilio come chiave di lettura, la testimonianza archeologica dei rituali funebri del I secolo d.C. documentati nel territorio di Lucca diviene perfettamente comprensibile.
I dati archeologici testimoniano che anche nell’Etruria settentrionale del I e II secolo d.C. venivano praticati i riti funerari dell’Italia romana che sono documentati dalle fonti letterarie e dall’evidenza iconografica.
Il cadavere viene esposto sul rogo preparato nell’area sepolcrale (ustrinum); qui si svolgono le cerimonie di purificazione (lustrazione), con il lavacro in cui si impiegano anche unguenti profumati. Il corpo viene bruciato e i resti del rogo sono infine sepolti nell’area stessa del rituale estremo (la pratica è detta: bustum). Il compianto intorno alla tomba, sulla quale è eretto un segnacolo ornato di ghirlande, conclude il mesto addio dei congiunti.
I monumenti dell’Etruria settentrionale – soprattutto le stele – possono essere arricchiti con figurazioni di carattere simbolico (l’edera, la ghirlanda, gli esseri marini che alludono al viaggio nel mondo dei morti), i ritratti del defunto (o dei defunti) e gli strumenti della professione che questi avevano svolto: il fabbro bronzista, il calzolaio, ecc.
L’iscrizione si limita di regola a ricordare il nome dei defunti e le cariche pubbliche che questi avevano ricoperto. Testi poetici, in taluni casi (assai rari), permettono di comprendere l’ideologia che sottende il rito funerario o celebrano il compianto dei congiunti.
sabato 4 settembre 2010
Mysteria Priapica, o dei dubbi dell'archeologo
Scientifiche certezze di archeologi post-winckelmanniani, nutriti di filologia classica, ermeneutica del Robert, chippiunnehapiunnemetta, s'ammutoliscono davanti ai multipli sferoidi basi del cilindroide generati dalla terra fra i due fiumi degli Etruschi e dei Romani, capanne perdute in anni perduti e riviste per un attimo in anni presenti ma anch'essi remoti, altre ere, in cui appariva il bucchero nero del VI secolo e forse VII e la vernice nera echeggiata nelle narrazioni del Mariti e dell'Inghirami, finalmente rivista carica dell'argilla del Pliocene del Valdarno.
Alle certezze cristofanesche della vernice nera, Morel 83 82 con anse e senza anse, graffiti, i buccheri e le ceramiche nella tradizione del bucchero, le anfore greco-italiche, i cippi ancorati alle tombe di Castiglioncello e sottratti al dubbio con dubbi che dovevano attender vent'anni per essere placati, subentra infine, per la mano mattesca di amici appassionati e sempre pronti all'avventura e all'enigma, un molteplice intreccio di volumi sfuggenti, tempestati di segni in cui il sogno vorrebbe riconoscere lettere degli Etruschi che queste terre videro frequentarono amarono, intreccio di volumi da cui, sepolti Winckelmann filologi tedeschi romantici positivisti dell'Ottocento, si vorrebbe balzare indietro alla pazza scienza degli abati del Settecento, ai loro furori preneoclassici, ardenti come le sonate di Vivaldi, per ritrovare Priapo e i Priapei Misteri, il mitico Mutunus Tutunus, la forza estrema della natura cantata con garbata ironia da Orazio.
Memore delle lezioni dei maestri marxisti (che Priapo vuol dire?) e delle radici empiristico-razionalistiche, l'archeologo che (quasi) tutto ha cercato e visto di queste dure terre d'argilla, respinge il fascino del fascinum (che gioco di parole), ma vorrebbe davvero che quella pietra sbozata da chissacchì chissaqquando, con quei segni che vorrebbe segni di Etruschi e forse sono solo ghirigori perduti nelle nebbie degl'infiniti lautni servi coloni mezzadri che queste terre han visto prima degli agriturismi degli Inglesi, fosse un segno dell'ignoto Priapo degli Etruschi, dei lautni che faticavano su queste terre aspre e generose di uva, e rompevano le coppe a vernice nera Morel 82 82, anse e senz'anse, e mescolavano il vino e gli ortaggi di una tera amica al vino delle calde terre del Tirreno del sud. Anche l'archeologo può (o deve?) sognare. E offre al Priapo che tutti illude i fichi generati da una terra bagnata di sole e di vino.
giovedì 2 settembre 2010
Munere mortis. Complessi tombali d'età romana nel territorio di Lucca
Grazie al fondamentale apporto finanziario della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, è possibile presentare al pubblico i risultati di venticinque anni di ricerche su un tema certamente oggi ‘di nicchia’, ma nodale nella struttura di relazioni del mondo antico: i rituali della morte.
Quando, nel 1977, a Lucca vennero recuperati i resti di alcune tombe del I-II secolo d.C. negli Orti del San Ponziano, i dati disponibili sui riti funebri d’età romana nella Toscana settentrionale erano ancora quelli pubblicati dal Gamurrini, sulla scorta dei recuperi condotti nell’area della Fortezza da Basso di Firenze nel 1871. Questi consentirono, tuttavia, di valutare adeguatamente i risultati del primo scavo sistematico su una necropoli d’età romana condotto a Lucca, ancora negli Orti del San Ponziano, nel 1981.
L’avventuroso percorso in questo ramo dell’archeologia era, però, solo agli inizi. Come spesso accade, occorreva pazienza, attendere l’occasione propizia.
Per una fortunata serie di coincidenze, fra 2002 e 2005 i dati disponibili si moltiplicarono. Nel marzo del 2002, con i saggi preliminari nell’area del Nuovo Casello Autosdrale del Frizzone di Capannori, vennero in luce sottili lenti carboniose con ceramiche romane; proprio grazie al precedente del San Ponziano cittadino fu possibile capire che si era davanti ad una necropoli d’età romana. Lo scavo, condotto con il supporto finanziario della Società Autostrade per l’Italia, fu risolutivo per ricostruire i riti funerari, e mettere a fuoco cultura e ideologia del nucleo sociale che nel corso del I secolo d.C. depose i resti dei suoi morti, dopo i riti della cremazione, lungo una delle strade della centuriazione lucchese.
Nel 2005, infine, la ripresa dello scavo della necropoli del San Ponziano, nel quadro del progetto di realizzazione delle infrastrutture per la Biblioteca IMT, voluto e finanziato dalla Fondazione, risolveva gli ultimi dubbi sulle ‘pratiche della morte’ a Lucca e nel suo territorio fra I e II secolo. Il dato archeologico collimava perfettamente con i versi di Virgilio da una parte, le immagini dei riti funerari sui sarcofagi d’età romana: le pratiche per la purificazione del corpo e la preparazione della pira, la combustione, la raccolta dei resti del rogo, la loro deposizione nella terra si riflettono con chiarezza nell’evidenza archeologica.
Questo è l’obiettivo che la mostra persegue: non la presentazione di ricchezze sepolte, ma l’illustrazione di un metodo che permette, attraverso il suono dei versi di Virgilio, di capire i ‘segni della terra’.
Gli oggetti ricomposti delle tombe di San Ponziano e del Frizzone – con un interminabile lavoro di restauro che ha visto sommarsi gli sforzi del Centro di Restauro della Soprintendenza al finanziamento assicurato per la necropoli del Frizzone dalla Provincia di Lucca, dai Comuni di Capannori e Porcari, dalla Fondazione Banca del Monte di Lucca – possono essere valutati, così come i dati di scavo, nel volume Munere mortis. Complessi tombali d’età romana nel territorio di Lucca, curato da Giulio Ciampoltrini, nella collana ‘I Segni dell’Auser’, o, più rapidamente, nelle pagine all’indirizzo http://www.segnidellauser.it/muneremortis, e nella presentazione disponibile su Youtube (http://www.youtube.com/watch?v=JcP4kDI-lgc).
lunedì 30 agosto 2010
Misteri di Liber Pater (o di Priapo) a Marti
Generosa di storie sepolte è la terra di Marti, severa collina fra Chiecina e Ricavo, dacché la contagiosa passione di Daniela e delle sue compagne di avventure di balza in balza, dall'uno all'altro fiume, ha evocato gli Etruschi della Granchiaia, le fornaci dei meravigliosi mattoni che sostanziano l'indorato tardo romanico della pieve e del bastione, baluardo pisano distrutto con le mine che la sagace archeologa esperta di castella e di monete divinò nello scavo appassionato di un gruppo di amici di passione, in estati di anni remote, forse 2001, forse 2002, quando il riverbero del sole sul fitto ricorso di mattoni abbagliava l'escavatore e l'argilla.
E poi stagioni di scavi esemplari, il fiore della nuova archeologia di Toscana, sulla fornace e sulla strada del Quattrocento, e sulla casa di mattoni e di terra e d'ardesia e di legno, fino a tracciare la topografia di una rocca e dei suoi borghi, tassello su tassello.
E dunque ben venga la misteriosa tricuspide lapidea, ritrovata dove già furono Etruschi e Romani, ancora dalla passione inesausta, rinnovata dal trascorrere delle stagioni, di Daniela e delle sue donne. La sfida è grande per chi è avvezzo a trovare risposte alle domande del passato nelle geometrie delle stratificazioni, nelle tensioni del diagramma stratigrafico, e consolazione alle sue fantasie in ceramiche ricondotte ad inesorabili orizzonti cronologici. Ma avendo appena letto nelle pagine del Sommo Archeologo degli Anni Vigenti che occorre pur dare passione ai lacerti di strati e ai frammenti, dar sangue ai cadaveri che la terra ci restituisce in frammenti dispersi, allora non è da sciagurati figli dell'Irrazionale riandare alle letture liceali di Orazio, del tronco di legno incerto se divenire sgabello o Priapo, e al Fallo incoronato dei Misteri di Liber Pater che a lungo salutava i viandanti nei sottofondi dei musei fiorentini, e ora s'aderge – degnamente ritrovato il suo ruolo – a proteggere i giardini di Villa Corsini.
Voli la fantasia, ritrovi antiche vigne, di Etruschi o Romani poco importa, sulle colline fra Ricavo e Chiecina, antiche acque d'Etruschi (Tlesina) e di Romani (Rivus Cavus), dove al tempio di Marti che dà nome alla terra dagli albori del Mille poteva pur preludere il fascinum di un altro dio agreste, informe abbozzo ottenuto da rustici mazzuoli e da caotici scalpelli sfinendo un geode figlio del Pliocene, sì da farne evocazione delle Forze Generatrici della Terra. Fantasie e sogni, per popolare dei Segni del Passato le colline che già furono di Etruschi e Romani, poi degli Upezzinghi e dei loro fideles, dei Baldovinetti e dei loro mezzadri, e ora sono degli agriturismi.