domenica 30 maggio 2010
L'ultima anfora d'Africa a Lucca
È stato bravo Alessandro a scorgere al buio degli strati neri i frammenti dispersi nell'infinita sequenza che la sua scienza archeologica è riuscita a discernere, e paziente l'archeologo funzionariando a lavarli uno per uno, ritrovando antiche manualità nei ritagli di tempo delle chiacchiere infinite e dei progetti innumeri e inutili, a coltivar l'arte del puzzle e poi incollarli con la forza dell'attak (pubblicità occulta, meraviglioso frutto proibito), giacché non ha tanti anni di vita da poter attendere mitici restauratori allievi e maestri dell'eccellenza tronfia che accomuna ministri e dirigenti, sindacalisti e tromboni d'accatto. Sempre a frignare sui soldi che mancano, come la musica andina, trent'anni che si ripete sempre uguale, ma senza il fascino delle vette delle Ande.
E dunque, sottratta in briciole alla terra, ricomposta per un attimo, prima che la mancanza di restauratori eccellenti facesse sentire il suo peso, si staglia l'ultima anfora venuta d'Africa a Lucca, per spargersi in mille pezzi in una buca aperta chissà perché, fra le rovine di una domus a cui tutto il sottraibile era stato sottratto. Keay VIII, decreta il Maestro delle Anfore, e precisa poi (ma ci si arrivava anche senza) che di certo è una delle ultime Keay LXII, anfore grandi, cilindriche, piene dei frutti di una terra che stava per morire e rinascere in altre forme. I rossi giganteschi piatti e vassoi giunti dalla stessa terra, forme Hayes 104 e 105 e coppette 108 o 109 o centoettanti, come decretano gli emendatori romani del verbo anglocanadese, sono schizzi di colore e di sapore che danno il gusto degli anni a coppe gocciolanti di un povero rosso, ai vasi a listello, con o senza beccuccio versatoio, con o senza schegge di laviche pietre per preparare le pappe al farro.
Siamo nel VII secolo, più o meno, o forse alla fine del VI, o chissà, in secoli bui in cui si perdono le truci gesta di Agilulfo e di Rotari, e non si sa se i naviganti giunti o tornati dall'Africa narravano le gesta di Eraclio, degne dei versi di Giorgio di Pisidia, o portavan piuttosto le novelle dell'avanzata degli Ismaeliti, dei Saraceni, nelle terre fra l'Eufrate e lungo il mare d'Africa.
Keay VIII, variante della LXII, degli anni di Eraclio e del piccolo opportunista capetto della banda di razziatori giunti dalla Pannonia a far male all'Italia, se già non ne avessero fatto tanto i Signori della Classe Dirigente dell'Impero, scaricata in una oscura fossa di Lucca nell'ultima luce del crepuscolo del mondo antico. E l'alba del mondo nuovo era solo la fatica del giorno dopo, per volti che ci sono trasmessi con le stralunate somme di ellissi e cerchi compressi delle immagini del secolo dell'ultima anfora giunta dall'Africa.
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