mercoledì 8 luglio 2009
Archeologia della trivella: paesaggi sepolti e astuzie inutili
Se l'archeologo lavora necessariamente per dati sparsi, isolati, frammentari, ricuciti per estrapolazioni e interpolazione, nulla può essere più eccitante che pretendere dal puntinato delle trivellazioni che cercano il suono dei metalli sepolti, possibili cariche di morte, i paesaggi sepolti. Frammenti di terra che la trivella risucchia e scarica, da ricomporre in sequenze stratigrafiche, da scandire a loro volta in sezioni che traccino alvei fluviali sepolti, dossi, ambienti interdossivi, paludi e campi. L'affannosa ricerca del corso dell'Auser morto nelle paludei dell'Alto Medioevo si trasforma in ombra di certezza quando limi bluastri dominano nella terra sputata, sotto le sabbie, sotto le argille. Dato scientifico o illusione?
Frontiera in movimento dell'archeologia, l'archeologia del paesaggio ha i contorni vaghi degli strati disegnati da buche vicine e lontane, in questa parte di Toscana dove tutto sembra chiaro visto dall'alto, tutto – o quasi – diviene indefinibile visto da vicino, nell'impasto di sabbie e limi, giallo e blu, legni fossili. E ogni fila di nuove buche, ogni rapida penetrazione del tortile strumento nel cuore della terra, suscita nuove attese. Splendida metafora, se solo si potessero apprezzare certe finezze, sotto il sole, prosciugati dal vento, in attesa di una pioggia che lustri le zolle.
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