Antiche pagine, un po' sepolte, un po' dimenticate, nell'oblio della Terra dei Quattro Fiumi, un po' inariditi nonostante le acque di questi giorni.
GLI ETRUSCHI DI TERRICCIOLA
Il recupero di un patrimonio archeologico
dall’Arciprete Giovannelli (1729) al Gruppo
Tectiana (2003)
L’arciprete Giovannelli
e
i ritrovamenti della metà del Settecento
«Il prelodato Arciprete Giovannelli nella surriferita
Relazione ci ragguaglia che fin dal 1729 tempo in cui egli la scrisse, si
scoprirono già nel lavorare quei Terreni dei Monumenti sepolcrali spettanti ai
Gentili».
Il cenno del Mariti, che al volgere fra Sette- e Ottocento poteva
mettere a frutto nel suo Odeporico quasi un secolo di indagini e di
ritrovamenti archeologici, è deciso – nella sua sinteticità – nel far risalire
all’Arciprete Francesco Orazio Giovannelli l’inizio dell’attenzione per le
antichità del territorio di Terricciola.
L’‘atto di nascita’ dell’archeologia in questo lembo di Valdera, in
effetti, è segnato dal memoriale che in latino non privo di eleganze il
Giovannelli stese su Terricciola in quell’anno, e che – confluito interamente
nell’opera del Targioni Tozzetti – è ancora un prezioso documento della cultura
locale ai primi del Settecento, con una parte del clero assai attenta al rapido
maturare di attenzione per le antichità dell’Etruria che caratterizza la
capitale del Granducato negli anni che vedono la pubblicazione del De
Etruria regali del Dempster. Particolarmente raffinata è la citazione di un
recente ritrovamento archeologico come ‘prova’ documentale della più antica
storia del territorio:
«... Hic vitam duxisse homines superstitiosae Gentilitatis addictos
ex hoc coniicitur, quia interdum inter effodiendos agros sepulchralia monumenta
eruuuntur, cum Idolis vel aereis, vel marmoreis, uti proximis elapsis diebus
egomet vidi fragmenta cuiusdam sepulchralis urnae recens erutae, cui insculptae
circum erant pro ornatu Deorum Manium imagines, celatum quidem opus non rudis
illius aetatis artificis ...».
Lo stesso Giovannelli, che ha per Terricciola un ruolo comparabile a
quello che il curato della chiesa di San Michele di Celli, don Martino Gotti,
svolgerà nel Pecciolese qualche anno dopo, informando tempestivamente la
Colombaria di un ritrovamento avvenuto nel territorio della sua cura, e facendo
giungere i reperti nella collezione di Anton Francesco Gori, è protagonista della felice stagione dell’archeologia
terricciolese che va dal 1752 al 1756.
Sembra arduo, in effetti, non riconoscere l’opera del Giovannelli
nella cultura ‘museale’ che, nel 1752, recuperando solo in apparenza la
tradizione del reimpiego, privilegia la conservazione in situ dei
monumenti ritrovati, e induce quindi a collocare nella facciata della canonica
l’urna con scena di Atteone sbranato dai cani ritrovata nell’area della
Parrocchiale, prova evidente dell’antichità del castello di Terricciola (figg.
1; 2, 1). Nonostante il silenzio del Targioni Tozzetti su
questo ritrovamento, la testimonianza di Niccolajo Funaioli, arciprete di
Terricciola sul finire del secolo, e l’asciutto memoriale, bene informato,
conservato nei fondi manoscritti della Biblioteca Nazionale di Firenze, che fa
la cronaca dei ritrovamenti nel Terricciolese fra 1752 e 1756 sono concordi nel
riferire del ritrovamento:
«L’Urna funeraria che è nella facciata di questa
mia canonica fù ritrovata nel 1752 a piè dei muri del Coro di questa mia chiesa
al Ponente, nell’escavazione dei fondamenti della nuova Fabbrica della
soppressa Cantoria del Rosario»,
precisa il Funaioli, mentre l’anonimo memorialista, assai vicino al
Giovannelli, può annotare che
«circa all’anno 1752 nell’escavazione dei
fondamenti di una nuova fabbrica, che presso i muri della Chiesa Parrocchiale
dalla parte del Ponente si costruiva per uso della soppressa Cantoria del SS.mo
Rosario furon trovati nel Sabbio diversi rottami di fibule, e vaselletti di
rame con un Sarcofago Etrusco, che di presente si vede incassato nella facciata
della casa canonicale dall’ingresso della Chiesa».
Se la tomba, apparentemente disfatta, il cui periodo di impiego è
fissato dall’urna, collocata da Marisa Bonamici sullo scorcio finale del II
secolo a.C., conferma che l’area castellana di Terricciola fu
già sede di un insediamento etrusco almeno in età ellenistica, e che la
tradizione della struttura ipogea, di cui stanno fortunatamente riemergendo,
con un appassionato recupero, le vestigia monumentali, può essere serenamente
collocata in continuità con i sepolcreti della comunità etrusca che aveva un
punto nodale del suo sistema di insediamento nell’acropoli di Terricciola, di
datazione più incerta è la tomba emersa a poca distanza dal castello due anni
dopo. Ancora una volta, il memoriale della Nazionale si aggiunge alla
testimonianza del Giovannelli:
«Con lettera de’ 9. Aprile 1754. il suddetto sig.
Arciprete mi diede notizia, che certi Contadini del suo Popolo, nel fare le
fosse trovarono dentro al Sabbio duro e asciuttissimo una fossa, o sepoltura,
colle ossa di un cadavere umano, di statura assai maggiore della comunale,
colla faccia a oriente, con alcuni vasi intorno di Terra cotta, ed un’Ampollina,
o vogliasi dire Lacrimatorio di un sottile, e leggerissimo Vetro di colore
celeste opaco, cioè poco trasparente, e quasi come punteggiato di bianco, e
lungo quasi due Pollici, fatto graziosamente a foggia d’Ampollina, col collo,
ed orlo rivolto, ed in fondo ha una punta lunga tre linee, smussata, sicchè
tutto il Lacrimatorio vien’ad essere della figura presso a poco delle antiche
Anfore Vinarie, ma senza Manichi, o Anse».
Convergente, ma non identica, è la testimonianza del memoriale
anonimo, che precisa anche la località del ritrovamento:
«Nel 1754 in un Effetto del Sig.re Franc(esc)o Maciughi Nobile
Fiorentino in distanza circa 100 passi dal Castello per la parte di Levante fu
scoperta nel lavorare la terra una semplice fossa nel Sabbio con dentro le ossa
di smisurato Cadavere colla spada al fianco con alcuni vasellami di terra di
colore, e figura diversa».
L’accenno alla spada, se non è frutto solo dello stupore dell’attimo
della scoperta che traspare nell’evidenza data alle smisurate dimensioni
dello scheletro – un topos consueto, favorito anche dalla dislocazione
delle ossa – potrebbe permettere di spostare la tomba della ‘proprietà Maciughi’
(fig. 1) da una generica età romana, nella quale indurrebbe a collocarla il
meticoloso riferimento del Giovannelli al Lacrimatorio, all’Alto
Medioevo, sulla scorta delle dotazioni di ceramiche e vetri che caratterizzano tombe
di guerrieri della prima età longobarda; ma l’evidente ambiguità di lettura
delle descrizioni settecentesche dissuade dal dare corpo eccessivo a ipotesi
comunque destinate a rimanere senza possibilità di verifica.
Decisamente più concreti sono invece i dati sul ritrovamento occorso
ancora a distanza di due anni, a Poggio alle Tane (fig. 1). In questo caso il
Giovannelli fu protagonista non solo della ‘gestione’ del rinvenimento, ma
anche dei rapporti con l’autorità granducale che, con il motu proprio del
1750, aveva sottoposto ad una precisa disciplina i ritrovamenti archeologici in
Toscana, prevedendo – in sostanza – l’obbligo della segnalazione all’autorità
centrale, e la divisione in tre parti, spettanti una al ritrovatore, una al
proprietario del terreno, la terza al Demanio, dei materiali rinvenuti. Grazie all’inventario dei materiali trasmessi all’Antiquario
Antonio Cocchi, per il tramite degli uffici fiscali granducali, riemerso dai
fondi dell’Archivio di Stato di Firenze
con l’attenta indagine cui è stata sottoposta l’opera del Cocchi, è possibile integrare, confermandone l’affidabilità,
il memoriale della Nazionale, decisamente più ricco di dati di quanto non sia
il sunto che il Targioni Tozzetti offrì della segnalazione del Giovannelli.
Il Targioni Tozzetti, in effetti, concentra la sua attenzione –
tradendo l’anima del naturalista – sui processi di degenerazione cui il bronzo
e l’ambra sono sottoposti:
«Nel 1756. mi diede notizia che vicino a
Terricciola era stato scoperto un Sepolcro Ipogeo Etrusco, dond’egli ebbe, e mi
mandò certi rottami di Fibula di rame con una patina smeraldina bellissima, e
molti frammenti di vasetti a foggia d’Ampolle, di Rame assai sottile, tirati
con gran maestria, ma tutti rosi e macerati da Verderame smeraldino, nel quale è
notabile una sottile graziosa incrostatura di piccolissimi ingemmamenti azzurri
di Vetriolo di Rame. Finalmente vi fu trovato, e mi mandò un pezzo d’Ambra
gialla, lavorata in figura d’una piccola ciambella, col foro nel mezzo, la
quale nella superficie per ogni intorno è screpolata, e decomposta quasi in
terra pallida, ma bruciata tramanda il suo odore d’Ambra; nell’interno poi
conserva una sua sostanza trasparente, ma tutta retata di linee che pendono
nell’opaco. La sua figura ci rende credibile che abbia servito per capo, ed
ornamento di qualche Legaccia; e soprattutto è notabile quanto ell’ha potuto
resistere all’ingiurie del tempo, accanto a diversi lavori di Rame, che sono
tutti corrosi e sfacelati».
Il memoriale della Nazionale, come si è detto, è particolarmente
accurato, e offre informazioni ancora insostituite sull’architettura tombale d’età
etrusca in Valdera:
«In un antico Sepolcro Ipogeo scavato nel Sabbio,
scoperto nell’anno 1756 casualmente da certi contadini in una Collinetta
chiamata Poggio alle Tane di proprietà del Sig.re Franc(esc)o Barsotti di
questo luogo, della grandezza per ogni lato di circa B(racci)a 5 [ = m 2,90 ca.] coll’ingresso a mezzo giorno
serrato da un grosso lastrone di pietra del Paese, distante dal Castello un
quarto di miglio verso il Levante furono ritrovati quattro Cadaveri, due di
figura gigantesca collocati unitamente dalla parte di Tramontana colla faccia a
Levante, uno dei quali aveva in dito un’anelletto d’oro del valore di lire 18
in circa, e gli altri due Cadaveri, che dimostravano di essere di piccoli
Fanciulli erano collocati al Ponente colla faccia a mezzo giorno; e dalla parte
di Levante vi erano due Sarcofagi, e molti vasi di terra con alcuni di vetro di
figure diverse, e di diversi colori, e per ordine del Governo dové tutto
mandarsi a Firenze, a riserva dei Cadaveri già tutti disciolti».
Il fascicolo dell’Archivio di Stato di Firenze che conserva i
documenti relativi ai ‘premi di rinvenimento’ degli anni Cinquanta e Sessanta
del Settecento non solo conferma che in effetti i materiali
furono sottoposti al Cocchi, come del resto già emergeva dai fondi archivistici
degli Uffizi, ma offre un elenco particolareggiato degli
oggetti valutati:
A dì 16 febbraio 1756
Nota dell’app(res)so Medaglie, e frammenti di
antichità stati rimessi all’Imperiale Guardar(ob)a gen.le di S.M.I. dal Rev.do
Sig.re Arciprete del Comune di Terricciola per mezzo dell’Ill.mo Sig. Domenico
Brichieri Colombi G.le Auditore Fiscale, e dal med.o asserito essere il tutto
stato trovato da Francesco Turchi, e Antonio suo nipote nello scavare la terra
in un campo di proprietà di Francesco Barsotti in detto Comune di Terricciola
Un’anello d’oro puro senz’alcuna impronta di forma
antica, pesa d.ri 3 e g.ni 12 [ =
g 4,1]
Tre frammenti di bottoncini d’oro infranti di
foglietta sottiliss.a, pesano g.ni 8
[ = g 0,4]
Una piccola statuina di bronzo antica in figura di
un grifo
Una medaglia di bronzo di mezzana grandezza con
iscrizione e testa di Giulio Cesare, e di Caio Clovio
Una medaglia piccola d’argento, Denario della
famiglia Antistia
Una moneta piccola d’argento, con iscrizione e Arme
di un Signor di Carrara
Altra medaglia piccola d’argento antica romana col
ri(tra)tto e inscrizione d’un Imperatore
Tre medaglie di bronzo di mezzana grandezza con
testa, e inscrizione di Cesare Augusto
Una detta maggiore di rame, con iscrizione e
ritratto del Pontefice Clemente Settimo
Sei medaglie di bronzo romane, che 4 con
inscrizione mezzane, e due piccole. Si credono denari antichi con vestigie d’inscrizioni,
e Tipo nel più consumato, con qualche conoscenza d’inscrizioni e teste d’Imperatori
Una cassa sepolcrale piccola di terra bianca antica
lunga s. 18 [ = cm 52], alta e larga s. 12 [ = cm. 35] formellata fuori e
in parte tinta rossa, con quattro piedi sotto, e suo coperchio a pendice simile
Un vaso a foggia di coppetto di terra rozza rotto
in due pezzi, con due manichi simili
Un vaso a forma di ciotola di terra simile
Un vasetto et un mezzettino di terra sudd. con suo
manico a ciascuno
Un frammento di vaso simile antico di terra etrusca
con manico da una parte
Una lastretta tonda di marmo bianco con foro nel
mezzo
Una detta simile, con foro nel mezzo intorno ad un
chiodo
Un frammento d’impugnatura da spada di marmo sud.
Uno simile di ferro affatto corroso
Un pezzo di dente d’elefante petrificato
Un pezzo di terra solida color di pietra morta
Un pezzo di creta cerulea con qualche vestigio
geroglifico».
Lo stesso fascicolo contiene un foglio sciolto che conferma che i
materiali non suscitarono particolare interesse nel Cocchi:
Per la Galleria di S. M. Imp.le potrebbero convenire
solamente
1. L’anello d’oro senza alcuna impronta per la
rarità della forma
2. La statuetta o figura di bronzo rappresentante
un Grifo
3. La Medaglia di bronzo di mezzana grandezza coll’inscrizione
di Giulio Cesare e di Caio Clovio
4. La medaglia piccola d’argento Denario della
famiglia Antestia
5. Moneta piccola d’argento con inscrizione ed arme
d’un signore di Carrara.
L’eterogeneità dei materiali impone di valutare con cautela i dati di
associazione; non è da escludere, in particolare, che nel ritrovamento di
Poggio alle Tane si siano conglutinati il complesso della tomba, e altri
oggetti sporadici, forse ritrovati nel corso degli stessi lavori. Il pezzo
di dente d’elefante petrificato, in effetti, è assai difficilmente
associabile ad una tomba, e solo ipotizzando un reimpiego lunghissimo –
apparentemente incompatibile con l’eccellente lettura degli scheletri che fu
possibile all’atto del rinvenimento, seppure attestato a Terricciola anche dal
ritrovamento dell’Antica –
sarebbe possibile riferire alla tomba la serie di monete romane, scaglionate
dal II secolo a.C., con il denaro della famiglia Antestia, databile al 146 o al
138 a.C., agli estremi anni della Repubblica, con la medaglia
di bronzo di mezzana grandezza con iscrizione e testa di Giulio Cesare, e di
Caio Clovio, facilmente identificabile con la coniazione di Caio Clovio del
45 a.C., nonostante il ritratto esibito sia non quello di Giulio Cesare, ma un
busto della Vittoria; infine, alla piena età imperiale.
Più coerente sembra il quadro offerto dai materiali ceramici e dalla
sola urna descritta, dei due sarcofagi di cui parla il memorialista
della Nazionale. Di terra bianca antica ... formellata fuori e in parte
tinta rossa, con quattro piedi sotto, e suo coperchio a pendice simile, l’urna
è evidentemente riconducibile alla produzione volterrana o in tufo, o in
terracotta ad imitazione del tufo, di urne con cassa modanata ad imitazione dei
tipi lignei, completata di decorazione dipinta, e con semplice coperchio
displuviato: complessi tombali cittadini, o del territorio, anche in contesti
prestigiosi come quello dei Calisna Sepu di Monteriggioni, o di
Barberino Valdelsa, attestano la lunga durata del tipo (fig. 2, 2 a-c), che va
dalla prima età ellenistica, se non ancora prima, fino ad esemplari con fronte
corniciata presenti in complessi tombali degli estremi anni della Repubblica, e alle urne prodotte ancora in età imperiale nell’intera
Etruria settentrionale; più ristretto sembra l’arco cronologico delle
urne in terracotta, il cui limitato repertorio morfologico offre – a differenza
di quello dei prodotti in tufo – tipi meno facilmente riconducibili alla
descrizione dell’urna di Poggio alle Tane. Se dunque la mancanza di accenni a manufatti a
vernice nera nell’elencazione delle ceramiche che formavano il corredo degli
almeno sei defunti di Poggio alle Tane potrebbe addirittura invitare a seguire
le suggestioni di Stefano Bruni, con la precoce datazione proposta per l’urna
di Celli, nell’assegnare ad orizzonti pre- o
proto-ellenistici Poggio alle Tane, non è neppure impossibile recuperare nel
denaro della gens Antestia un termine di riferimento per la datazione
nell’avanzato o finale II secolo a.C. di una fase almeno della frequentazione
della tomba.
Un cenno infine alla statuetta o figura di bronzo rappresentante un
Grifo, che potrebbe essere riconosciuta in applicazioni in bronzo ancora
conservate nel Museo Archeologico di Firenze, come il bellissimo esemplare
(inv. 676; fig. 2, 3) ad ali spiegate che doveva fungere da pieduccio di un
mobile o di un contenitore in bronzo, o il più modesto esemplare a tutto tondo
inv. 681. L’asciutta descrizione, infatti, non consente di confortare per il
momento l’identificazione, così come di arduo riconoscimento fra i materiali
museali di Firenze sembrano le oreficerie.
La pianta, perfettamente ricomponibile grazie al memorialista (fig.
3), apparenta strettamente l’ipogeo terricciolese a quelli urbani ben noti nel
sepolcreto della Badia, e fa della tomba di Poggio alle Tane, nel
quadrante nord-occidentale del territorio volterrano, un ‘gemello’, di
dimensioni appena inferiori, della tomba scavata intorno al 1789 a Spicciano,
nel territorio di Castellina Marittima (fig. 3), nella val di Fine che sta
rivelando tracce sempre più vistose – sull’opposta sponda, occidentale – della
cultura e dei costumi funerari pisani, mentre sul lato occidentale rivela un polo
insediativo il cui epicentro è probabilmente da riconoscere intorno a Pastina; grazie alla descrizione del Piazzesi, importante ‘corrispondente’
del Mariti, si ricava infatti che anche questa tomba era a pianta quadrata,
dotata di banchine (non esplicitamente menzionate invece per Poggio alle Tane),
con lato di circa quattro braccia ( = m. 2,30).
Proprietari e ‘archeologi’.
dalla tomba dell’Antica (1792) agli anni
della dispersione
Dai sacerdoti corrispondenti del Gori e del Targioni Tozzetti si deve
giungere alla rete di informatori sul territorio che l’Inghirami tracciava nei
primi decenni dell’Ottocento per aggiungere dati sulla Valdera etrusca.
La pur preziosa opera del Mariti, emulo del Targioni Tozzetti nella
capillare attenzione ai Cippi Acheruntici che grazie alle pagine del Gori erano già divenuti vero e
proprio simbolo dell’archeologia (o antiquaria) della Valdera, non sembra in
effetti capace di penetrare in profondità nel territorio, tanto che il più
importante ritrovamento di quel volgere di tempo, avvenuto all’Antica di
Terricciola, finisce per non essergli segnalato, e sarebbe probabilmente andato
perso se a quasi trenta anni di distanza l’Inghirami non ne avesse dato
notizia, e se il protagonista del ritrovamento, Leonardo Gotti, non avesse
scavato nella memoria (o in memoriali), per tracciare quella che resta une
delle pagine più significative dell’archeologia in Valdera. Nel primo tomo dei
suoi Monumenti etruschi o d’etrusco nome, l’Inghirami faceva cenno «che
nel 1792 si trovarono Ipogei con poche Urne in tufo presso Morrona castello
vicino a Volterra ... Le urne di Morrona passarono a decorare il Campo santo di
Pisa»; nel quarto tomo, pubblicava per intero il documento del Gotti:
«Ill. Sig.
Per appagare il di Lei desiderio manifestatomi di
aver conto, e notizia dello scavo, che io feci dell’Ipogeo Etrusco presso il
castello di Morrona le dirò, che nell’anno 1792 facevo fare delle buche per
mettervi Ulivi in un poggio fra Morrona, e Terricciuola alla distanza di un
quarto di miglio chiamato volgarmente Antica. Quivi in una pietra vidi incavati
tre scalini, dopo i quali erano altri scalini nella sabbia che conducevano all’entratura
di un Ipogeo rovinato solo nel mezzo della volta, e con molto spazio vuoto. L’entratura
di esso era serrata con una pietra di questo Bagno a acqua che rimane alla
distanza di tre miglia da Morrona. La stanza era tonda del diametro di sei
braccia [=m 3,55 ca.]: intorno
vi era una panchina nella quale erano situate tre urne cinerarie di
leggerissimo tufo, lisce con i loro coperchi, dove sopra si vedono tre ritratti
di due uomini ed una donna. Presso queste urne furono trovati diversi vasi e
parete di terra cotta, parte de’ quali di vernice nera e piccoli, e con ornati
a rilievo, di buona forma e varia, leggerissimi. Un anfora vinaria, diversi
altri vasi di terra non verniciata, comunemente detti ordinarj, e di forme
variatissime, fra i quali uno de’ maggior vasi ad uso di coppo, ed un vaso di
rame consunto, ed una tavoletta d’alabastro, ma molto consumata; onde non seppi
conoscere che vi fosse stata iscrizione, o basso rilievo o altro. La sua
grandezza era di due terzi di braccio lunga [=cm 40 ca.], ed un terzo
larga. Vari di questi vasi erano nel mezzo della stanza fra la terra rovinata.
Ritrovai varie monete, fra le quali eravi un Triente volterrano col Velatri, la
Clava, ed il Giano; varie monete e pesi romani, nominatamente una moneta di
Augusto ed una di Faustina, della quale ultima non bene mi ricordo. All’ingresso
di detto Ipogeo vi trovai alcune ossa di cadaveri umani, ivi seppelliti a
sterro, con diversi vasi ordinarj, ed un pomo di spada di ferro. La situazione
di detto ipogeo rimane a levante rispetto a Morrona, ed a tramontana
rispettivamente a Terricciuola. Questo e quanto posso assicurarla relativamente
a quanto mi richiede; mentre con tutta la stima passo a confermarmi ... Così il
Sig. Dottor Leonardo Gotti in una sua lett. ms. a me diretta da Terricicuola
nelle colline Pisane nel aprile del 1812».
Integrando la straordinaria relazione del Gotti con i dati offerti dal
Lasinio, che riuscì ad ottenere che il Gotti conferisse le tre urne e 37 vasi
etruschi alla nascente collezione del Camposanto pisano, è stato da tempo
possibile recuperare il complesso dell’Antica, dapprima all’apprezzamento
scientifico, poi anche – almeno in parte – a quello museale,
nell’allestimento di Capannoli, reso possibile anche dalle recenti acquisizioni
sulle complesse vicende che portarono gli avanzi della raccolta di ‘terre’ del
Camposanto di Pisa, nella formazione lasiniana, al Museo Civico della città.
Mentre le urne (fig. 4), recuperate da Marisa Bonamici, si dispongono
fra la fine del III e il pieno I secolo a.C., le ceramiche – in parte
superstiti (fig. 6), in parte maggiore comunque valutabili grazie alle efficaci
riproduzioni del Lasinio (fig. 5) – fanno della tomba dell’Antica la prova più
evidente della riorganizzazione del sistema degli insediamenti che connota
anche la Valdera, come larghi tratti del territorio volterrano, fra la fine del
IV e i primi del III secolo a.C. A questa epoca dovrà dunque essere fatta
risalire anche la costruzione della tomba, che con la sua pianta circolare
(fig. 3) replica un modello prediletto dalle massime famiglie volterrane (la
tomba dei Caecina II, la tomba Inghirami), sulla scala minore che non impone la
realizzazione di un pilastro centrale, chiaramente assente nella tomba dell’Antica,
come traspare proprio dall’accenno del Gotti ad un crollo nel punto centrale
della volta («rovinato solo nel mezzo della volta, e con molto spazio vuoto»).
Il tipo, a sua volta, viene applicato, ancora in scala appena minore,
anche per tombe che, come quella di Chianni (fig. 3), rivelano nella
composizione del corredo il tono decisamente inferiore del gruppo familiare al
quale sono destinate.
Simmetricamente, per i due distretti in cui si articola l’insediamento
della Valdera ellenistica (il Pecciolese e l’area di Terricciola), con la prima
indagine che, come quella attivata dall’Inghirami all’inizio dell’Ottocento,
combina la nascente metodica archeologica con la tradizione dell’antiquaria
settecentesca, si conclude un periodo particolarmente effervescente, durato per
quasi un secolo, per aprirsi una lunga notte: ancora all’Inghirami si devono
infatti le informazioni sulla tomba del podere dei Bufali, nel Pecciolese,
segnalata sul ‘Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica’ nel 1830, che a quasi un secolo dal trovamento di Celli
attestava un sistema di insediamento, fra Era e Roglio, che sta finalmente
ricevendo concrete informazioni dall’esplorazione dell’abitato delle Serre.
Ritrovamenti sui quali mancano dati concreti alimentano collezioni
che, come quella del signor Unis del Mattaccino, finiscono comunque a
collezioni pubbliche, come il Camposanto pisano, mentre a partire dalla seconda metà dell’Ottocento
anche il Museo Civico di Livorno evita la diaspora di parte almeno dei
materiali archeologici che le Colline Pisane e la Valdera continuano a fornire.
La prassi ‘media’ del recupero archeologico nella Terricciola dell’Ottocento
e di gran parte del Novecento sembra comunque piuttosto trasparire da due
carteggi dell’archivio della Soprintendenza per i Beni Archeologici che offrono
interessanti immagini di un atteggiamento della cultura locale non più guidata
dal clero antiquario del Settecento, anche nei suoi rapporti con l’‘autorità di
tutela’ granducale, né dai proprietari ‘illuminati’ della fine del Settecento
che conservano i reperti, per trasmetterli alle pubbliche raccolte.
Sul finire del 1907 la ‘Soprintendenza degli Scavi d’Etruria e d’Umbria’
scrive al Sindaco di Terricciola, giacché, informata dall’Ispettore Onorario di
Pisa della «scoperta di alcuni oggetti antichi di terracotta e di metallo,
fatta recentemente a Badia in territorio di codesto comune, e in proprietà del
sig. Canessa di Livorno» intende ottenere notizie più particolareggiate; il
Sindaco di Terricciola è relativamente tempestivo nel rispondere, il 22 gennaio
1908:
«Solamente ora mi è stato possibile conoscere gli oggetti antichi
rinvenuti nel territorio di questo Comune, nella proprietà del Sig. Canessa di
Livorno. Essi consistono in
= N. 5 veggi di coccio che si ritengono per urne
cinerarie.
= N. 3 anfore.
= Altri pezzami di varie forme di coccio rossiccio.
= Varj vasi di diverse dimensioni e di varie forme
di coccio nero.
= Alcuni piatti e zuppierine di coccio nero.
= Colini di rame in pessime condizioni.
= Spilli di rame.
= Un calamaio con un pugnale.
Tanto in riscontro alla nota di V.S. qui controsegnata.
Il Sindaco (illeggibile)».
La nota, che comunque consente almeno di recuperare la notizia di un
contesto tombale in cui il ruolo di cinerario era affidato a semplici
contenitori ceramici, forse i consueti crateri, non ha alcun esito; si direbbe
per l’evidente tenuità del trovamento, almeno rispetto ai parametri dell’epoca.
Proprio all’interesse indotto da un complesso più corposo, di cui
facevano parte anche urne figurate, si deve invece la pratica avviata pochi
anni dopo dalla Soprintendenza per ottenere informazioni sui materiali
archeologici in proprietà Cempini. L’Ispettore (Onorario) per Lari, Fauglia, e
Peccioli, il dott. Alfredo Masoni, vierne invitato, il 4 dicembre 1912, dal
Soprintendente, Luigi Milani – sulla scorta evidente di una segnalazione
verbale – ad acquisire informazioni sulla raccolta Cempini:
«Mi consta che nella villa del fu cav. Francesco Cempini a
Terricciola esistono due grosse anfore e due urne etrusche scavate or non è
molto in un terreno di proprietà del predetto fu cav. Cempini. La prego di
volermi fornire dettagliati chiarimenti circa l’epoca precisa del rinvenimeto e
inviarmi una fotografia delle urne etrusche».
Ancor più tempestiva di quanto non fosse stata quella del Sindaco di
Terricciola è la replica del Masoni, del 13 dicembre 1912:
«Secondo l’incarico da Lei ricevuto con lettera a me diretta il 4
Decembre mi sono recato a Terricciola alla Villa Cempini, attualmente passata
in proprietà Gotti.
Le due urne cinerarie e le tre anfore non
sono più nella Villa già Cempini a Terricciola. Trovansi attualmente a Cortona
nel Convento di S. Chiara dove
vi furono trasportate da Suor Maria Concetta Cempini Vicaria del Convento. Essa
fu l’unica erede del cav. Cempini, che morì senza far testamento e vendé poi al
sig. Gotti. Queste urne e queste anfore con altri piccoli oggetti furono
rinvenuti a due metri di profondità in una chiudenda detta Vallimozzi in
vicinanza e al di sotto del Cimitero attuale di Terricciola. Relativamente al
tempo in cui furono rinvenute vi è un po’ di discordanza di voce, ma credo
poter dire che lo scavo avvenne circa 12 anni or sono. Le urne, dicesi, sieno
di terra cotta, una con figura distesa e poggiata sul fianco, l’altra con
figura ma senza la testa. I fianchi erano pure ornati di figure allegoriche ...».
La cronaca della dispersione – rotta dall’arrivo al Museo Archeologico
di Firenze, negli anni Trenta del Novecento, di un piccolo nucleo di materiali
ritrovati in proprietà Cempini-Mazzuoli, fra cui spicca una situla in bronzo – è affidata soprattutto ad una tradizione orale
in cui è impossibile spesso sceverare fantasie e ricordi reali, che giunge fino
ai nostri giorni, per esaurirsi, nel 1991, con il ritrovamento di Scannicci,
Grazie al congiunto impegno delle forze locali, del Comune di
Terricciola, della Soprintendenza, giunge anche nella prassi di tutela e di
recupero del patrimonio archeologico la particolare attenzione per la Valdera
che, seguendo i fili dell’antiquaria settecentesca e dei cippi Acheruntici,
da quasi un decennio aveva visto il sistematico recupero dei dati d’archivio o
bibliografici, e prime rassegne dei reperti archeologici sopravvissuti a due
secoli di alterne vicende.
L’attività del Gruppo Tectiana:
nuova luce per il territorio di Terricciola
tra VI e V secolo a.C.
Pur fra perdite gravissime, era in effetti possibile, con un’attenta
collazione dei dati disponibili, ricomporre un quadro coerente ed esauriente
dell’insediamento nella Valdera ellenistica: la sequenza di tombe valutabili
concretamente (fig. 1), o sui materiali superstiti, o dalle fonti
archivistiche, permetteva già nei primi anni Ottanta di tratteggiare la
dinamica di un sistema di abitati che si disloca, sin dalla prima età
ellenistica, al volgere fra IV e III secolo a.C., sulla fertile fascia di
colline che va dall’Era al Cascina, per poi proseguire nell’area di Casciana
almeno con la tomba con urne figurate e ceramica a vernice nera nota da un
cenno dell’epistolario del Mariti, e da qui saldarsi alla sequenza di insediamenti
che si dispone sui versanti, orientale e occidentale, del Monte Vaso. Le
capillari rilevazioni di Stefano Bruni, in un quinquennio di alta intensità della
ricerca, hanno arricchito di particolari un quadro sostanzialmente consolidato.
Le modeste vette – spesso pianori – che punteggiano il sistema
collinare sembrano privilegiate per tombe che, talora con continuità secolare,
come all’‘Antica 1792’, talora invece per periodi più brevi, come a ‘Terricciola-Parrocchiale
1752’, riflettono le vicende di gruppi familiari che proprio l’acquisizione di
urne cinerarie sembra scandire in una gerarchia.
La tomba ‘Badia-Canessa 1907’ potrebbe in effetti esprimere un livello
sociale subalterno, così come il contesto ‘Scannicci 1991’, rispetto alla serie
di tombe qualificate da urne figurate o dalla dotazione di bronzi e di
oreficerie, che comprende l’‘Antica 1792’, ‘Poggio alle Tane 1756’, ‘Vallimozzi
1900 circa’, lo stesso trovamento ‘Terricciola-Parrocchiale 1752’. Queste
delineano proprio il ‘cuore’ del sistema insediativo, marcando la sommità di
rilievi che dominano mediamente lo spazio di un centinaio di ettari –
includendo crinali, fianchi delle colline, fondovalle – che potrebbe in effetti
essere l’area di pertinenza delle singole unità insediativo-produttive, a
carattere familiare, probabilmente integrate da abitati satelliti ai quali
riferire tombe come ‘Scannicci 1991’.
La natura familiare dell’insediamento al quale la tomba fa capo sembra
in effetti trasparire dall’isolamento dei singoli ipogei: non in un caso si fa
cenno a vere e proprie necropoli. Minori sembrano le informazioni offerte dall’architettura
tombale, coerente – in evidente analogia con il tono delle urne cinerarie – con
il livello ‘medio’ cittadino, di Volterra, cui le aristocrazie locali della
Valdera sembrano sostanzialmente omologate.
Se la continuità per tutta l’età ellenistica conferma la stabilità del
sistema sociale del territorio volterrano, la singolare pratica del recupero in
età romana, se non meramente casuale o utilitaria, pone problemi di non ovvia
soluzione per la transizione fra strutture gentilizie della Tarda Repubblica e
ristrutturazione coloniale della Volterra augustea, in un contesto in cui non è impossibile che nuovi
venuti, o coloni, si siano impadroniti di tombe ancora utilizzabili, come l’‘Antica
1792’, o ‘Poggio alle Tane 1756’.
A parte l’accenno del Targioni Tozzetti ai bronzetti dell’Arciprete
Giovannelli, per i quali peraltro la datazione all’età arcaica è solo una
possibilità, rimaneva assolutamente oscuro il quadro dell’insediamento
nel Terricciolese in epoca arcaica e classica, fra VI e V secolo a.C., anche se
merito di Stefano Bruni era stato il recupero di ceramiche di questo periodo
nei fondi Gotti e Unis del Mattaccino del Museo Civico di Pisa, dati con
provenienza da Terricciola, a cui poteva essere aggiunta almeno l’oinochoe,
forse in bucchero, già Unis del Mattaccino, nota dalle tavole del Lasinio (fig.
6).
I ritrovamenti nell’area della Fonte delle Donne (figg. 1; 7) –
identificabile con il luogo Castagno del Targioni Tozzetti, la cui acqua
offriva «un rimedio presentaneo per le Donne prive di Latte, sicchè appena
ne hanno bevuta, se ne ritornano a casa colle mammelle piene di latte»,
tanto da suscitare «certe superstizioni, come d’arrivare per una strada alla
sorgente, e partire da essa per un’altra, lasciar denari o roba vicino alla
medesima» – segnano un possibile luogo di culto, integrato
con un’area insediativa e, forse, con la necropoli indiziata dal cippo con
decorazione fitomorfa incisa che infittisce l’area di diffusione di questa
peculiare classe di monumenti, che concorre ad attestare la solidità dei legami
culturali fra Volterra e Pisa nei decenni di passaggio fra VI e V secolo a.C..
Di particolare interesse appare la frammentaria testina fittile (fig.
8 A), recuperata e consegnata dalla famiglia Campani (la “testa Campani”)
accuratissima nella resa, che, a dispetto delle circostanze favolose del
ritrovamento, certamente tanto idonee a creare entusiasmi per un nuovo sito del
pieno V secolo a.C., quanto a indurre perplessità, si inserisce agevolmente nel
quadro della cultura artistica dell’Etruria settentrionale della pieba ‘età
classica’, intorno alla metà del V secolo a.C.
Particolarmente stringenti appaiono i contatti con la testina fittile
da un possibile contesto cultuale della necropoli di Populonia (fig. 8 C-D), sia nella struttura, ovale, appena arrotondata,
del volto, che nella resa delle palpebre e delle labbra, piccole e carnose;
anche l’acconciatura dell’esemplare fittile di Populonia sembra una versione
corsiva dell’accurato ordito, di tradizione tardoarcaica – coerente con la resa
su bronzetti come la kore di Covignano – applicata alla testa di Fonte delle Donne con la
variante della coppia di treccioline che scendono parallele ai lati del volto,
come per una serie di antefisse chiusine (fig. 8 B) la cui parentela stilistica con il frammento dal
territorio di Terricciola appare evidente anche nella redazione degli
idealizzati tratti del volto.
Accomuna la testa da Populonia a quella di Fonte delle Donne anche la
tecnica, con la modellazione su matrice dei singoli elementi, da saldare in una
fase successiva di lavorazione: le due parti laterali per l’esemplare di
Populonia, la parte frontale, e, forse, il tergo o la lastra di applicazione
finale per Fonte delle Donne.
Nell’insieme, quindi, la datazione proponibile, proprio in aderenza
alle antefisse chiusine cui la ricca attività coroplastica dell’area tiberina
offre solidi punti di riferimento cronologico, nel terzo quarto del V secolo, è coerente con i pur esigui materiali ceramici e
laterizi recuperati con le ricerche del Gruppo Tectiana nell’area del
ritrovamento, e colloca Fonte delle Donne nella sequenza ormai consistente di
nuclei insediativi che domina da sinistra il corso dell’Era (fig. 7): sulla
sommità di Scannicci, nell’area in parte occupata dal castello medievale, l’affioramento
di laterizi e ceramiche (pur esigue) databili fra VI e V secolo a.C., segnala un abitato d’altura; a Tegolaia, e nell’area
stessa di Santo Pietro, insediamenti caratterizzati da strutture straminee,
indiziate da intonaco di capanna, e datati al corso del VI secolo dai pur
esigui frammenti di bucchero nero.
Il sistema di insediamenti d’altura che si profila intorno a
Terricciola ripete il modello già riconosciuto sull’opposto versante della
valle, nel territorio di Palaia, per l’età arcaica grazie soprattutto all’evidenza
di Usigliano q. 203, e Cerreto – cui si sono aggiunti i nuclei di materiali da
Usigliano editi dal Bruni – e, per il V secolo a.C. da Agliatone.
La distribuzione degli abitati d’altura lungo le vie itinerarie
segnate dai fiumi – l’Era e il Roglio – e la possibile associazione del ruolo
cultuale a insediamenti produttivi trova oggi una limpida attestazione nel sito
delle Serre, cui Stefano Bruni da anni dedica le fatiche di archeologo
militante. In attesa della piena edizione del complesso, continua tuttavia ad
essere particolarmente indicativa per la ricostruzione del sistema di
insediamenti tra VI e V secolo a.C. anche l’evidenza di Montacchita.
Nell’autunno del 1978 una serie di sopralluoghi permise di recuperare
sull’acropoli di Montacchita un complesso di materiali proveniente dallo
smantellamento di sedimentazioni rimaste integre fino a quel momento: fu
infatti possibile identificare al margine dell’area sbancata, e recuperare, un
lembo (‘strato A’) di strato antropico, con la caratteristica colorazione
nerastra, ricco anche di resti di fauna, dello spessore di meno di 10 cm,
sopravvissuto per neppure un metro quadrato, che fornì una campionatura di
materiale rigorosamente coerente con quella salvata nella terra di risulta.
Nell’insieme, il lembo di stratificazione integra e il complesso dei materiali
parrebbero riferibili ad un’unità insediativa di dimensioni modeste, di
pochissimi metri quadrati, costruita con materiale stramineo o ligneo, eretta
sul punto dominante del rilievo; ovviamente non è possibile escludere che
questa facesse parte di un più ampio insediamento demolito già dalle opere
medievali, ma l’esame della terra di risulta tendeva a rendere meno probabile
questa ipotesi.
Il complesso delle restituzioni riporta ad un contesto di materiali d’uso
decisamente domestico, in cui concorrono, nella mensa, il kantharos in bucchero
nero (fig. 9, 1-2) e la coppa carenata realizzata in due formati, uno grande
(fig. 9, 3), qui redatto in bucchero nero, e uno ‘medio’, presente soprattutto
in un impasto bruno o bruno-violaceo in superficie, rossiccio in frattura, con
minuti inclusi eterogenei (fig. 9, 4-5), integrati dalla coppetta carenata con
labbro ingrossato, modanato, in bucchero grigio (fig. 9, 7); il piede di queste
forme è sostanzialmente discoidale, incavato (fig. 9, 6). È presente, nella
redazione in bucchero grigio, il coperchio (fig. 9, 8). Le restituzioni in
situ, dello strato A, comprendono l’identico repertorio (fig. 10, 1-3),
mentre la presenza di kantharoi è dimostrata da frammenti di anse. Rara la
produzione figulina d’impasto chiaro, con ingubbiatura biancastra, la cui
comparsa non sembra anteriore allo scorcio finale del VI secolo, attestata da
un fondo di coppa su piede ad anello (fig. 9, 9).
Sono abbondanti le attestazioni di ceramica da mensa e
immagazzinamento modellata negli impasti con inclusi microclastici, nei quali
vengono prodotte olle di vario formato, con labbro rientrante, talora solcato
da una doppia scanalatura (figg. 9, 11; 10, 14), olle con labbro svasato,
appena ingrossato, fondo piano (fig. 10, 15-16; 4-6, dallo ‘strato A’) coperchi
emisferici (fig. 9, 12); forma particolare, forse destinata alla produzione di
formaggio, è l’olla con fondo con forature (fig. 10, 13).
Le corpose disamine disponibili su queste classi ceramiche, e sulla
loro diffusione nel territorio, esimono da un’analisi puntuale dei tipi, di uso
pressoché universale nella frontiera nordoccidentale dell’Etruria del VI secolo
a.C.; si potrà solo annotare che la particolare fortuna
della coppetta carenata in bucchero grigio, riconducibile alla ‘ciotola’ tipo 1
Rasmussen, anche a Volterra, in complessi formatisi prevalentemente nella seconda
metà del VI secolo a.C., invita a non cercare esclusivamente a Pisa il
centro di produzione o di redistribuzione delle ceramiche in uso nei centri
della Valdera, e si dovrà piuttosto sottolineare con forza l’omogeneità della koiné
culturale dell’angolo nord-occidentale dell’Etruria, formata da comunità il cui
elevato tasso di autarchia traspare nella esiguità delle importazioni, che a
Montacchita si limitano a pochi e minuti frammenti di ceramica attica, e a un
bacino d’impasto chiaro (fig. 9, 10), probabilmente prodotto nell’Etruria
meridionale.
I materiali circoscrivono la frequentazione di Montacchita all’arco
della seconda metà del VI, e, al più tardi, agli inizi del V secolo a.C., e
confermano dunque la fluidità del quadro degli insediamenti, legati alle
fortune dei gruppi familiari, o gentilizi, che li costituiscono; su questo
aspetto maggiori informazioni potranno tuttavia essere fornite dallo scavo
delle Serre.
Gli insediamenti d’altura, che più volte si è suggerito di associare
al ceto di maggiorenti rurali che fra VI e V secolo a.C. si dota dei grandi
cippi funerari in marmo, e, in altri settori del territorio volterrano, di
monumenti funerari iconici che presentano il defunto nelle vesti di guerriero,
sono integrati da abitati di fondovalle che, seppure in progressiva ascesa
numerica nel corso del V secolo, sono già strutturati nel corso del VI, come
dimostrano le evidenze del Bientina, e il caso di Nacqueto, e coprono ormai l’intero Valdarno, con le
crescenti evidenze della piana compresa tra Era, Arno, Colline Pisane, in cui
ai siti già segnalati dal Bruni, si possono aggiungere gli abitati emersi dai
lavori dello Scolmatore dell’Arno a Badia di Pontedera (Badia III) e a
Palmerino, di Gello, delle Melorie di Ponsacco. In Valdera l’isolata evidenza dell’Inchiostro è probabilmente solo la punta di un sistema di
insediamenti che, come lungo l’Arno e i suoi affluenti, dovrebbe privilegiare
il dosso che fiancheggia il corso d’acqua.
In questo contesto luoghi di culto legati a particolari virtù di acque
e sorgenti, come appare il caso di Fonte delle Donne, per di più disposti lungo
importanti assai di comunicazione interna dei territori cittadini, possono
svolgere un ruolo che giustifica l’acquisizione di manufatti votivi di
particolare tono artistico, che riflettono con puntualità l’arrivo anche in
questo lembo dell’Etruria settentrionale dei modelli culturali greci.
Didascalie alle figure
Fig. 1. Ritrovamenti archeologici nel territorio di Terricciola.
Fig. 2. 1. L’urna dall’area della Parrocchiale, 1752. 2. Possibili confronti
per l’urna di Poggio alle Tane, 1756. 3. Possibile confronto per il ‘grifo’ da
Poggio alle Tane, 1756.
Fig. 3. Tipi tombali della Valdera.
Fig. 4. Urne dall’Antica, 1792.
Fig. 5. Ceramiche dall’Antica, 1792 (campiti in grigio gli esemplari
indicati a vernice nera).
Fig. 6. A. Ceramiche da Terricciola, già nelle collezioni Gotti e Unis
del Mattaccino, nel Museo Civico di Pisa; da Bruni). B. esemplare perduto (dal
Lasinio).
Fig. 7. Siti con materiali del VI e V secolo della Valdera e del
Valdarno Inferiore.
Fig. 8. La testa da Fonte delle Donne (A) e confronti da Chiusi (B) e
Populonia (C-D).
Fig. 9. Materiali del VI e inizi del V secolo a.C. da Montacchita
(Palaia).
Fig. 10. Materiali del VI e inizi del V secolo a.C. da Montacchita
(Palaia).