sabato 3 settembre 2011
Gli anni dei Murtii riflessi nella polvere della Valdera
Ricorda i giorni condivisi con Augusto e amici altri, in anni di secoli perduti, sul ciglio delle Cerbaie, nella mitica Corte Carletti, per sceverare nella profondità delle buche di palo il senso di cocci e cocci sparsi sul fango fatto pietra, e da pietra divenuto polvere, e poi l'illuminazione di Erodiano sugli opulenti strati del Chiarone, condivisi con Paolo con Bruno e con Pallino, e i sogni dell'archeologo, per dare alla polvere e al fango ancora incorniciato del verde della perduta primavera i colori delle leggi di Pertinace per i beni abbandonati, e il suono delle Storie Pastorali di Dafni e Cloe.
Ce ne vuole di arte onirica per far modellare nell'impasto di terra di resti dell'uomo il lieto passo di Cloe, il delicato maturare di Dafni, feste rustiche dionisiache pirati banditi (non le pestilenze, poco trendy anche allora), pur guidati dai goffi profili voluti dai vasai di Pisa, Rasinii e Nonii e Murrii, ma l'archeologo che arriva nel luogo dell'operosa fatica pieno di polvere ha letto Keats, da giovane, e del bisogno di dar spazio alla fantasia. S'intreccia la sua fantasia con quella del retore che celebrava per senatori ormai esangui, come i patroni di Pisa, forse, incerti se seguire l'imperatore sul Danubio o godersi le gioie della terra, gioie che certo dovevano scarseggiare fra servi e coloni: serene immagini di pastori fervorosi di eros e di operose fatiche di greggi e selve, sfondo perfetto per sarcofagi preparati per celebrare il Signore di Campagna.
Ma se Dafni e Cloe sono sogno di un sogno, e la fatica della terra e la pesca nei fiumi impantanati dalla prima fine del mondo avrebbe presto sfinito Cloe, se il miracolo del riconoscimento non concludesse il vagheggiamento del retore e le attese di matrone senza figli, la storia di Murtia Veriana e Murtia Floriana, o come suonavano al nominativo, e del padre che cura il sepolcro, finito a Peccioli, dalla Valdera, si spera o si sogna, dà suoni e nomi ai frammenti ceramici che attendono la fatica seconda dell'archeologo, dopo quella di averli investigati sulla terra.
E per un attimo la coppa venuta d'Africa, negli anni di Marco o di Commodo suo figlio, se non forse dei Severi padre e figlio e discendenti figli di Siria, chissà, dichiara nomi e cognomi e storie di fanciulle morte di stenti e peste all'archeologo che impasta terra e polvere, e va via seguendo il volo della poiana ritornata sul Cascina, sui segni perduti sotto fiumi e pantani dei coloni di Roma, per riemnergere incisi dal metanodotto, milleottocentoanni dopo, un po' più un po' meno.
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