giovedì 16 novembre 2023

Il gastaldo e i marmorari. Le ragioni di una ricerca


Quando dagli amici aretini (Pierluigi Licciardello e Giulio Firpo, in particolare) giunse l’invito a partecipare alla giornata di studi in memoria di Alberto Fatucchi – poi tenuta il 24 novembre 2018 – con un contributo sui rilievi altomedievali in Toscana, non mancò un po’ di emozione, nel rivivere la felice stagione di ricerche che era partita, quasi per caso, negli interrati del complesso di San Frediano, a Lucca, sul finire degli anni Ottanta del Novecento.

Mentre con Paolo Notini si cercavano – con qualche successo – strati capaci di confermare la cronologia tardoantica del primo complesso ecclesiastico, dedicato a San Vincenzo, il sagrestano, il compianto Enzo Riccomini, in una conversazione che divagava sull’Alto Medioevo e sul rilievo di quei secoli reimpiegato a ridosso dell’abside, segnalò che una seconda lastra, molto simile, era visibile sull’altro lato, inglobata in un magazzino, ovviamente non accessibile al pubblico, e quindi sfuggita anche alle indagini più attente sul monumento e sulle sculture altomedievali di Lucca.

Navigando sulle onde di un interesse nato per ricomporre la storia del San Frediano fra Tarda Antichità e Alto Medioevo, davanti alle pagine del Biehl (Biehl 1926) sul cimelio ‘gemello’ del San Giusto di Volterra non fu difficile lasciarsi sedurre dall’esigenza di collocare la nuova acquisizione nel panorama delle produzioni artistiche lucchesi, abbozzando un saggio di ricostruzione delle botteghe di marmorari lucchesi d’età longobarda (Ciampoltrini 1991 a); un percorso che appare, a più di trent’anni di distanza, non privo di ingenuità e di lacune bibliografiche, che si possono forse perdonare perché in quegli anni era disponibile solo la pur ricca biblioteca del Kunsthistorisches Institut di Firenze, e non la risorsa pressoché inesauribile della rete.

Con uno sguardo educato da queste letture, non fu difficile, poco dopo, riconoscere nei capitelli in opera nell’abside di Santa Maria foris portam, ancora a Lucca, un esemplare di reimpiego, non meno negletto fino ad allora, che divenne punto di partenza di una seconda tappa dell’itinerario nell’Alto Medioevo lucchese e, questa volta, anche toscano (Ciampoltrini 1991 b). Dopo aver seguito, episodicamente, le vicende della Toscana settentrionale fra tardo VII e inizi del IX secolo, sembrò inevitabile affrontare lo stesso percorso nella Toscana meridionale, iniziandolo a Chiusi e concludendolo a Sovana (Ciampoltrini 1991 c), e infine cercare nel VI secolo l’anello di snodo fra Tarda Antichità e Alto Medioevo, ancora una volta immaginando il contesto di un frammentario marmo lucchese visto qualche tempo prima in Santa Reparata, e poi nei depositi del Museo Nazionale di Villa Guinigi, sovrapponibile per iconografia e per tecnica di realizzazione alla lastra del perduto altare fatto erigere dal presbyter Valerianus su disposizione del vescovo Frygianus (Ciampoltrini 1992).

L’ospitalità di Mauro Cristofani e di ‘Prospettiva’ avevano consentito libertà e audacia impensabili oggi, fra le nebbie della ‘revisione paritaria’, o peer review che dir si voglia.

L’itinerario era completato, nuove sfide si ponevano all’archeologo di soprintendenza negli anni Novanta, decisamente meno sereni.

Fu il rinnovamento del Museo di Villa Guinigi, voluto da Maria Teresa Filieri e concluso da Antonia D’Aniello, intorno al 2010, a risuscitare per qualche tempo le remote passioni, mentre si vedeva nascere la sala dedicata alle sculture altomedievali, accanto a quelle che accoglievano, in un fraseggiare serrato e vivace, le testimonianze dell’archeologia del VI e VII secolo, e una selezione dei reperti dello scavo di Santa Reparata. Un percorso museale affascinante, anche se questa passione non ha trovato molte condivisioni, e che aveva, indirettamente, una spettacolare illustrazione nella pagine con cui Annamaria Ducci sintetizzava la serie dei suoi contributi sull’Alto Medioevo lucchese in un’opera collettiva sull’arte a Lucca nel Medioevo (Ducci 2014).

Mentre il compianto Rodolfo Cozzani e la sua squadra ponevano in mostra ceramiche del VI e VII secolo, cinture d’età longobarda, rilievi e affreschi staccati di Santa Reparata, riaffioravano immagini e pagine di tanti anni prima, e si valutava se non fosse stato il loro carattere rapsodico a rendere meno chiara la ragione di una queste che cercava di raccordare produzioni artistiche e il contesto politico-culturale che le aveva richieste, magister marmorarius e committente: gli alti funzionari della corte regia di Cuniperto, alla fine del VII secolo, fra Volterra e Lucca, e subito dopo a Lucca l’aristocrazia cittadina e il suo progetto di esaltare il ruolo della città sulla via per Roma, via di pellegrinaggi e non solo, con una crescita della domanda capace di determinare la nascita e la fortuna, effimera, di una bottega locale (i marmorari lucchesi: Ciampoltrini 1991 a); il dux Gregorius a Chiusi, e una ‘strategia della comunicazione’ degli anni di Liutprando sostanzialmente parallela a quella coeva lucchese, ma demandata a maestranze partecipi del clima della ‘rinascenza liutprandea’ della corte di Pavia e delle grandi commissioni pubbliche dell’Italia settentrionale (Ciampoltrini 1991 c); il ‘canto del cigno’ sul finire dell’VIII secolo – gli anni di Carlo Magno rex Langobardorum, prima ancora che imperatore – con l’afflusso di modelli (o manufatti) romani percepibile con prepotenza a Sant’Antimo e poi nella politica di promozione delle chiese cattedrali che si lumeggiava da Lucca a Pisa, Firenze, Roselle (Ciampoltrini 1991 b). Infine l’esaurimento, con la crisi che inizia nei primi del IX secolo, tanto evidente nelle carte documentarie, quanto negletta nel fulgore del mito carolingio, che oggi è soprattutto mito di fondazione dell’Europa di Bruxelles e di Strasburgo.

Forse perché spezzato in tappe con punti di partenza e di arrivo non sempre vicini – o forse perché non convincente – il percorso nel rapporto fra maestranze e committenze, essenziale anche per elaborare una ‘cronologia ragionata’ dei rilievi altomedievali in Toscana, costruendo una griglia diacronica dalle maglie adeguatamente strette in cui far ricadere l’evidenza superstite, non aveva avuto riconoscimenti particolari, pur in un dibattito su questi secoli sempre più vivace e fitto di contributi, spesso talmente densi e continui da disperdere l’attenzione.

Un po’ di vittimismo all’archeologo che tanto ha lavorato nelle Soprintendenze, avulso dai centri del potere accademico e della sua potenza di fuoco nell’esaltare e nel deprimere, anche con l’arma più efficace (il silenzio), si può concedere …

Dunque l’invito ad Arezzo parve un’eccellente, inopinata occasione di riflettere sulle proposte di trent’anni prima, rivedendole in un ordine diacronico che le rendesse meno frammentate, e aggiornandole alla luce di nuove acquisizioni, in qualche caso particolarmente consistenti, come appunto quelle lucchesi ora apprezzabili a Villa Guinigi (e nelle carte del Ridolfi, finalmente edite: Ridolfi 2002), o il complesso di San Leolino, a Panzano nel Chianti, allora ricostruito da Renato Stopani (Stopani 1998) e non ancora dalla filologia di Guido Tigler (Tigler 2021).

Giacché è irresistibile la seduzione delle proprie idee, soprattutto di quelle generate dalla vitalità giovanile, all’aggiornamento era improbabile che si abbinasse una revisione; anzi, era inevitabile che la presentazione di Arezzo altro non fosse che una recensione, diligentemente completata di nuovi acquisti e di nuovi contributi bibliografici, delle valutazioni di trent’anni prima (Ciampoltrini 2020 b). Il viaggio si arricchiva di nuove soste, ma i paesaggi da apprezzare rimanevano immutati.

Soprattutto, rimaneva senza una risposta solida, motivata, la domanda sul momento della genesi, la ripresa dell’attività dei marmorari negli anni di Cuniperto; forse una domanda inutile, come quelle che già si sa che sono senza risposta, forse un’ossessione nata negli interrati di San Frediano, ricercando il segno di Faulo (e dell’abate Babbino) fra i resti della chiesa cruciforme di San Vincenzo e le illuminazioni dei reimpieghi nell’area absidale. Insomma, una ricerca frustrante, come deve essere una vera Queste del Saint Graal, ma ineludibile per l’archeologo formato negli anni Settanta, quelli del contesto, delle cronologie minuziose e non al secolo, delle fonti.

Nei vagabondaggi sulla rete può capitare di avvistare sirene che sviano da rotte che si pensavano già tracciate. Quando, per suggerimento delle bibliotecarie dell’Accademia, si incontrarono i pdf degli Spogli degli Annali settecenteschi della Colombaria di Firenze, resi (quasi) integralmente disponibili con un gesto non frequente in Italia, la sosta per ascoltare il canto delle sirene del Settecento fu lunga, e preziosa; non il naufragio, ma nuova conoscenza, come le vere sirene devono saper fare. Ogni pagina raccontava storie, in parte già lette nei libri del Gori e del Targioni Tozzetti, in parte intravviste nei carteggi dello stesso Gori, assaporati negli anni Settanta nella Magliabechiana. Spesso però rimaste sepolte e perdute, dopo l’effimera fortuna nelle riunioni dei Colombi.

Una storia faceva riemergere l’incontro a Volterra con l’iscrizione di Alchis, nel nuovo San Giusto – tappa comoda per chi arriva in città dalla Valdera – con il bellissimo apografo del pittore Ippolito Maria Cigna. Bello e, apparentemente, inutile, giacché niente (o quasi) aggiungeva alla conoscenza del monumento, se non confermandone e anticipandone di qualche anno la fortuna nell’onnivora erudizione fiorentina del Settecento.

Ma la rete ha comode seduzioni, non solo di sirene. Pur già vista, certamente, nel corpus del Rugo (Rugo 1974-1980), ma inosservata, fu sufficiente qualche parola di ricerca per far apparire la dedica di Radoald, vir magnificus, gastaldo a Vicenza, con l’impressionante sovrapposizione del modo di scrivere fra la sua e l’iscrizione del ‘collega’ gastaldo di Volterra; con questa, apparve anche la proposta di Bognetti, di porla negli anni di Cuniperto.

Ad Alchis e a Faulo si poteva aggiungere dunque Radoald; soprattutto, si percepiva, dall’Austria alla Tuscia, un ‘modo di scrivere’ comune che anticipava alla fine del VII secolo la ‘politica dell’immagine’ degli anni di Liutprando, estesa anche alle iscrizioni. Un contributo sufficiente per affrontare di nuovo il ‘contesto’ della ‘rinascita’ delle produzioni artistiche negli anni del re Cuniperto, in una «società scritta, quale fu la società longobarda della fine del VII secolo», come conclude Antonella Ghignoli il suo saggio sulle carte di Alahis (Ghignoli 2004), forse un mero semi-omonimo, più probabilmente lo stesso che fece costruire le chiese per il santo volterrano e per il suo compagno di ventura, o fratello, Clemente. Alahis sottoscrive con un segno di croce, ma sapeva che le imprese architettoniche che volevano dimostrare la nuova epoca dovevano essere celebrate anche con la scrittura; così come lo sapeva Radoald a Vicenza.

Sapeva anche che architettura e scultura dovevano dialogare, per rappresentare il ‘rinnovamento’ nell’evidenza della pietra che sostituiva il legno negli arredi liturgici, una tradizione che nello stesso tempo papa Sergio I rinnovava a Roma? È un postulato, accettabile, se non altro perché se Alchis non lo sapeva, provvedeva la corte di Pavia a ricordarglielo, con il maiordomus Faulo; o l’abate Babbino, con cui il suo semi-omonimo aveva avuto rapporti.

Il sapere accademico potrebbe avere non poche obiezioni, ma da questo postulato è partito il ritorno a San Frediano e ai creativi anni Ottanta, in giorni segnati dalla scomparsa della mamma, prevista e prevedibile perché il Tempo è inesorabile, ma non meno capace di dare la percezione del vuoto.

Queste pagine la vorrebbero alleviare, nel vigore di un ricordo che trasformi ombre in immagini colorate; o almeno in bianco e nero.

O forse solo con un’illusione, come la danza di cerchi tangenti con rosette esapetale che s’annodano a iscrizioni e pergamene fra Lucca e Volterra…

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