Lunghi i giorni in ospedale, attesa del peggio, per essere preparati ... e in effetti, sì, non sempre può andar bene.
E nelle notti dai sonni spezzati e poi ripresi, cosa di meglio che andare agli ultimi giorni sereni, d'agosto, quelli sul fiume che giunge a Roma, e all'improvviso, dalla memoria del telefonino, solo legame con l'oltre le pareti, si manifesta l'immagine della pagina del Minto che rammenta la perduta iscrizione di Colledestro, sul fiume che giunge a Roma, Pieve Santo Stefano, le rupi del Fumaiolo, aria fresca quando tutto si attribuiva al caldo. E invece no, era il male che stava sprecando il sangue.
Anni e anni, dacché l'architetto Andrea, amico di amici e amiche, Andrea Gori, la mostrò. Troppo facilmente liquidata come «boh!», ora che le notti sono disponibili alla fuga, e il telefonino ti dà cose inattese, beh, dopo il boh! si può ripensare.
E certo l'erudito valtiberino del Seicento poteva sapere che il prenome dei Sulpici è spesso Ser(vius, o che altro)? E perché avrebbe dovuto fingere che Cellina era un nome di schiava singolare, e non piuttosto Marcellina?
Ma sì, ha ragione Andrea, architetto Gori, l'iscrizione è buonissima, se non ottima, una dedica al Fiume dell'Urbe e alle sue Ninfe, di un liberto di un Ser. Sulpicius, e della coniuge. Il resto non si sa.
E forse l'erudito non sapeva che Sulpicia, che negli anni di Augusto cantò i suoi torridi amori e paventava il fiume freddo nella campagna di Arezzo, proprio qui, dove il Tevere è freddo e la terra era di Arretium, che come scrisse Plinio, vedeva nascere il fiume sacro, non voleva andare, lontana da Roma e dal suo amore.
Non se lo può essere inventato, no ...
E si cerca di nuovo di dormire, seguendo le danze delle Ninfe del Tevere intorno al padre barbuto, recumbente, con vaso da cui nasce il fiume.
Come qui, ai piedi delle fresche rupi del Fumaiolo.
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