venerdì 26 febbraio 2010
Le casseruole di Provenza e i piatti Timor pattern, V & B
Un anno o quasi il viaggio negli abissi dei depositi e nei quintuplici rituali del sacro lavacro, per trasformare in policroma e polifonica storia i fangosi sacchetti dello scavo nelle viscere del palazzo che fu dei Di Poggio, e ora di chi nemmeno sa dell'aspirante tiranno di Lucca. Mucchi e sacchi son divenuti limpide e miniate cassette, con la scienza non a portata di clic, ma ordinatamente spartita in calligrafiche buste. Mulheres rendeiras, come cantano le nostalgie del cangaço, che ricamano didascalie e cesellano ritrovate forme.
Partono dai monocromi acromi di un Medioevo oscuro, gli itinerari nel tempo che zigzagano da un ambiente all'altro, da un impasto di terra e acqua all'altro, e poi scivolano sui fossi che vedevan le mura di pietra e i boccaletti di maiolica arcaica delle guardie della posterula, arrivano ai piatti dei Poggi, alle meraviglie in bianco e blu dei fiorellini di Savona nel Seicento, su su, giorni e anni a cesellare, la mulher rendeira.
È finito il viaggio, in attesa di partir di nuovo (chissà), sui piatti dei nonni del vecchio archeologo, che chiude l'Età del Bronzo arrivando all'Età dell'Elettricità, con l'interruttore di porcellana divenuto prezioso indicatore cronologico, ed egli da bambino lo vedeva. Non lo sciroppo Framel (che scoperte nello scavo, subito accese da Google!), ormai Novecento e avanti, decenni e decenni, con i calamai e le boccette d'inchiostro, ultimi contabili di un palazzo di scrivani (la gestione del potere, dallo stilo alla stilografica), ma le casseruole/marmitte di Vallauris Provenza, con bei bolli Maurel, e l'infinita serie di willow pattern di Laveno, Verbano stone, e in mezzo un Timor V & B, per cui chiedere lumi a Mettlach, nell'era dell'industria globale, un secolo fa; e riflessioni sulle globalità celate, che la mulher rendeira ha cesellato, dei galeoni del Seicento, dei barconi del Duecento, e delle navi da Pisa alla Spagna. Anche questa è archeologia, archeologia a colori, non delle note a pie' di pagina.
lunedì 22 febbraio 2010
L'uccellino e la foglia. Da Castel del Bosco a Gello, per arrivare a Lucca
Era nel suo plumbeo fulgore il secolo morto, quando sulla strada dietro il cimitero apparve l'uccellino, frammento di un poeta seicentesco della graffita a punta, virtuoso esercizio, quasi violino protobarocco, di linee curve che magnifica la maestria del decoratore di campagna, inconsapevole genio della 'pennellata nervosa' (come direbbe un vecchio trombone storico dell'arte). Tanto vola la stecca sul nitido ingobbio, che il 'vasaio di Castel del Bosco' – come lo volle chiamare all'alba del nuovo secolo l'insolito sodalizio fra l'affannato archeologo e la giovine bramosa di sapere e di gloria – s'affonda nell'informale, con foglie irriconoscibili (se non per il modello) nelle macchie di colore che si spandono da linee tremule. Se non fosse di qualche decennio prima, il tocco di Magnasco, direbbe il raro frequentatore del Kunsthistorisches, ma altro non è che un frettoloso compendiario di campagna, prodotto da contadini-vasai, per i galeoni olandesi e inglesi di Livorno, e per il mondo (o anche per qualche sciabica da lì alla Provenza).
Misure di anni remoti, riflessioni di anni recenti, ma altrettanto remoti, nella sera in cui da Castel del Bosco si arriva, dopo essere passati per Gello, e l'amico perduto che ancora parla davanti alla chiesa tardoromanica e quasi gotica – Carlo che ora dialoga con Vipia Hirminai – a Lucca. O meglio, si ritorna a Lucca, già vista nei giorni della magia di Spagna e di Paolo Rossi, con un giro interminabile di trent'anni e più fra le graffite dei Seicento, poveri piatti di plebi urbane e di contadini miserabili, che qualche volta potevano concedersi anche un colorato volto di Montelupo; ma di solito sul desco consunto una foglia per la foglia del panino, un fiore per decorare il tondo del tondino, uno stemma per una nobiltà mai vista, un uccellino per sognare. Il fiore e la foglia, lo stemma e l'uccellino, o l'immagine di remote sontuosità, marmorizzate o emulate da uno schizzo di verde, povere pietre per piatti di coccio.
I pitocchi della pittura di genere, i mangiafagioli o l'osteria dell'Emmaus di Roma trasfigurata dal Caravaggio, perché gli uccellini tracciati senza alzar mai la stecca dall'ingobbio (o quasi) cinguettino posandosi sulle foglie di Venezia, divenute un ghirigoro, e un mazzo di fiori (ma qui ancora un singolo fiore) diano lustro all'arme di famiglia.
A Lucca, ventott'anni dopo o quasi, nel trionfo del rigore si tenta invano di assaporare i fagioli del Carracci, nei piatti misurati e scanditi da TAC infinite, che non vogliono neppure carpire l'anima. Forse perché non credono nell'anima, forse.
domenica 21 febbraio 2010
La cintura di San Martino e i vici dell'Amiatino (per esigenza di rima)
S'intrecciano segni come parole, sulle vie della rete, e par quasi di riconoscere l'interlocutore, nel flusso concitato di segni che trasmette l'emozione della scoperta, l'ansia della riflessione; e pur se la parola è altra cosa, come insegnavano i retori antichi ai poveri liceali del tempo che fu, il segno può rispecchiarla, appena appena spezzandola, agli occhi delle matite rosse e blu, in preziosi anacoluti.
Fra ville e capanne, Grubenhäuser e tombe, ritornano i tramonti sul sole di Maremma degli anni Ottanta, quando la terra si dischiudeva in strati che rivelavano gli anni di Rutilio, della fine del mondo che non finiva, mutava per essere altra cosa. Mutava nel V come era mutato nel IV secolo, e prima nel II, e poi anche dopo, ma senza Plutarco a raccontarci i drammi della guerra civile segnata dai morti ammazzati per gruzzoli e tesori perduti, o Cicerone e Cesare a farci sentire storie di profittatori e naviganti, Domizi e Sesti, e poi, come ci dicono le tegole, Coeli e Considi.
Ma qui, quando la via Aurelia non è più ripasciuta di ghiaie, i ponti si sfasciano come le ville, i signori di terre sterminate con i loro actores spremono qualche solido (o qualche tremisse?) alle fatiche annuali di poveri contadini e pastori che s'aggeggiano capanne e protezioni sui ruderi di ville e templi, desolati come le rovine di Cosa agli occhi di Rutilio quando sostò alla Tagliata, l'emozione delle nuove passioni contrappunta vecchie scoperte, non nella terra rimossa dagli ultimi contadini di Maremma sotto gli occhi dell'archeologo, ma negli archivi che celebrano storie di scavi di più remoti contadini.
La cintura del contadino (semiricco?) di San Martino, una foto sbiadita del secolo che fu, che sfila in US che non sono di terra, ma fascicoli con storie di cose e di uomini. E subito l'ansia di segnalarla, di condividerla, e scoprire poi che l'entusiasmo del ricercatore non può pungere un'Accademia a ben altro intenta.
Ma rimane il contadino di San Martino sul Fiora, morto in qualche anno del secolo VII nel territorio di Sovana, con la sua cintura impreziosita di ghirigori tardoromani, forse di manifattura centroitalica (ancora non era giunta la Crypta Balbi a dimostrare l'ovvio, per chi degli archeologi si fosse avventurato fra le irte pagine di Cassiodoro e Gregorio Papa). Legame, nel filo sottile di terre desolate (ma non troppo) fra la fanciulla di Saturnia, con i suoi gioiellini, e la società di campagna delle pergamene amiatine, fra vici che hanno ancora un bel nome romano, per sparire poi nei 'meravigliosi' anni di Carlo.
Una società rurale, si direbbe, ma complessa e stratificata, che è vana speme cercare fra mucchietti di cocci d'impasto (dice il vecchio archeologo, forse invidioso dei giovani che vi riescono, o credono di riuscirvi).
martedì 16 febbraio 2010
I segni della filatrice, i sogni dell'archeologo
Il cacciatore e la maga: i ghirigori della fuseruola di Fossa Cinque di Levante della Bonifica di Bientina, quasi quindici anni dopo, divengono improvvisamente chiari, narrano e cantano come poeti in versi dai ritmi perduti, arcaicissimi saturni etruschi, storie remote dell'Età del Bronzo.
La filatrice che alternatamente vede l'eroe con il cane e la lancia, come sul carrello di Bisenzio, che va ad affrontare un mostro serpentiforme; e perché non una variante dell'orcus che tanto piacque a Torelli, ancora nei bronzi dei vasi dell'Olmo Bello, con le loro storie inquietanti di una terra etrusca e italica che non si riconosceva nella luce del mondo ellenico.
E alterna il mitico cacciatore di mostri – quasi un Beowulf che parla un etrusco ancora sonoro (chissà ...) - con la snella figura soletta soletta, che affronta un altro mostro serpentiforme. Ma sì, è la maga che diverrà Medea, nella sagace esegesi di Marina Martelli, nelle narrazioni dei pittori orientalizzanti del secolo VII, che traducono nel linguaggio ellenico e nelle favole greche le torbide storie dei mostri generati dalla terra d'Italia.
Il cacciatore e la maga, il guerriero che ritorna e la filatrice stessa, con la sua magica fuserola, che riflette nelle due calotte i due lati del mondo, maschile e femminile, Torelli e l'orcus, Martelli e Medea ...
E poi l'archeologo si sveglia, il sonno poetico per oggi è finito. È l'ora del nulla-osta di cui, alla luce del comma, e del fango che di nuovo aspetta. Ma dal fango possono uscire anche i segni di una filatrice del 1000 a.C., nella Piana dell'Auser, sospesa sulla piattaforma di legno come una Melanesiana, a narrare storie di mostri, di donne, di uomini che affrontano con il cane amico la belva dei boschi o la belva dei fiumi.
domenica 14 febbraio 2010
Navigando dalla Piana dell'Auser alle isole Trobriand (o Kiriwani, per essere corretti)
Appena appena traspare l'umido calore dell'estate del 2006, la magica estate dei legni, nelle immagini dello scavo pulito da Serena ed Elisabetta, e Irene, guizzando leggere nel fango, solo lasciando traccia di suola potenti, lieve fatica per Photoshop rispetto a quella di sfiorare legni marci salvandone colore e superficie, pendule, in un forno verde. Nel distillato dell'immagine i puri volumi dei legni si fondono nel blu violaceo dei limi palustri, riemersi sul fondo del fosso da aprire, nel tratto fittissimo del disegno appena appena si distinguono i pali portanti e le assi galleggianti, intrico che emula quello dello scavo. È la mitica Fossa Cinque, il villaggio del Bronzo Finale cercato da quasi venti anni, nelle sue forme, nei suoi colori. E poi, l'anno dopo, l'asciutta griglia dei pali, e il grumo dei cocci che conferma la data: BF 3 B, come dice autorevole il Pacciarelli, gli anni intorno al 1000 a.C., data suggestiva. Le fatiche di Augusto finalmente coronate, i tanti ghirigori incisi sui vasi del Bronzo Finale che trovano lo scenario degno.
E anni e anni per lavare i cocci, incollarli, fatica e esaltazione di Consuelo, studiarli, anche se lo studio è facile, dopo gli strenui tormenti del '97 e i fasti di Livorno. Da Stagno a Fossa Cinque, lungo le vie dei fiumi che Marcello aveva visto nel satellite e dall'aereo, nell'intrico di rami dell'Arno e dell'Auser, vie che si aprono verso il nord, verso la Pianura Padana, Protogolasecchiani e Protovillanoviani, Etruschi e Liguri, si direbbe in parlar comune e non nel gergo mistico e autorefenziale del protostorici accaniti nello scandire le teste degli spilloni in forme, controforme, varianti. E bravi anche a crederci (o a far credere di crederci).
Ma per dar vita a pali e tavole e travicelli, e relitti di stuoie, è assai meglio metter le vele nel mare di Google, e andar per pile dwellings o pfahbauten, e arrivare oltre la Nuova Guinea, alle Salomone e alle isole Trobriand, le mitiche terre in mezzo all'oceano, del kula e di Malinowski. La Struttura 2 di Fossa Cinque, scavi 2007, diviene a colori nell'immagine delle isole dei mitici canti, dei rituali neolitici e matriarcali (?), di Kiriwani, giacché i navigatori della Melanesia e della Polinesia non avavano bisogno di un francese che desse loro nome; navigavano anche meglio dei francesi e degli inglesi del Settecento, con le loro terrificanti canoe.
Quasi si immagina che anche i Bronzifinali (ma avranno di certo parlato in etrusco) di Fossa Cinque e di Stagno, di Fonteblanda e di Punta degli Stretti, navigassero come gli Austronesiani, sul Tirreno. Ma gli Efori dell'Archeologia non vogliono, erano Bronzofinali, non etruschi, si divertivano a far le teste di spilloni e le fibule in cento modi diversi, per la loro gioia analitica e fasificatrice.
Ma forse vivevano come i Trobriandesi, girando per isole con il kula, pieni di voglia di vivere, di generare, energici ed energetici. Troppo per i classificatori di teste di spilloni e di ghirigori incisi su vasi costruiti non per analizzare il rapporto fra depressione del fondo e angolo del labbro, spigolo della carena, ma per portare alla bocca una bevanda che desse gioia, vita, forza, oblio (sarà stato il vino? Avevano i vinaccioli, i Bronzofinali, ma forse ci si facevano una bella macedonia).
mercoledì 10 febbraio 2010
Torture per una città romana
Si entra da una botola nell'archivio della storia della terra, dove muri eretti e demoliti tre e più volte raccontano all'archeologo che affronta l'umido del suolo e l'umido delle pareti nascita vita morte di una città romana, rinascita di strutture fra Tarda Antichità e Alto Medioevo, recupero di pietre per le torri del Medioevo, i palazzi degli aristocratici dei Seicento e del Settecento, nuove risorse urbane, PIUSS privati, si direbbe, ai giorni del terzo Millennio.
Non c'è da meravigliarsi, è assai bravo Alessandro a districarsi fra spianamenti e spolpamenti, con la colla attaccata alle suola e luci che diffondono il fumo di irrinunciabili sigarette; e dunque dall'impasto di argilla e calcinacci si delineano, appena appena rifatte dal solco delicato dell'archeologo estetista, le doppie e triplici fosse di spoliazione che narrano di miserie dell'Alto Medioevo, il focolare di chi puliva le pietre e scaricava gli avanzi, e poi dalle fosse di spoliazione, in un 'inverti colori' ala Photoshop, i muri che già furono di horti e domus, e gli anni di Augusto che non sono quelli cantati da Virgilio e Ovidio, anche se qualche pezzo d'Arezzo portava anche qui, fra i veterani di Filippi e di Azio sopravvissuti agli sgozzamenti delle guerre civili, e i loro figli, la dolce vita della capitale, così vicina e perdutamente lontana. Ci si contenta di un relitto di cementizio con inserti di scaglie, come celebrano le Vestali dei mosaici, salvato e sepolto da un pacco di terra di campo, salvato dagli spoliatori, salvato da chi dilata in basso gli spazi della città, ritrovando l'antico. L'archeologo devotamente recupera il cadavere, e dà sepoltura onorata, postremo munere mortis.
venerdì 5 febbraio 2010
Il trionfo dell'acqua nella Terra dell'Auser
La sola certezza è l'acqua, nello scavo sempre più ottocentesco, inseguendo cacciatori di bombe perdute, in campi che avevano le diritte geometrie della centuriazione e il nitore dell'agricoltura lucchese del Settecento, e ora sono devastati come le terre della Somme dopo un cannoneggiamento di dieci ore, da seicento buche aperte per cercare seicento bombe, senza trovarne neppure una.
In compenso archeologi sguazzanti nelle pozzanghere, temprati dal ghiaccio, dalla neve, dal vento, dalla noia, dalle marce nel fango, dal salto dei fossati, dal senso di inutilità di tutto quanto predetto, hanno trovato sin troppo in campi dimenticati, e soprattutto hanno trovato ciò che il vero archeologo si attende: l'incomprensibile, il mutilo, l'enigmatico, l'ambiguo frammento che vaga nelle nebbie dei secoli e sfugge, con i capelli tagliati più del Kairós, ad ogni finezza esegetica.
Ogni muro è una sfida, gli strati son muti, il loro intreccio si perde in tipologie ineffabili. E nel canale, sola certezza, affiora subito l'acqua, non permette di cogliere il piano di scorrimento (direbbe l'archeologo), metafora suprema di tutta l'impresa di cinque mesi.
E persino il relitto di muro che galleggia su livelli limosi nei quali si affonda tutto, solidamente ancorato ai decenni di passaggio fra XIX e XX secolo dai piatti di Mondovì e dalle pentole delle Alpi Marittime, lascia stupefatte le meravigliose archeologhe lucchesi che l'hanno ripreso dalle mani dei loro nonni o bisnonni; e ancor di più l'archeologo che nella fugace visita mimetizza il suo senso di impotenza e la stanchezza del girare a vuoto con qualche immagine che ricordi gli straniati profili di campi incorniciati da una sequenza inimmaginabile di corti lucchesi del Settecento, villette senza forma, capannoni senza storia e senza più vita.