mercoledì 10 agosto 2011
Prima e dopo Saturno: paesaggi di terra e di colori etruschi sull'Arno
Non v'è traccia delle vigne i cui frutti andavan per metà al Vescovo di Lucca, negli anni di Carlo Imperatore, né dei segni della zappa di Ghiso figlio di Pincia e di un prete dimenticato, nei paesaggi di terra che sulle rive dell'Arno dischiude il tubo del metano.
Le storie di Saturno, della terra affidata a Ghiso e poi ad altri, e poi ai signori di Porcari, con il loro amato Sant'Andrea, sono spazzate via dal fiume, sulla sponda destra dell'acqua che le generava, per vigne fieno cereali e fatiche, fatiche infinite, a Saturno e nella curtis di Vigesimo, con il vescovo, Fraolmo padre e figlio e nipoti, e gli amici loro, ad insistere in triplice schiera su chi sentiva il rombo amico e ostile del fiume. Anni di ferro, e di acqua, di pornocrazia e di fuga dalla terra, per una pace da cercare altrove, forse lontano dalla Terra.
I segni della Villa di Sant'Andrea, nell'ultimo secolo di una storia millenaria, sono fosse ripiene di terra nera e brocche-testi-olle dei contadini che chiamavano Bugnoro a regolamentare (come direbbero i Superiori Ministeri) i rapporti con i loro stakeholder (non si finisce mai di scoprire, nelle aulenti prose ministeriali, le meraviglie della novella itala lingua): i frati dell'Altopascio, gli scagnozzi del delegato imperiale di Fucecchio delegato da San Miniato delegato dall'Imperatore (sempre un Imperatore, a far del male), e dei delegati di Dio, a chiedere l'ultima parte, prima del poco di grano e di miglio e di vino indispensabile per arrivare al prossimo raccolto e per aspettare un raccolto.
Fosse da seguire con le parole di Bugnoro, negli anni 1241 o giù di lì, nella casupole perse della Villa di Sant'Andrea, il fratello del vicino San Pietro, progenitore questo dei Castelfranchesi, quello dei Santacrocesi, millenni di fatiche condivise sul fiume distinte in due castelli simmetricamente difformi sin dalla fondazione.
Ma prima, prima del Saturno romano, sacello immaginato a celebrare frugifere gioie sul ramo perduto della via dell'Arno, un po' oltre Vigesimo e prima del Lapillo, i segni nella terra degli Etruschi della Terra dei Quattro Fiumi, millesettecento anni prima, con fosse nella terra e terra nera con molto bruciato e intonaco di capanna (meraviglie di canne e legnetti) e olle d'impasto ad anticipare le olle del contadino del Duecento, tazze carenate di bucchero nero con un righellino o due per attingere ministre di farro e d'orzo, con un po' di lenticchie e di fagioli per la zuppa, pulmentarium dei primi decenni del secolo sesto prima di Cristo.
Hanno il color ocra della terra d'Arno i segni della capanna infissa nella terra, tonda come le tholoi dei signorotti di Volterra e di Artimino (con buona pace dei dotti dell'Accademia), ma anche brillano nel sole d'agosto con l'arancio del fuoco sulla terra e il nero del carbone, il focolare che scaldava il pulmentarium.
E l'Archeologo Zio, appena letto il manuale del Perfetto Cavaliere, per una mezzora dimentica, nel sole dell'Arno tanto simile a quello dell'agosto di quand'era bambino, e traversava l'Arno, Norme e Prescrizioni, Cilici ed Astinenze per Cavalieri Templari al servizio di Cardinali Gaudenti.
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