lunedì 22 febbraio 2010

L'uccellino e la foglia. Da Castel del Bosco a Gello, per arrivare a Lucca





Era nel suo plumbeo fulgore il secolo morto, quando sulla strada dietro il cimitero apparve l'uccellino, frammento di un poeta seicentesco della graffita a punta, virtuoso esercizio, quasi violino protobarocco, di linee curve che magnifica la maestria del decoratore di campagna, inconsapevole genio della 'pennellata nervosa' (come direbbe un vecchio trombone storico dell'arte). Tanto vola la stecca sul nitido ingobbio, che il 'vasaio di Castel del Bosco' – come lo volle chiamare all'alba del nuovo secolo l'insolito sodalizio fra l'affannato archeologo e la giovine bramosa di sapere e di gloria – s'affonda nell'informale, con foglie irriconoscibili (se non per il modello) nelle macchie di colore che si spandono da linee tremule. Se non fosse di qualche decennio prima, il tocco di Magnasco, direbbe il raro frequentatore del Kunsthistorisches, ma altro non è che un frettoloso compendiario di campagna, prodotto da contadini-vasai, per i galeoni olandesi e inglesi di Livorno, e per il mondo (o anche per qualche sciabica da lì alla Provenza).
Misure di anni remoti, riflessioni di anni recenti, ma altrettanto remoti, nella sera in cui da Castel del Bosco si arriva, dopo essere passati per Gello, e l'amico perduto che ancora parla davanti alla chiesa tardoromanica e quasi gotica – Carlo che ora dialoga con Vipia Hirminai – a Lucca. O meglio, si ritorna a Lucca, già vista nei giorni della magia di Spagna e di Paolo Rossi, con un giro interminabile di trent'anni e più fra le graffite dei Seicento, poveri piatti di plebi urbane e di contadini miserabili, che qualche volta potevano concedersi anche un colorato volto di Montelupo; ma di solito sul desco consunto una foglia per la foglia del panino, un fiore per decorare il tondo del tondino, uno stemma per una nobiltà mai vista, un uccellino per sognare. Il fiore e la foglia, lo stemma e l'uccellino, o l'immagine di remote sontuosità, marmorizzate o emulate da uno schizzo di verde, povere pietre per piatti di coccio.
I pitocchi della pittura di genere, i mangiafagioli o l'osteria dell'Emmaus di Roma trasfigurata dal Caravaggio, perché gli uccellini tracciati senza alzar mai la stecca dall'ingobbio (o quasi) cinguettino posandosi sulle foglie di Venezia, divenute un ghirigoro, e un mazzo di fiori (ma qui ancora un singolo fiore) diano lustro all'arme di famiglia.
A Lucca, ventott'anni dopo o quasi, nel trionfo del rigore si tenta invano di assaporare i fagioli del Carracci, nei piatti misurati e scanditi da TAC infinite, che non vogliono neppure carpire l'anima. Forse perché non credono nell'anima, forse.

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