Per chi il 7 era altrove.
Il
piccolo nucleo di iscrizioni recuperato nel corso di quattro secoli dal
territorio di Capannori offre preziose testimonianze sulla società romana della
Piana di Lucca, in particolare nel corso del I secolo d.C.
Il
frammento di una stele con cornice architettonica, decorata dalle insegne delle
magistrature municipali (il tipico sgabello, detto sella curilis, e i fasci littori), emersa nel 1696 a Capannori,
venne immediatamente trasferito a Lucca nel Palazzo Pretorio, perché
evidentemente ritenuto cimelio delle origini romane della città. Le
caratteristiche del rilievo la fanno datare nella seconda metà del I secolo
d.C.
Anche
altre iscrizioni hanno avuto una storia non meno tormentata e spesso sono state
salvate solo dal reimpiego. Questo è il caso del monumento funerario di cui
sopravvive solo un frammento, murato in facciata della Chiesa di San Rocco a
Capannori. Le poche parole leggibili lo fanno riferire ad un’iscrizione
funeraria, databile entro gli ultimi decenni del I secolo a.C. in base ai caratteri
grafici e alla rarissima particolarità dell’indicazione della vocale lunga (a) con una doppia a, in caaro.
Venne
rimaneggiata per il reimpiego come mensa d’altare nella Badia di Cantignano
l’iscrizione che i genitori Achelous
e Heorte – probabilmente due schiavi,
come indica la mancata indicazione della gens
di appartenenza – posero sulla tomba della figlia Nymphe, con un testo poetico in cui la bambina si rivolge al
viandante ricordando di essere morta quando ancora non aveva sei anni e la
necessità di accettare al volere del Fato. L’iscrizione fu recuperata dal
Ridolfi ed è oggi al Museo Nazionale di Villa Guinigi.
È
invece affissa alla parete esterna della chiesa di Marlia la lastra apposta sul
monumento funerario fatto costruire dal liberto Caius Vagilius Eros per sé e per altre cinque pesone con lo stesso
gentilizio, forse colliberti della stessa persona, oppure membri della sua
famiglia.
Anche
queste due iscrizioni risalgono probabilmente al I secolo d.C.
Della
fine dello stesso secolo è il monumento già conservato nella Badia di Sesto a
Castelvecchio di Compito, decorato nella parte superiore da una corona
pendente, e nel riquadro inferiore da una serie di oggetti resi a rilievo: le
insegne delle magistrature municipali (come per l’iscrizione ritrovata nel
Seicento); una serie di oggetti che potrebbero indicare l’attività
‘professionale’ della famiglia, come la navicella e l’ascia per la lavorazione
del legno, oppure avere carattere simbolico, allusivo al mondo femminile (il
dittico aperto; il pettine; il secchiello). Nella prima età romana, infatti, è
pratica ampiamente conosciuta qualla di dichiarare la professione del defunto
riproducendo sul monumento funerario gli strumenti del suo lavoro; nel caso di
tombe femminili la figurazione di oggetti di ornamento personale è
particolarmente attestata nella Versilia e nel territorio di Luni.
La
presenza di oggetti peculiari del mondo femminile e di quello professionale è
coerente con la dedica della stele. Il testo, infatti, dichiara che questa fu
posta da una donna – Laronia Secunda
– sulla tomba che accoglieva il fratello Lucius
Laronius Rufus e il figlio Aulus
Curius Sacerdos, e in cui sarebbe stata poi sepolta anche lei, assieme ai
suoi discendenti. Il testo, infine, indica le dimensioni dello spazio
sepolcrale contrassegnato dal monumento (quindici piedi, circa 4,5 metri), nel
quale sarebbero stati deposti gli avanzi del rogo funebre; in quest’epoca,
infatti, la pratica dell’incinerazione era esclusiva, come documenta le
necropoli scavata al Frizzone, in cui le inumazioni non compaiono prima
dell’avanzato II secolo d.C.
È
dunque possibile che la figurazione della barca rammenti le attività di fabri navales (o comunque di carpentieri
del legno) grazie alle quali i Laronii
e i Curii avevano avuto la possibilità
di raggiungere il livello economico indispensabile per conseguire la
magistratura municipale – il sevirato, un collegio sacerdotale dedito al culto
imperiale – celebrata dalla sella curulis
e dai fasci littori. Il conseguimento delle magistrature cittadine, infatti,
comportava notevoli esborsi finanziari, per opere pubbliche o per la
celebrazione di giochi. In particolare, la carica di sevir era la sola raggiungibile dai liberti, che quindi si
impegnavano allo spasimo per ottenerla, come segno tangibile del loro successo
sociale.
L’iscrizione
della Badia di Sesto potrebbe avere avuto una lunga storia. Emerse negli anni
Cinquanta del Novecento nel parco della stessa Badia, e fu affissa alle pareti
della fattoria, fino a che, nel 2004, nel quadro del Progetto delle Cento
Fattorie, fu acquistata e trasferita a Porcari. È possibile, tuttavia, che
fosse già stata vista nel Rinascimento. Lo studioso tedesco Wilhelm Kurze,
infatti, ha ipotizzato che fra’ Benigno, che compilò nel Cinquecento una
fantasiosa storia della fondazione dell’Abbazia di Sesto, abbia ricavato il
nome di uno dei personaggi che compaiono in questa storia (Sesto Laboino)
proprio da un fraintendimento o da una alterazione del nome del Laronio,
malamente letto su questa iscrizione, che diveniva di conseguenza prova
documentale della storia dell’Abbazia.