domenica 24 maggio 2015
Stemmi e girandole dei vasai di Gello di Palaia, dieci anni dopo Montopoli Marti e i Maestri dell'Argilla
Sono vintage ormai i vasai di Gello di Palaia, Seicento e Settecento rurale di Toscana, ma non dissimile dall'urbano, ci hanno insegnato Graziella e Marcella da Lucca e dal San Donato: piatti con stemmi subcompendiari, ghirigori informali chiazzati in bicromia, o scodellotte con girandole che hanno il sentore dei tagli di Fontana, dimentiche delle geometrie pisane di qualche decennio prima. E treppiedi treppiedi tanti, qualche altra cosa.
Ha salutato la Valdera e la Terra dei Quattro Fiumi l'archeologo vecchio, stanco il giusto, e vuol pagare il debito con la scienza, ultima frontiera da difendere del suo antico lavoro. Scassetta, deterge, fotografa, scontorna, disegna poco, non ha molta voglia, e anche le note non fan più per lui, ormai ripetitive, ma s'ha da fare o almeno si deve provare, se non altro per Carlo e i giorni con lui, Enrico, Ruggero, Consuelo, a stupirsi nel San Lorenzo di Gello davanti al martire e agli stemmi, e sui terrazzi dell'antico castello nell'intreccio di strati di terra e di cocci.
E Carlo ci ha lasciati da anni, con la sua vitale passione, altri amici anche, molti sono stanchi, si va alle pagine dei Maestri dell'Argilla a ritrovare i dieci anni quasi esatti dal giorno di Varramista, vento e calore come in questa decima primavera, quando i gigli d'acqua hanno esaurito i venti giorni di loro gialla gloria, gente e curiosità e interesse, gli scavi di Marti, dapprima con Daniela Ruggero e gli altri amici, ed Augusto, davanti alle geometrie delle mura castellane, poi sulla fornace con Monica e gli entusiasti allievi di Marco, che ora sono un po' qua e un po' là, Mara e Irene, Antonino e Giuseppe e Simone e tanti altri. Misurar muri e mattoni, leggere architetture con il rigore dei numeri.
E il museo che si rinvigoriva, nato un po' fragile, di Montopoli, nutrito dalle ricerche nel territorio fra Chiecina e Ricavo, con Silvia appena uscita dalle voragini della Pieve di Palaia, il magister Lippus, fornaci e fornaci e passione infinita di giovani archeologi ...
Dieci anni, e qualche giorno, di nuovo il vento fresco e caldo della primavera, nel Valdarno, a salutare gli ultimi, strenui gigli e il tramonto di una stagione.
venerdì 22 maggio 2015
La tazza degli amanti (tra terre di Lucca Morbelli Boldini)
Non s'ha da navigare nella leziosa rusticità di Alassandro Sani o di Gaetano Chierici per la tazza alla moda di Francia, Napoleone III o Terza Repubblica, porcellana di Parigi o di Bayeux, ma dichiarata figlia di terra e tosco lavoro dai colori GINORI, solido strumento per goder lentamente di ardenti bevande; ci si può fermare, appena con qualche indulgenza, all'ultima mensa degli amanti di Morbelli, fiori dispersi e champagne (di certo) e il liquido calore conservato dal brûlot, per prepararsi all'Asfissia. Piccolo lusso borghese di un palazzo di Lucca, riemerso dalla terra e dalle navigazioni sulla rete.
Ma giacché l'archeologo trova sin troppo di Morbelli e dei suoi vecchi dismessi nei frantumati cocci dei vasi dipinti a colori dal Sani e dal Cherici che la terra gli appalesa, s'adagia e concede i guizzi protoinformali di Giovanni Boldini alla tazza degli amanti, moda di Francia rivista dai lavoranti di Doccia per la terra di Lucca.
domenica 17 maggio 2015
Il segno del fosso (l'aggere e i gigli)
Arido sole di maggio, arati campi con polvere, ma l'acqua d'intreccio del fosso dell'aggere degli Etruschi con i fossi dei campi genera segni colorati; Iris pseudacorus come crop mark.
Ritornare al Botronchio, quando le orchidee selvagge riposano e lo stramonio prepara il suo fiore, praterie di fiori tardogotici inanellano le Cerbaie, per salutare le sublicae sepolte di Etruschi e Romani, e riconoscere i fossati dell'etrusco rettifilo di terra e di legno, già visti dall'alto, nell'effimero giallo dei gigli d'acqua.
Ritornare al Botronchio, quando le orchidee selvagge riposano e lo stramonio prepara il suo fiore, praterie di fiori tardogotici inanellano le Cerbaie, per salutare le sublicae sepolte di Etruschi e Romani, e riconoscere i fossati dell'etrusco rettifilo di terra e di legno, già visti dall'alto, nell'effimero giallo dei gigli d'acqua.
venerdì 15 maggio 2015
Reparatio saeculi (a Lucca, di maggio)
Felicitas temporum, direbbe il sorriso dell'archeologa, benevolmente fugace come i gialli gigli nelle acque di maggio, volto al piccone appoggiato sul tubo del gas.
Figlia della reparatio saeculi, proclamano i pilastri che la terra ha appena svelato sotto duplice strato di morti, indicati dall'ombra della pala meridiana infissa in terra d'orto, all'archeologo provetto negli anni che rivede, assai diversi, appena un po' più in là, i colori su cui s'affannò giovane o quasi, anno 1987, in un non diverso ma assai meno arioso intreccio di tubi.
Pietre di mura estratte da rovine, ricomposte in ordito di assise imbellettate di ciottoli. Si discetta e si divaga, un po' gigioni un po' pavoni un po' qualsiasi altra rima in -oni, di chiostri e chiese, rinnovellarsi e disfarsi, di allineamenti che si conservano nei millenni.
Ironico filo di sorriso e pilastri generati da rovine, immagine perfetta per la reparatio saeculi dei Costantinidi e dei Teodosidi, che nella terra si confessa, senza ampollar di retoriche, figlia di macerie.
Figlia della reparatio saeculi, proclamano i pilastri che la terra ha appena svelato sotto duplice strato di morti, indicati dall'ombra della pala meridiana infissa in terra d'orto, all'archeologo provetto negli anni che rivede, assai diversi, appena un po' più in là, i colori su cui s'affannò giovane o quasi, anno 1987, in un non diverso ma assai meno arioso intreccio di tubi.
Pietre di mura estratte da rovine, ricomposte in ordito di assise imbellettate di ciottoli. Si discetta e si divaga, un po' gigioni un po' pavoni un po' qualsiasi altra rima in -oni, di chiostri e chiese, rinnovellarsi e disfarsi, di allineamenti che si conservano nei millenni.
Ironico filo di sorriso e pilastri generati da rovine, immagine perfetta per la reparatio saeculi dei Costantinidi e dei Teodosidi, che nella terra si confessa, senza ampollar di retoriche, figlia di macerie.
lunedì 11 maggio 2015
L'amato volto dell'imperatore (Napoleone a Lucca)
Pezzo su pezzo per far storie dalla terra degli anni pieni di storie su monumenti e libri, archeologia ancillare ma curiosa per l'antico risalitor di valli tra Era e Egola, le discariche delle mezzadrili dismesse dimore che ora si ricompongono nei limpidi sacchetti e nelle gialle cassette e negl'infiniti numeri di ussssssssss che le dottrine della terra impongono ai giovani documentatori di strati. Vent'anni e più di scavi, per storie di piatti a Lucca, la Repubblica, Elisa, il Duca un po' pazzo ma forse no, corse di cavalli nuove piazze e case del boia.
Già ammirato, rispunta dal solido plastico contenitore il soldo dell'imperatore e re d'Italia, corona ferrea, M di zecca, l'altra faccia un po' livida, ma non tanto da celare la macumba al napoleonico volto imperiale, guance naso fronte e occhio. Non è un caso, non può essere un caso 1811 pare o qualche altro anno, guerre di Spagna e di Russia e di Germania e quant'altro, prima di perdere il soldo nelle terre del San Francesco divenuto ricetto d'infelici, chissà se più amati dalla Principessa Elisa di quanto li amassero o fossero amati dagli eredi del santo delle stigmate, sette segni come i dolori della Madonna.
Già ammirato, rispunta dal solido plastico contenitore il soldo dell'imperatore e re d'Italia, corona ferrea, M di zecca, l'altra faccia un po' livida, ma non tanto da celare la macumba al napoleonico volto imperiale, guance naso fronte e occhio. Non è un caso, non può essere un caso 1811 pare o qualche altro anno, guerre di Spagna e di Russia e di Germania e quant'altro, prima di perdere il soldo nelle terre del San Francesco divenuto ricetto d'infelici, chissà se più amati dalla Principessa Elisa di quanto li amassero o fossero amati dagli eredi del santo delle stigmate, sette segni come i dolori della Madonna.
venerdì 8 maggio 2015
Mangiar fagioli, bere vino in bianco (scena lucchese del XVII secolo)
Acide fatiche, dopo lavoro di spalle su cassette ripiene, cornucopie di cocci ritrovati con affetto e passione qualche anno fa – molti o pochi, può divergere il parere – e la us nonsoquanto dell'ambiente x di affacci su Via San Paolino, con la colla della curiosità ci propone un bel completo da tavola del Seicento pieno.
Anni di Pietro Paolini o quasi a Lucca, ma da sceneggiare con i fagioli del Carracci, per riempire di zuppe da divorare con la fame il tazzone con un po' di verde e due righe a segnare dove dovrà iniziare il lavoro del ligneo cucchiaione, e una D sul fondo, a stupire la fame insoddisfatta. Ma per il vino non il trasudante boccale graffito, alla padana ma anche alla toscana: puro globo con cilindro, ritorta ansa, asettico e rilucente smalto, bianco internazionale depurato anche di leziosità compendiarie.
Geometria dei solidi, per mangiar fagioli a Lucca nei primi del Seicento, e digerire il tutto con bianco nel bianco.
venerdì 1 maggio 2015
L'ultimo fiore barocco, i primi gigli di primavera
Il tepore d'aprile fa risorgere dalle acque d'inverno i primi gigli, rinati per la sesta volta dacché si scrivono queste pagine, lavaggi curiosi fan riemergere dai frutti della terra rimossa dalle archeologhe di anni altrettanti e anche più l'ultimo fiore barocco, popolaresca mano di vasaio di Montelupo degli anni dei minuziosi fiorellini di maioliche neoclassiche, dichiarano poche pennellate di verde sul fondo dell'alzatina, mutila quel che basta per lasciare l'enigma sul decennio 1760, la guerra dei Sette Anni, granduchi venuti d'Austria, alluvioni e bonifiche, reggenti ecc. ecc. E la Repubblica incerta fra i vasi di Toscana e le novità cupe di Liguria.
Seriale fiore figlio di nature morte di un secolo prima, buono per boccali, per dar sentori a vini di osteria e per alzate allegre di tre colori per la frutta che le riempie. Arte plebea, conservativa, antiche lezioni, mai dimenticate.