giovedì 21 aprile 2011
La croce del guerriero: concludendo un viaggio archeologico nella città di San Frediano
Giulio Ciampoltrini
L’itinerario archeologico proposto da venti e più anni di scavi urbani si chiude con la rilettura di un ritrovamento ottocentesco che è ancora essenziale, come le pagine di Gregorio sul miracolo di San Frediano, e quelle di Agathias sull’assedio del 553, per intravvedere almeno le ombre della città che sopravviveva fra le rovine del mondo romano.
Solo per faticosa congettura si potrebbero cogliere relitti della città del VI e VII secolo nelle strutture in ciottoli che comunque preludono alla nascita di una tecnica costruttiva che dominerà l’Alto Medioevo; tuttavia, l’attività di spoliazione che traspare in Via San Giorgio non poteva avere per scopo solo il recupero di materiale per apprestare tombe come quelle del Galli Tassi, o di Piazza del Suffragio, ritrovamento 1859. La produzione di apparati scultorei ecclesiastici indica che ancora si innovava nelle dotazioni di una città alla quale comunque la Lucca tardorepubblicana e della prima età imperiale offriva mura turrite, ruderi dei monumenti pubblici, resti di domus fra i quali scavare pozzi e recuperare cisterne per attività artigianali, adattare aree di vita e ritagliare tombe.
Come nella narrazione del miracolo di San Frediano e nelle trattative di Narsete, i ‘Lucchesi’ sono nell’evidenza archeologica una massa pressoché indistinta, fino a che non arriveranno i Longobardi a proporre, nelle scansioni etniche tracciate per meno di un secolo dai diversi costumi funerari e nei diversi toni delle dotazioni funebri l’immagine di una società complessa ed articolata, in cui il favore della corte regia, l’apertura agli scambi diplomatici o agli intrighi, offrono straordinarie occasioni di manifestare il proprio status con splendidi oggetti suntuari. Il dux Taso, con le sue brighe tra la corte di Pavia e l’esarca di Ravenna, sullo sfondo di una Tuscia in cui doveva certamente avere un ruolo particolare Lucca, è un esempio inquietante, alla scala superiore della struttura sociale, di chi doveva apprezzare la donazione di uno scudo o di un elmo dalla corte regia, di una preziosa cintura dall’Impero. Ma anche fra i Romani, nella distinzione fra le semplici fosse del sepolcreto del Cortile Carrara o di Via Sant’Anastasio e le accurate tombe del Galli Tassi, con la defunta ornata dall’ago crinale dorato, sembra di discernere la complessità del corpo sociale che a Lucca faceva sopravvivere le strutture amministrative cittadine, non solo per soddisfare le esigenze del fisco e delle guerre, ma anche per proporre recuperi di terre allagate o allagabili, trattare con i conquistatori di turno le condizioni della sua sopravvivenza.
Un’ombra, ancora indistinta, di questa società è, infine, nella testimonianza dei contesti ceramici del VI e VII secolo, scanditi dalle ceramiche e delle lucerne che vengono dall’Africa, talora per essere imitate, che attestano consumi e traffici dei nuclei insediativi che si dispongono fra i ‘frantumi’ della città romana, ripetendo il modello tardoantico. Sono comunità che fino alle soglie del VII secolo partecipano ai traffici mediterranei, attente soprattutto a merci particolari, come quelle distribuite con i piccoli spatheia dall’Africa, o agli ultimi manufatti di sigillata africana, assurti al rango di oggetti di pregio in mense alle quali possono essere proposte, al limite superiore della scala sociale, le suppellettili metalliche e all’inferiore le ceramiche rese vivaci da qualche pennellata di vernice rossa. È da Pisa e dalle reti d’acqua ancora proposte dall’Auser che lambisce Lucca questo esile flusso di merci, integrato dai beni alimentari africani, orientali, dell’Italia meridionale, almeno finché le rotte che portano dall’Africa a Roma troveranno l’ultimo terminale nelle milizie imperiali di guardia alle fortificazioni della Liguria bizantina. Si direbbe, anzi, che proprio dalla seconda metà del VI secolo, con l’intreccio di soldatesche bizantine e bande di Goti o di Franchi prima, e i Longobardi poi, questi traffici abbiano preso una consistenza capace di lasciare traccia archeologica: il magister militum Bono, rimasto a presidio di Lucca dopo la consegna a Narsete, o il comes Funso potevano beneficiare dei rifornimenti imperiali, potenziando, sia pure indirettamente, la vitalità della rete itineraria; la domanda di beni suntuari da parte dei Longobardi, d’altro canto, si rivolge anche alle botteghe di Roma. Per queste vie si propagano, plausibilmente, anche i modelli ceramici che apparentano Lucca all’antica capitale ancora nei primi decenni del VII secolo, per ridursi poi all’austero e ‘regionale’ repertorio morfologico dei secoli centrali del Medioevo: la storia del bacino con beccuccio versatoio è un indice affascinante della circolazione dei modelli culturali agli albori del secolo VII.
Infine, se è solo un’ipotesi che l’edilizia in ciottoli dei secoli centrali del Medioevo abbia precedenti già fra VI e VII secolo, è difficile sottrarsi alla suggestione che nei sepolcreti che almeno dallo scorcio finale del VI secolo segnano la più vistosa rottura con l’assetto urbano tardoantico – erede della tradizione giuridica e rituale del mondo romano nella scansione degli spazi dei vivi, intramuranei, e degli spazi dei morti, guidati dalle fondazioni ecclesiastiche all’esterno delle porte – disponendosi dentro e fuori le mura, si debbano riconoscere i prodromi delle fondazioni ecclesiastiche private che segneranno la vita cittadina del secolo VIII, con una fervente adesione ai modelli della società cattolica che ritrova temi e modi della società rispecchiata dai testi di Gregorio Magno. I casi di San Salvatore e di San Bartolomeo prope Silice corroborano la suggestione che il sepolcreto di Piazza del Suffragio, davanti alla chiesa di Santa Giulia, in cui si fece seppellire l’aristocratico longobardo fosse collegato ad un edificio di culto dedicato appunto alla santa della Corsica, conosciuta nelle avventure sul mare dei Lucchesi e dei Pisani, Longobardi – e forse anche Romani. Soggetti ‘bizantini’ per la sua cintura, iconografie ‘bizantine’ per il suo scudo, sepoltura in uno spazio che segna la fine di un elemento nodale della città tardoantica: davanti a Santa Giulia un vir magnificus – un titolo ‘bizantino’ – poteva concludere la sua vicenda terrena dichiarando in maniera esemplare tratti innovativi e elementi conservativi della sua società e della sua città.
Anni di transizione, dunque, anche nell’evidenza archeologica di un itinerario fra tombe e discariche, quelli ‘di San Frediano’ e dei suoi successori, anni in cui si forma, dalla convivenza e dall’osmosi fra Romani e Longobardi, la vivace società lucchese del secolo VIII, nucleo fondante della futura città comunale.
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