venerdì 6 novembre 2009

Ancora per Lucca tardoantica. Le produzioni ceramiche (un inedito pisano, per LRCW 3, prima che esca ...)










Giulio Ciampoltrini, Augusto Andreotti,
Paolo Notini, Paola Rendini, Consuelo Spataro


Traffici e consumi ceramici nella Valle del Serchio in età teodosiana


Nonostante l’assenza di indagini sistematiche e dei correlati, adeguati finanziamenti, un trentennio di attività di tutela condotta a Lucca e nel suo distretto (la Valle del Serchio e il tratto di Valdarno Inferiore sulla destra del fiume: Fig. 1 A) ha permesso non solo di tentare una ricostruzione della dinamica dell’assetto urbano e dell’insediamento nel territorio fra IV e V secolo d.C. (Ciampoltrini, 2007, 15-36), ma anche di delineare il sistema dei tipi ceramici in uso, in particolare fra la fine del IV e i primi decenni del V secolo a.C., epoca in cui si concentrano – forse non casualmente – gran parte delle stratificazioni tardoantiche incontrate (sintesi in Ciampoltrini et al. 2005, 324-327).
La profonda crisi subita dalla città e dal territorio nel corso del II secolo d.C., in effetti, sembra esaurirsi, dopo sporadici tentativi di ripresa in età severiana, nei primi decenni del IV secolo. Si è suggerito di connettere la ritrovata vitalità cittadina, e il nuovo sistema di insediamenti che si delinea nel territorio, al ruolo che la città assume dallo scorcio finale del III secolo grazie alla sua collocazione strategica in un nodo del sistema itinerario dell’Etruria settentrionale, chiave dei collegamenti fra la Pianura Padana e Roma (Ciampoltrini, 2006, 61-64). Il restauro delle mura tardorepubblicane, indiziato da un’iscrizione che consentirebbe di datarlo negli anni di Probo, e comunque testimoniato da un’evidenza archeologica ormai consistente, potrebbe in effetti aver contribuito in modo risolutivo alla scelta della città come sede di una fabrica imperiale di armi (di spathae), per la posizione al terminale, a sud dell’Appennino, del percorso itinerario che a Parma si innestava sulla via Aemilia e nel sistema stradale padano. La rinnovata vitalità del tessuto urbano, intorno agli edifici del culto cristiano – la cattedrale, impiantata sui resti di un complesso termale forse già prima della metà del IV secolo, come dovrebbero indicare le pavimentazioni musive (Ciampoltrini, 2005 a); il battistero, ottenuto dall’adeguamento di un edificio dello stesso complesso ternale (Ciampoltrini, 2001 b) – si manifesta nel corso del IV secolo con il pullulare di aree residenziali sui frammenti della città medioimperiale sopravvissuti alla crisi del II secolo a.C. (Fig. 1 B); è una ‘città allo stato fluido’, come si è proposto di definirla in un recente contributo (Ciampoltrini, 2006), caratterizzata da un’estrema volatilità delle rinnovate aree insediative e dall’incertezza dei loro confini. È possibile che anche la nuova vitalità del territorio sia in gran parte dovuta al nuovo ruolo della città: l’approvvigionamento di materie prime per la fabrica cittadina, ma anche di legname per i cantieri navali pisani che si profilano sullo sfondo del bellum Gildonicum (Claudiani de bello Gildonico, 483), può in effetti aver indotto la formazione di nuovi insediamenti nella montagna appenninica, così come le esigenze annonarie e un nuovo assetto delle proprietà possono essere stati ottimi motivi per la rioccupazione di insediamenti in gran parte abbandonati da qualche decennio. Con le fondazioni di chiese imposte dalla progressiva affermazione del cristianesimo, distribuite essenzialmente lungo gli assi viari fluviali e terrestri, come ha dimostrato nel 2006 lo scavo di San Pietro in Campo a Montecarlo (Ciampoltrini, 2007, 37-42), è questo in effetti l’aspetto più vistoso – almeno nei dati sin qui disponibili – del IV secolo nella fascia di Etruria settentrionale (ormai Tuscia annonaria) che va dall’Arno sino al crinale appenninico. Lo scavo sistematico dell’area di Palazzo Fatinelli, nel quadrante nord-orientale della città, nell’inverno 2005 (Fig. 1 B, 9; Ciampoltrini et al. 2005, 320-330), ha aperto il panorama sin qui più articolato sui sistemi ceramici che accompagnano la ristrutturazione urbana della seconda metà del IV secolo, confermando comunque le indicazioni scaturite dai contesti esplorati fra il 1988 e 1989 che, presentati già nel 1990 (Ciampoltrini, Notini 1990), con i materiali degli scavi urbani di Fiesole (Fiesole 1990) avevano permesso una prima analisi dei tipi ceramici e dei traffici attestati da contenitori anforici nella Toscana settentrionale interna della Tarda Antichità. La discarica aderente al lato settentrionale di un edificio fondato entro la metà del IV secolo (Fig. 2: US 821), in parte con strutture erette ex novo, in parte recuperando in relitti di una domus tardorepubblicana, è puntualmente datata da monete in bronzo di Valente e Valentiniano I che ne pongono l’accumulo, sul selciato che formava l’esterno di un vano provvisto di pavimentazione musiva, negli anni intorno al 370-380. I tipi della sigillata africana – che compongono il repertorio più coerente sin qui emerso da Lucca – collimano con questa cronologia, con le forme 61 A e 67 Hayes, cui si aggiunge un esemplare di forma 53 B (il primo da Lucca), oltre a frammenti di forme 52 B e 59; di produzione africana potrebbe essere anche una piccola olpe, forse giunta come contenitore di sostanze pregiate. L’estesa presentazione del contesto (Ciampoltrini et al. 2005, 327-330) consente una rapida rassegna dei tipi ceramici da mensa di produzione locale (Fig. 3), che forniscono il grosso della suppellettile da tavola, in puntuale emulazione delle forme della sigillata africana (o, come questi, di tipi metallici, in bronzo o in argento). Le due classi egemoni nelle produzioni fini da mensa della Toscana settentrionale interna sono caratterizzate da una pasta avana, depurata, compatta, spesso ricoperta da una sottile vernice rossastra o rosso-arancio, in cui sono prodotte coppe carenate (Fig. 3, 1-2); scodelle-bacino con labbro svasato (Fig. 3, 3) o rientrante, distinto o meno da una marcata carenatura, repliche della forma Hayes 61 (Fig. 3, 4); vasi a listello (Fig. 3, 5-6); il fondo è di regola piano (Fig. 3, 7). Nelle forme chiuse, in stato di estrema frammentazione, è appena intuibile il ruolo egemone dell’olpe con corpo ovoide, piede ad anello o a disco, la cui morfologia è compiutamente apprezzabile nelle restituzioni dal reimpimento di un pozzo dell’insediamento rurale di Fossa Nera A di Porcari, nella piana di Lucca (Fig. 5; Ciampoltrini 1998, 289-290, fig. 1). Il repertorio morfologico è sostanzialmente identico a quello in uso per una classe caratterizzata da un vero e proprio sistema decorativo, con motivi geometrici affidati a linee in rosso, e di una produzione che impiega una depuratissima pasta bianca, talcosa, cui è di norma associato ancora un sistema decorativo geometrico in rosso. Più che dai rari frammenti dei contesti lucchesi, la classe, nel repertorio morfologico e dei sistemi decorativi, emerge dai complessi di Fiesole, di Firenze, di Empoli – oggetto di una recentissima, sistematica trattazione (Filippi 2007) – che orientano a cercarne l’area produttiva in centri manifatturieri disposti lungo l’Arno, dai quali dovrebbe essere stata distribuita in tutto l’ambito, subregionale, della Toscana settentrionale. Vivacità e qualità delle produzioni locali sono tali – si direbbe – da circoscrivere l’acquisizione dei manufatti distribuiti dai circuiti commerciali mediterranei. Rispetto alla sostanziale omogeneità delle produzioni da mensa, è decisamente più articolato il sistema delle forme da fuoco. La tenue concorrenza proposta dalle estreme produzioni africane da cucina – comunque presenti – è affrontata da botteghe che elaborano una serie di varianti di un impasto rosso-bruno, con minuti inclusi granulari, eterogenei, che potranno per esigenze di sintesi essere definiti ‘sabbiosi’; nello stato di frammentazione si riconoscono olle ovoidi, con labbro svasato, variamente modanato, prevalentemente provvisto di battente interno per l’appoggio del coperchio (Figg. 3, 8-9; 4, 3); di casseruole, con labbro tendenzialmente piatto (Fig. 3, 10); di scodelle-tegame con labbro rientrante, versione da fuoco del tipo da mensa in ceramica ‘fine’ (Fig. 4, 1-2). La famiglia degli impasti ‘sabbiosi’, esito di una molteplicità di officine radicate nella medesima matrice medio-imperiale ampiamente documentata nel territorio già dall’avanzato II secolo d.C. (Giannoni 2001), è integrata da impasti nerastri, con inclusi medi, calcitici e micacei, con i quali sono prodotte essenzialmente olle, i relativi coperchi, scodelle-bacini. Anche l’autarchia nei consumi alimentari della città tardoantica, evidente nella presenza marginale di contenitori anforici, replica la situazione medio-imperiale. Sola, tangibile eccezione, è la fortuna dell’anfora vinaria dell’Etruria settentrionale, la cosiddetta ‘anfora di Empoli’ (Ostia IV, 279), la cui distribuzione non solo in ambito regionale trova attestazioni continuamente crescenti. A Lucca il vino diffuso in questo contenitore aveva un ruolo egemone almeno già in età severiana, come attesta il contesto di Corte delle Uova, omogeneamente formato da anfore vinarie finite in una discarica al margine nord-orientale dell’area del Foro (Fig. 1 B, A; 7), che a più di dieci anni dalla presentazione nel convegno di Sestino sull’Appennino in età romana e medievale rimane un significativo documento dei traffici transappenninici in età medio-imperiale (Ciampoltrini, Rendini 2003). Il complesso, costituito da frammenti pertinenti ad almeno 24 anfore, è datato entro i primi decenni del III secolo da un’anfora mauretana e dalle anfore di ‘Forum Popili’, presenti con sette esemplari, distinguibili in due gruppi, riconducibili rispettivamente al tipo Ostia IV, 452/Ostia IV, 442 (tre esemplari: Fig. 6, 1-2) e al tipo Ostia IV, 440-441 (=Aldini B/C: Fig. 6, 3-5). Le anfore di Empoli formavano però i due terzi del complesso (16 esemplari, distinti in due gruppi in base alle redazioni dell’orlo e dell’ansa: Fig. 6, 6-13), sottolineando una ripresa – o uno sviluppo – della viticoltura dell’Etruria settentrionale che ha trovato nello stesso territorio di Lucca una prova ulteriore nel sistema di calcatorium e lacus della fattoria del Tosso, 4 km a est della città, datato dai contesti stratigrafici all’età severiana (Millemaci 2004; Ciampoltrini, 2005 b, 64). Dopo un lungo periodo di silenzio archeologico, i contesti lucchesi – e di Palazzo Fatinelli in particolare – attestano la straordinaria vitalità di questa produzione e di questo contenitore anforico: nella US 821 agli almeno cinque esemplari di ‘anfore di Empoli’ (Fig. 4, 4-5) si aggiungono solo due anfore di produzione africana (il contenitore di medie dimensioni Keay XXV: Fig. 4, 6) e uno iberico, l’Almagro 51-Keay XXIII. Si direbbe dunque che nell’Etruria settentrionale si era già formato nel corso del III secolo un ‘bacino commerciale’ subregionale in cui i traffici di vino ‘locale’ assecondavano o accompagnavano l’omogenea e capillare diffusione delle ceramiche da mensa e da cucina delle botteghe locali, capace di acquisire un controllo pressoché completo del mercato, e di favorire una sostanziale omogeneità dei consumi ceramici. In effetti, le restituzioni ceramiche da siti del distretto pianeggiante e in piccola parte collinare che comprende la bassa valle del Serchio, il Valdarno, i rilievi delle Cerbaie, non segnalano apprezzabili distinzioni rispetto alla città. Le stratificazioni del IV-V secolo che segnano la rioccupazione della fattoria del Tosso, nell’agro centuriato lucchese, permettono solo una valutazione qualititativa dei tipi ceramici impiegati in un insediamento precario attestatosi sui ruderi dell’edificio d’età severiana (Millemaci 2004). Decisamente più ampio e attendibile il complesso delle ceramiche finite nei livelli di vita della capanna in materiale deperibile eretta a Corte Carletti di Orentano, sul lato delle Cerbaie che prospetta la pina dell’Auser-Serchio (Ciampoltrini, Andreotti 1989; Fig. 1). Anche per questo complesso l’analitica edizione già proposta invita ad una rapida rassegna. Assenti le sigillate africane, il sistema da mensa è formato esclusivamente dalle due classi di ceramica fine appena descritte a Palazzo Fatinelli; anche il repertorio da cucina è sovrapponibile a quello della US 821 di Palazzo Fatinelli, ma proprio l’evidente continuità fra tipi medio- e tardo-imperiali rende di norma malagevole distinguere i residui d’età severiana e del pieno III secolo, diffusi dalle contigue sedimentazioni medio-imperiali, dai materiali in uso nell’avanzato IV o V secolo. Anche per le anfore, che rivelano comunque la fortuna anche nei siti rurali del vino diffuso con le anfore di Empoli, oltre che delle preparazioni affidate ai più rari contenitori africani e iberici, valgono le stesse considerazioni. La sostanziale omogeneità nei consumi ceramici del territorio sembra in effetti solo marginalmente condizionata, almeno nei distretti comunque contigui alla città, dal rapporto con le vie di comunicazione. Nel’area valdarnese che una piccola centuriazione d’età augustea invita ad assegnare alla pertica di Lucca, alla fondazione di un edificio ecclesiale (una piccola basilica a navata unica, absidata), proprio sulla riva dell’Arno, che genererà la pieve di Sant’Ippolito di Anniano, sono associati livelli di cantiere ben databili grazie alla massa di monete in bronzo degli imperatori della casa di Costantino, fino a Giuliano, che vi finirono (Ciampoltrini, Manfredini 2005, 23-30). Il decennio 360-370 è dunque quello della costruzione della prima chiesa, e di uso delle ceramiche, verosimilmente da parte delle maestranze impegnate nella costruzione del complesso. Le sigillate africane sono meno consistenti che nel complesso urbano, ma se si esclude questo particolare, le produzioni fini da mensa, nelle redazioni con vernice rosso o rosso-arancio, o con decorazione geometrica, sono del tutto comparabili con quelle in uso in città, e altrettanto si può dire per i tipi da cucina, e per i contenitori anforici. Scenari diversi sono proposti invece dal distretto montano amministrato da Lucca, la cui singolare vitalità tardoantica parrebbe riferibile proprio alle opportunità economiche offerte dalle selve montane, sia per la produzione del carbone indispensabile alla metallurgia cittadina, che del legno per l’armamento navale, che doveva giungere a Pisa, replicando una tradizione già segnalata da Strabone e destinata a perpetuarsi fino al Rinascimento, con la fluitazione lungo l’Auser-Serchio. Sono forse boscaioli e pastori ad alimentare la frequentazione delle grotte, a scopo verosimilmente sacrale (‘le grotte delle Ninfe’, ancora una volta in plausibile continuità con le ‘grotte delle Fate’ del Rinascimento), che rimane uno degli aspetti peculiari della Garfagnana in età medio- e tardo-imperiale (Ciampoltrini, Spataro 2008). Particolarmente indicativo è il caso della Grotta dei Cinghiali, che si apre nella Pania di Corfino, esplorata a più riprese negli anni Ottanta del secolo scorso, che ha restituito un piccolo nucleo di ceramiche ben databili anche per l’associazione con una consistente serie di monete in bronzo, scaglionate fra la metà del IV e la metà del V secolo, verosimilmente depositate nell’antro per scopo cultuale (Fig. 7). È possibile che anche la suppellettile ceramica fosse impiegata nel culto, forse come contenitore di offerte alimentari che potevano alternarsi con quelle monetarie; la presenza di un raffinato piatto di forma Hayes 50 B con decorazione stampigliata (Fig. 7 B), rarissima non solo nella montagna, ma anche nei contesti urbani, potrebbe essere più facilmente comprensibile in questa prospettiva. Siano riferibili alla pratiche del culto, o ad una mera frequentazione di un riparo naturale, le ceramiche non mostrano distonie rispetto alle restituzioni urbane, anche se si dovrà sottolineare la peculiare fortuna del vaso a listello, con vernice rossa (Fig. 7 A, 1-3), anche rispetto alle produzioni d’impasto (Fig. 7 A, 4-5). Assai più risolutive, per definire il repertorio ceramico in uso nell’Alta Valle, si sono rivelate le stratificazioni esplorate fra 1989 e 1991 a Volcascio, sul fianco di un rilievo che prospetta immediatamente, da destra, il fiume (Ciampoltrini et al. 1991, 699-707). Dell’abitato – il cui nome potrebbe essere stato ereditato dal toponimo moderno (*vicus Volcasius ?) – resta essenzialmente una vasta discarica accumulatasi lungo il pendio, e fra le restituzioni spicca una statuetta in giallo antico di Abundantia, già presentata come straordinaria testimonianza archeologica della continuità dei culti pagani nella Tuscia attestata da Rutilio (Ciampoltrini 2001 a). La datazione del complesso, affidata al momento dell’edizione dei primi saggi (1991) essenzialmente alle esigue attestazioni di sigillata africana, con le forme 67, 61, 60 (Fig. 8, 1-3), è ormai confermata anche dalle tipologie di ceramica fine da mensa, nelle redazioni con pasta avana verniciata, e ancora con pasta avana e bianca, verniciate o con decorazioni geometriche, di solito appena intuibili sotto le concrezioni o la corrosione dovute alle particolari condizioni di giacitura dei materiali (Fig. 8, 4-7). La massa dei materiali dei saggi 1991-1992, rimasta sin qui inedita, permette però di cogliere i caratteri peculiari dell’insediamento dell’Alta Valle. Benché le ceramiche fini da mensa siano disponibili, acquisite dalla stessa rete commerciale che fa giungere anche in questo distretto il vino dell’Etruria settentrionale, con le anfore di Empoli (Ciampoltrini et al. 1991, 706; Notini in Ciampoltrini 2001 a, fig. 5), tanto le necessità del fuoco, che quelle di presentazione alle mensa del cibo, sono quasi esclusivamente soddisfatte da due peculiari classi d’impasto, sostanzialmente omogenee. In queste vengono modellate, con una ampia gamma di varianti del tipo-base, le due forme che sembrano esaurire le necessità di suppellettile ceramica del sito: l’olla e la scodella-tegame. Si dovrà ovviamente valutare – con maggior attenzione per un sito montano, in area boschiva – la concorrenza di suppellettile in legno con quella ceramica. Tipologia degli impasti e caratteristiche del sistema decorativo permettono di definire due ‘famiglie’ di produzioni, riferibili a due distinti centri manifatturieri, certamente contigui e radicati nella stessa tradizione, se non addirittura a due botteghe che si dovevano contendere il particolare ‘mercato’ di questo insediamento e di questo distretto. In un impasto bruno-scuro caratterizzato dalla sostanziale prevalenza di eterogenei inclusi granulari (‘sabbiosi’), misti agli inclusi calcitici che generano i caratteristici vacuoli, sono prodotte scodelle-tegami con labbro rientrante (Fig. 8, 8), caratterizzati di norma dal profilo arrotondato, e olle globulari, con fondo piano, labbro svasato, profilato in modo da far risaltare la risega d’appoggio del coperchio, per le quali viene elaborato un sistema decorativo – comunque di uso non generalizzato – che alterna fasci di linee ondulate e rettilinee incise a pettine (Fig. 8, 9-12). La seconda famiglia è caratterizzata dalla prevalenza nell’impasto degli inclusi calcitici rispetto a quelli sabbiosi. L’olla compare nella redazione caratterizzata da un brevissimo labbro svasato (tipo A: Fig. 8, 13-23), possibile antecedente del tipo altomedievale comune nella Garfagnana, e in quella con labbro più ampio, provvisto di risega (tipo B1: Fig. 9, 1-8); la contiguità fra i due tipi è tuttavia dimostrata da una sequenza di versioni che restituiscono pressoché tutte le possibili varianti intermedie. Il secondo tipo, tuttavia, si presenta anche in una redazione caratterizzata da un diametro alla bocca pressoché equivalente a quello massimo, con labbro quasi orizzontale (tipo B2: Fig. 9, 9-10), che tradisce il modello proposto dalle casseruole attestate in area urbana a Palazzo Fatinelli, e, di conseguenza, la maggiore sensibilità del vasaio ai tipi – o agli usi culinari – diffusi in città e nella piana. Negli impasti vacuolati è più raro il sistema decorativo con fasci di linee incise a pettine (Fig. 8, 13, 18 e 22), mentre compare un sistema decorativo plastico, con listello applicato o solcature impresse a tacca, oblique (Fig. 8, 17 e 19), che caratterizza in particolare le scodelle-tegame con labbro rientrante, spesso arricchiti sulla carenatura da solcature oblique (Fig. 9, 11-17). Nonostante la contiguità alla via d’acqua e alla via di terra che percorreva la Garfagnana collengando Lucca a Parma, la distanza dai centri manifatturieri che riforniscono la città e il suo distretto sembra dunque imporre una selezione che consente solo a un ristretto nucleo di produzioni ‘fini’ di giungere nel distretto montano, e favorisce l’attivazione di botteghe ‘locali’, che semplificano il repertorio morfologico subregionale, adeguandolo alle rigorose esigenze funzionali, pur senza rinunciare ad una componente decorativa, che potrebbe essere letta come equivalente, nelle dure redazioni degli impasti, delle decorazioni geometriche dipinte su bacini, coppe, vasi a listello. Se già si è osservata nell’Etruria – si veda ad esempio il caso dell’agro cosano e delle isole antistanti, più volte analizzato — la cesura fra la fascia costiera, in cui massicce acquisizioni di beni alimentari di importazione si associano alla prevalenza, negli usi della mensa, delle sigillate africane, e i distretti rurali o le città dell’interno, come Lucca, non coinvolte nelle forniture pubbliche, militari (potrebbe essere questo invece il caso di Florentia o di Fiesole), in cui le produzioni regionali hanno un ruolo prevalente, l’Appennino lucchese sembra dunque proporre un terzo livello di organizzazione della produzione e del commercio delle ceramiche, anticipando già nel IV secolo aspetti e caratteristiche delle manifatture altomedievali.

Riferimenti bibliografici

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Didascalie alle figure

Fig. 1. Siti della Valle del Serchio citati nel testo (A); contesti tardoantichi di Lucca (B).
Fig. 2. Strutture e stratificazioni tardoantiche nello scavo di Palazzo Fatinelli in Lucca.

Fig. 3. Tipi ceramici dalla US 821 di Palazzo Fatinelli.

Fig. 4. Tipi ceramici dalla US 821 di Palazzo Fatinelli.
Fig. 5. Olpai dal riempimento di un pozzo nell’insediamento di Fossa Nera A a Porcari (Lucca).
Fig. 6. Anfore dal contesto di Lucca, Corte Uova, scavi 1987.
Fig. 7. Ceramiche dalla Grotta del Cinghiale nella Pania di Corfino.

Fig. 8. Tipi ceramici da Volcascio (Castelnuovo di Garfagnana).
Fig. 9. Tipi ceramici da Volcascio (Castelnuovo di Garfagnana).

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