lunedì 15 novembre 2010

Cantar di mura e suonar di cocci. Ritornando ad Altopascio



Si vorrebbe sentir Raimbaut o ripetere i versi e il suono di Jaufré, veder villanelle languide attendendo l'alba o dame inattingibili come funzionari di Direzioni Superiori uscire e rientrare da ferree pareti, davanti alle mura che il viandante bramava al tramonto, il contadino affittuario paventava tutto il giorno. Solo un sogno è questo per l'archeologo che per sindrome ossessivo compulsiva, senza più saper perché lo faccia, venticinque anni dopo indaga strato di ardesia su strato di terra e livelletti e livellini, cuciti da Paolo su pietre di quarzite con la pazienza sapiente delle montagne antiche, illuminati in verde e nero quando la sorte è benigna, più spesso nel bruno e nell'avana di un Medioevo a colori solo nelle miniature e nelle tavole di Berlinghiero.
Certo, non come quello del Romeo, o di chi lasciava la dolce terra di Toscana per cercar Saint Gilles o Santiago, è faticoso il viaggio dell'archeologo per Altopascio, dismesso da un anno, una sosta fra le paludi e i boschi umidi di querce e ontani, sfuggendo banditi e i cavalieri dell'Imperatore, peggio forse dei banditi. Preparare spartiti per mura concertanti, documenti equivoci, le storie viste e amate da Giuseppe, attendendo i riquadri di Sara e i dobloni dell'amico delle Venezie ... quasi come confezionare accompagnamenti per improbabili filmini su Garage Band ...
Ma il suono, infine, è sconvolgente, nello stridore attutito da sfumati e distinguo, che ne fanno un impasto gregoriano. E si segue il cavaliere e il pezzente, sotto la torre, davanti allo spedale, scrutato dal Palazzo del Rettore, per sceglier sua dimora nel chiostro con gli affreschi o sulla paglia sotto le mura.

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